2
nella fase di stesura del primo capitolo (la biografia dell’autore), per
due motivi.
Il primo di carattere epistemologico: Pitigrilli prese moltissimi spunti
dalla vita vissuta, dagli eventi anche turbinosi che lo videro coinvolto,
trasfigurando naturalmente luoghi, episodi e persone nella dimensione
letteraria. Mi pare più giusto e più funzionale alla comprensione della
vita e dell’opera dell’autore partire dal verisimile, per poi analizzare i
fatti come si sono svolti, e ritrovare quindi i legami con la realtà. Il
lettore, in questo modo, non sarà privato della freschezza originale che
voleva trasmettere l’autore e potrà “gustarsi” in seguito, gli slittamenti
tra realtà e finzione, frequenti in Pitigrilli.
La seconda motivazione dipende esclusivamente dal carattere della
biografia: gli storici, i giornalisti, e neppure molti per la verità, si sono
occupati di Pitigrilli, quasi per nulla i critici, e questo perché la vita
dello scrittore non fu limpida e lineare.
Man mano che scrivevo, ricercavo, affioravano nuovi aspetti, nuovi
documenti addirittura, che rendevano più ingombrante la sezione
biografica, rispetto a quella più propriamente letteraria. D’altra parte
la complessità, e il fascino dal punto di vista storico, degli
avvenimenti che s’affastellano intorno al personaggio, costringe chi
s’accosta a Pitigrilli a prenderne in esame anche la vita, così
importante per la comprensione dell’opera e dell’uomo tutto.
L’analisi del «brodo» culturale in cui il nostro autore nacque, visse e
strinse il successo, letterario e giornalistico, è essenziale per
comprendere l’aspetto del «caso» editoriale, benché forse appesantisca
un poco la struttura, sovrapponendosi con altri punti della ricerca.
D’altronde, a scuola c’insegnavano che repetita iuvant.
È interessante notare poi come ogni testo che si sia occupato di
Pitigrilli, quando tratti l’aspetto letterario, abbia nel titolo la parola
«fenomeno».
3
Fu «fenomeno» per i contemporanei
2
, restò «fenomeno» per i posteri
3
.
Fenomeno significa però apparizione, apparizione di un qualcosa di
strabiliante in un luogo in cui non si aspetterebbe; oppure qualcosa
che esiste sì, ma di cui non si ha una perfetta conoscenza.
E difatti Pitigrilli fu una vera e propria apparizione, strabiliante sotto
vari punti di vista, come si avrà modo di vedere. Certamente la
disinvoltura dimostrata dell’autore (e dall’editore) nel muoversi nel
settore commerciale di consumo appena nato, fu “scandalosamente”
dirompente.
Fu quindi dirompente il successo editoriale, la fama ottenuta
dall’autore, e “scandalosa” la sostanziale indipendenza dagli ambienti
letterari che ruotavano ancora intorno a salotti e salottini, che davano
accesso all’editoria.
Quindi: Pitigrilli come pioniere dell’editoria di massa.
Il primo capitolo è dunque un ponte, idealmente un tutt’uno con il
secondo, che ci guida al centro della ricerca: il «fenomeno» Pitigrilli
al vaglio dell’opera.
Dicevamo «riconsiderare», non certamente «rivalutare» a priori
l’opera dello scrittore piemontese, così indissolubilmente calata nel
contesto storico in cui si svolse l’avventura pitigrilliana. È cosa certa
però che Pitigrilli sia uno scrittore di confine, non del tutto calato in
quel filone paraletterario che trionfò negli anni precedenti e successivi
alla Grande Guerra, ma neanche dotato di quel passo «senza tempo»
proprio della letteratura «universale».
Quindi: Pitigrilli come ibrido.
Al di là della distinzione «letteratura» o «paraletteratura», si rende
necessario uno studio comparato delle sue opere, per definire a quale
tipo di narrativa aspirasse Pitigrilli e i risultati raggiunti.
Negli ultimi trent’anni (tanti ne sono trascorsi dalla sua morte ad oggi)
abbiamo assistito ad un rinnovato interesse degli studiosi per la figura
di Pitigrilli, e più in generale per la letteratura del ventennio fascista,
2
Angiolo Paschetta, Il fenomeno Pitigrilli, Torino, Sfinge edizioni, 1924 e Antonio Fasano, Il
fenomeno Pitigrilli, Bari, Edizioni Romano, 1932.
3
Gino Raya, Il caso Pitigrilli, in Penne del Novecento, Padova, Cedam, 1964.
4
senza però dare il doveroso risalto alla sua indipendenza, da out-sider,
da battitore libero, così eccezionale nel panorama culturale italiano di
quegli anni. Se poi si è compiuto un primo passo nell’analisi critica,
debellando l’immagine di Pitigrilli «pornografo», e mettendo in risalto
le sue doti di bella scrittura e di sostanziale originalità, la riflessione
non è stata portata al termine, e della sua opera s’è tralasciato un
elemento fondamentale: la comicità.
Dunque la letteratura come antiletteratura, le tecniche comiche,
paradosso e aforisma indubbiamente, ma no solo; uno stile originale e
sentito dall’autore come tale, ma tuttavia accessibile dal grande
pubblico ed anzi ad esso esclusivamente rivolto, le suggestioni veriste,
i legami con la tradizione decadentista.
Quindi: Pitigrilli autore antisublime.
Studiare le opere degli anni Venti e Trenta significa anche prendere in
esame l’evoluzione della sua narrativa, che da «oppositiva» diviene
«propositiva», rispecchiando una maturazione intellettuale di Pitigrilli
uomo, che lo vede imboccare la strada della ricerca spirituale, lui
campione dello scetticismo blasé d’inizio secolo.
Maneggiare Pitigrilli significa anche confrontarsi con molte
contraddizioni, interne ed esterne alla sua opera, che vanno ricondotte
nella giusta cornice: non è sufficiente liquidare Pitigrilli come un
ipocrita, un mistificatore o peggio, un bugiardo.
Dino Segre è certamente un uomo e un narratore controverso, a volte
contorto, e quindi a maggior ragione affascinate da studiare, e
impossibile (e ingiusto) da sminuire.
Può piacere o non piacere, ma Pitigrilli è uno degli scrittori italiani più
conosciuti al mondo, più venduti, più tradotti: una notorietà che va
riconosciuta e interpretata.
La sua letteratura, così fresca e agile, anche se viziata da una certa
ripetitività nei temi e nelle soluzioni, porta una ventata di novità
nell’Italia del tempo, contribuendo non poco all’affermazione di un
filone comico-umoristico, antagonista del genere impegnato-ufficiale
5
riconosciuto dalle varie critiche governative e intellettuali, di grande
vitalità.
Leggere Pitigrilli è affrontare anche e soprattutto uno snodo cruciale
della storia recente del nostro paese, perché si muove e produce in un
periodo di ridefinizione totale tanto dei rapporti sociali che
intercorrono tra le varie classi del paese, quanto di quelli economici e
politici, che sfoceranno nel fascismo maturo e di conseguenza in un
radicale salto nel processo di costruzione dell’identità collettiva.
La vita del personaggio è poi densa di spunti per lo studioso: i rapporti
con il regime, i legami con l’OVRA, con i fuoriusciti, ma anche con la
comunità ebraica torinese, per non parlare dei contatti da lui avuti con
la nascente Democrazia Cristiana, la conversione cattolica, vera o
presunta, e poi l’esilio argentino, la supposta collaborazione con il
regime peronista, ma anche l’assidua collaborazione con il cinema dei
«telefoni bianchi», le frequentazioni con il mondo del paranormale,
potrebbero benissimo occupare le pagine di altrettanti saggi.
Qui mi limiterò ad aprire delle finestre che possano fare luce su alcuni
di questi passaggi che tuttora rimangono oscuri e poco indagati.
Certamente affrontare la biografia pitigrilliana significa incappare
nell’avvenimento che più d’ogni altro pesa nel curriculum vitae di
Dino Segre: l’OVRA.
L’effettiva collaborazione di Pitigrilli con l’organizzazione di
repressione antifascista del regime è documentata e innegabile, eppure
ancora passata in sordina, oppure strombazzata ai quattro venti, forse
con eccessiva acredine. Le responsabilità ci sono, vanno accertate – la
sezione «Documenti Scelti» vuole essere in questo senso un’occasione
per dissipare definitivamente i dubbi indiziari – e vanno poi
contestualizzate nell’ampia cornice del ventennio fascista.
In questo lavoro si cerca di offrire un’interpretazione credibile delle
motivazioni che portarono Pitigrilli a “saltare il fosso”, e una
descrizione di come andarono i fatti, così come emergono dai
documenti: non sempre è facile stabilire il bianco o il nero.
6
Fin che fu opposizione al regime, e Pitigrilli fece opposizione, pur
sempre nel suo stile, fu autentica; il passaggio al collaborazionismo,
analizzato sotto tutti gli aspetti possibili, lascia anche aperta una
possibilità scomoda, inquietante eppure non isolata, ovvero la libera
adesione, con «fede», a quel regime fascista che seppe anche
convincere, e mostrare il lato migliore del suo esperimento politico.
Contrariamente alle supposizioni di molti, non ultime quelle dello
stesso Pitigrilli, il rapporto confidenziale con l’OVRA non gli fece
acquistare particolari bonus da giocarsi con il volto ufficiale del
regime; restò quello che era: un intellettuale gagà, esponente della
ricca borghesia ebraica torinese, un liberale diffidente nei confronti
delle rivoluzioni, stringi stringi un conservatore, benché riformista.
Non fu mai un uomo del regime.
Questa incompatibilità genetica s’evidenziò con virulenza con
l’apparire delle leggi razziali fasciste, che lo colpirono senza riguardo
alcuno nonostante Dino Segre fosse in possesso di tutti gli elementi
per ricevere la patente di ariano. La piega totalitaria assunta dal
regime stride completamente con l’esprit pitigrilliano, a partire
dall’alleanza d’acciaio stretta con la Germania di Hitler: la guerra
contro la Francia fu una vera violenza per Pitigrilli.
È anche vero che il regime non fu spietato nei suoi confronti, come del
resto non lo fu anche nei confronti d’altri elementi non allineati;
tuttavia tentò con ogni mezzo di dargli delle noie, e Pitigrilli scampò
sempre provvedimenti gravi grazie alle sue conoscenze e al suo rango:
favori che non gli derivarono dall’essere un confidente OVRA –
l’identità dei fiduciari era mantenuta nel più stretto riserbo, e solo
pochi membri del partito fascista erano a conoscenza, in parte,
dell’assetto dell’organizzazione – bensì dalla visibilità che contornava
il suo personaggio. Pitigrilli, ancora a ridosso della guerra, era pur
sempre il primo scrittore dello Stivale, rappresentante dell’Accademie
dell’Humour per l’Italia, pubblicista, conosciuto in tutto il mondo.
Negli anni delle difficoltà, della crisi e del tracollo, Pitigrilli si ritrovò
a tirare un bilancio di quasi cinquant’anni di vita vissuta senza limiti e
7
densa d’avvenimenti, giungendo ad una rivisitazione profonda dei
suoi principi: la conversione al cattolicesimo non è – o lo è in minima
parte – una piroetta per restare in sella.
Non è escluso che la vicenda OVRA concorra nella crisi di coscienza
benché sia solo un’ipotesi, visto che Pitigrilli non ammettè mai il suo
coinvolgimento, e non volle ragionare pubblicamente intorno al suo
peccato originale.
D’altra parte Pitigrilli fu ostracizzato – e non poteva essere altrimenti
– dall’organigramma politico e culturale che si andava formando
nell’Italia del secondo dopoguerra, sia a causa del suo «tradimento»
che del tono stesso della sua letteratura, troppo diversa e inappropriata
rispetto all’esigenza d’impegno intellettuale che caratterizza il crollo
del regime.
Certo è che l’opera pitigrilliana risentì enormemente della damnatio
memoriae che colpì l’autore, che da mattatore della scena editoriale
del paese, scivolò docilmente verso posizioni di terzo piano,
collaborando dall’Argentina con riviste cattoliche – le uniche a
concedergli spazio – e pubblicando con Sonzogno una gran massa di
opere che vanno a comporre il «terzo» periodo pitigrilliano.
Sarebbe interessante analizzare, se la casa editrice mettesse a
disposizione le tirature e le vendite, quale fosse l’impatto sul pubblico
del rinnovato Pitigrilli. Quale che siano le cifre, credo che
difficilmente possano competere con quelle del Pitigrilli ante guerra:
due milioni di copie vendute nella sola Italia in circa diciotto anni
d’attività.
Leggere Pitigrilli oggi è possibile, ricavandone anche non poco
piacere, perché la sua è una prosa modernista che non risente
certamente del tempo dal punto di vista stilistico, quanto semmai da
quello strutturale, eccessivamente ridondante all’occhio del lettore
odierno. I quattro titoli oggi in commercio, editi Bompiani, e cioè
Mammiferi di lusso, Cocaina, La piscina di Siloe, L’esperimento di
Pott, non rendono in realtà merito alla qualità letteraria di Pitigrilli;
8
sono più una cernita artificiale, programmatica, quanto effettivamente
una selezione delle migliori prove narrative.
La cintura di castità oppure Oltraggio al pudore, per restare sempre
nella novellistica, sono di certo superiori alla prima esperienza
editoriale del giovane Pitigrilli; La vergine a 18 carati, secondo
romanzo dello scrittore torinese, ritirato dal commercio nel 1935
perché messo all’indice dal regime fascista e credo una delle migliori
prove di sempre, se non le migliore in assoluto, continua a non essere
disponibile al pubblico, e si trova solo – raramente e a caro prezzo –
sul mercato dell’usato o sepolta in tre quattro biblioteche; il terzo
periodo pitigrilliano è completamente ignorato.
Anche per questo si è scelto di riportare ampi estratti dai testi presi in
esame, che nei fatti sono sconosciuti ai più: ciò che emerge è una
scrittura in contro-tendenza, divertente, dissacrante, esasperata – ed
esasperante – nella ricerca del bon môt, della frase ad effetto, carica di
tecniche comiche, vecchie e nuove, e pure di una certa profondità e
intensità nei giudizi espressi dall’autore su come vanno le cose nel
mondo, che dà un certo peso ad una letteratura troppo frettolosamente
definita leggera.
9
IL CASO EDITORIALE
I.1 Il panorama culturale dell’Italia nel primo dopo guerra
È noto a tutti che il Novecento porti alla ribalta profondi cambiamenti
alla vita umana, ad ogni latitudine e sotto ogni aspetto, scientifico,
economico, sociale e politico.
Riassumendo: è la cultura, nella sua accezione più ampia possibile,
che va mutando alla radice, e si costituisce come una nuova coscienza
collettiva, radicalmente diversa da quella che soggiace alla rivoluzione
borghese del secolo XIX.
L’Italia pur facendo ovviamente parte del processo di trasformazione
globale, presenta un’evoluzione propria e peculiare, che prende
l’avvio da una situazione di sostanziale arretratezza nei confronti delle
nazioni occidentali imperialiste: sia a causa di ragioni “storiche”, sia
per motivi contingenti alla geopolitica del tempo.
Il quinquennio 1920-1925, che corrisponde al periodo “aureo” di
Pitigrilli autore, si pone come uno spartiacque nella storia del paese:
durante questo lasso di tempo si conclusero molte delle trasformazioni
iniziate negli anni precedenti, e contemporaneamente si gettarono le
basi per lo sviluppo successivo della storia italiana.
Nei quindici anni che precedono lo scoppio della Grande Guerra,
s’affastellano e si stratificano eventi, stimoli artistici, novità,
provocazioni e conseguenti reazioni.
L’Italia contribuì massicciamente all’avanguardismo europeo grazie ai
Futuristi, che proclamarono il loro impegno dal 1909: l’idolatria per
ogni manifestazione del moderno, la destrutturazione dei modelli
linguistici, sia nella forma che nel contenuto, la rottura delle
convenzioni sociali, furono solo alcuni degli assalti condotti dal
gruppo di Milano contro il modello culturale italiano.
Ai nuovi movimenti di rottura si somma la fase matura del
Decadentismo, anch’esso portatore di disagio, e un nuovo sentimento
d’inadeguatezza percorre gli artisti e la società.
10
Il dannunzianesimo stesso, primo fenomeno culturale recepito e
recepibile a livello di massa, cioè al di fuori di quella ristretta cerchia
d’intellettuali che erano sia i produttori che i fruitori del prodotto
culturale, viene in breve tempo criticato e smitizzato: artisti come
Petrolini, attivo fin dal 1903, Palazzeschi, Campanile, i Futuristi a loro
modo, smantellarono l’impianto sublime assunto dalla “cultura”.
Pirandello stesso, nel saggio su Verga, criticò D’Annunzio,
proponendo una letteratura di «cose» invece che di «parole»: indagare
l’irrazionale che pulsa nel profondo del nostro intimo, ma anche
rivalutare, ripensare quell’«avvertimento del contrario» che suscita il
riso.
L’emergere del genere comico-umoristico è un altro leit motiv del
tempo, che s’inserisce nelle varie tendenze centrifughe che provano a
disgregare un modello culturale unico e di riferimento.
La psicoanalisi freudiana diede nuovi stimoli alle scienze sociali che
iniziarono a studiare la società con la stessa nuova profondità con cui
si trattava ora l’individuo: il tardo positivismo darwinista consegnava
al nuovo secolo suggestioni organiche applicate all’antropologia, alla
sociologia, che, nelle loro frangenti più degenerative, approdarono
all’eugenetica.
Le nuove aspirazioni della donna turbarono lo status quo e fecero
fiorire un coacervo di opere che secondo vari punti di vista offriva
interpretazioni “scientificamente” corrette del fenomeno: nel 1893
uscì a Milano Fisiologia della donna di Mantegazza, subito messo
all’indice dai censori, vari interventi di Max Nordau, che volle dare il
suo contributo, la fortunatissima opera di Otto Weininger, Sesso e
carattere, pubblicata a Vienna nel 1903, seguite da un interesse
crescente verso la neonata questione sessuale.
Il processo d’emancipazione femminile muoveva i primi passi nel
contesto indicato, e in generale cominciava ad interessare sempre più
l’opinione pubblica nazionale, colpita anche da personalità artistiche
come Sibilla Aleramo e Amalia Guglielminetti, che si muovevano
sulla scena letteraria con disinvoltura.
11
Nasceva dunque una prima rivoluzione dei costumi, direttamente
dipendente da un aumento dei consumi e della qualità di vita, anche se
limitata ancora ai grandi centri urbani, prevalentemente settentrionali;
rivoluzione dei costumi ed emancipazione femminile significava
anche e soprattutto un mutamento delle abitudini sessuali.
Grandi certamente le differenze tra Nord e Mezzogiorno, città e
campagna: ad ogni modo, gli abitanti dei capoluoghi di provincia, chi
più chi meno, potevano usufruire di molteplici offerte culturali, sia per
quantità che per qualità, e una nuova concezione dello “svago”.
Le pubblicazioni dei periodici si moltiplicano, il sistema editoriale e
giornalistico abbandona la dimensione artigianale per sposare quella
industriale, il teatro di prosa si fraziona in nuovi sottogeneri come la
rivista e il cabaret.
L’Italia che esce dalla Grande Guerra è l’Italia che rivela a se stessa la
sua dimensione ormai massificata: nuovi prodotti culturali
s’affiancano a quelli tradizionali, aumentano le cifre di riferimento e
di conseguenza le dimensioni dell’intero mercato, si definisce il
concetto di prodotto culturale e d’arte come intrattenimento.
Vecchi e nuovi partiti di massa salgono alla ribalta, e ognuno vede
nella moltitudine una materia informe da educare, plasmare, secondo
il proprio paradigma culturale; sia il partito socialista che quello
popolare, e ovviamente quello fascista, cercheranno spazi e metodi per
proporre il proprio modello.
L’innovazione continua cambia gli assetti preesistenti a tutti i livelli, e
anche istituzioni tradizionali e consolidate come il teatro di prosa
soffrono crisi e ridefinizione.
Il teatro italiano entra in crisi perché insidiato nella sua egemonia dal
cinematografo e dalla radio, che nel 1924 incomincia a trasmettere
stabilmente, oltre che dai nuovi metodi pubblicitari che reclamizzano
al pubblico tutte le nuove offerte e possibilità di svago.
Il teatro nostrano poi viene percorso internamente da una scossa
elettrica riformista, che vede il tramonto del teatro «mattatoriale»,
caratterizzato dai figli d’arte, e dalla preminenza dell’attore sul testo; è
12
un modo di fare teatro che affonda le radici nella commedia dell’arte e
nella tradizione italiana di “famiglia teatrale”.
Un vento europeo porta la rivoluzione registica, la
professionalizzazione del mestiere, e un rinnovamento dei testi, che
tendono ora allo stile simbolista-realista.
Lo stato (fascista) interviene nella crisi del teatro irreggimentandolo e
istituendo enti preposti ad elargire i finanziamenti necessari; non
mancano pure sperimentalismi, come il teatro di massa (spettacoli cioè
che nella mente del Duce dovevano essere offerti a migliaia di
spettatori), risoltisi però in un mezzo fallimento. Accanto ad una
produzione di prosa di “livello”, si sviluppò un filone
d’intrattenimento, più aderente ai gusti di un pubblico borghese, che
produsse una gran massa di commedie di costume, drammi
d’ambientazione urbana, insomma, quel genere che sia in teatro che
nel cinema prende il nome di «telefoni bianchi»; il suo successo si
deve anche all’improvviso ostracismo da parte del regime verso il
vasto repertorio di pochades e vaudevilles, ben radicato nel tessuto
italiano
4
.
Ad ogni modo la parte del leone, nel moltiplicarsi dell’offerta
culturale, la ebbe il cinema, nella sua continua evoluzione, che con la
conquista del sonoro, avvenuta nel 1930, sbaragliò ogni tipo di
resistenza.
L’interessamento per il cinema da parte del regime (come in ogni altro
aspetto del settore culturale) è noto, com’è nota la definitiva
irreggimentazione di ogni settore destinato alla produzione di cultura,
che doveva corrispondere all’avvenuta “rivoluzione” del popolo
italiano.
I primi venti anni del Novecento furono un turbine d’innovazioni che
portarono esaltazione e sconcerto, mobilità sociale e mutamenti
profondi nel modello culturale italiano.
4
Gianfranco Pedullà, Il teatro italiano tra le due guerre mondiali, in Gabriele Turi e Simonetta
Soldani, Fare gli italiani, Bologna, Il Mulino, 1993, vol. II, pp. 352-353.
13
È interessante vedere ora come la Chiesa Cattolica, e non solo il
regime fascista, attraverso la rappresentanza politica popolare e la
capillare rete parrocchiale, si occupò di “cristianizzare” il settore
culturale, in modo da diffondere un messaggio funzionale all’idea di
società che intendeva costruire ora che la gestione liberale stava
tramontando. La società era percorsa da fremiti modernisti e la Chiesa
si apprestava a cambiare radicalmente il suo peso specifico nella vita
politica del paese.
È il fenomeno della «buona stampa», cioè la distribuzione attraverso
la rete ecclesiastica di opuscoli, libretti, fogli, periodici, tutti tesi ad
educare il popolo a rifuggire quegli aspetti della modernità che
potevano sovvertire la serenità dell’ordinamento sociale.
«La cultura popolare doveva proporre solo tutto ciò che è buono, che è
bello, che è pudico, che è amabile, che è virtuoso. Di qui la polemica
con una certa letteratura che attraverso la descrizione di “brutture”
come l’indigenza, la povertà, le malattie o la disoccupazione, poteva
turbare l’animo del “buon popolo”»
5
.
Il quinquennio 1920-25, gli anni in cui Pitigrilli si afferma come
scrittore di grido, si colloca come una fase di transizione tra due
epoche; sostanzialmente rientra ancora nell’universo di regole e valori
tipici dell’età liberale, entro i quali però vanno affermandosi i germi
del totalitarismo, in questo caso culturale, che esploderanno in tutta la
loro virulenza solo negli anni ’30.
I successi editoriali di Segre, furono messi all’indice proprio dalla
falange popolare, dai moralisti, dai benpensanti, dai conservatori,
ancor prima che dal movimento fascista, che si poneva tutto sommato
come un movimento rivoluzionario. Illuminante a questo proposito
Pivato quando dice:
Accanto alla funzione educativa della «buona stampa», occorre registrare
anche il risvolto per così dire repressivo. Ossia dei continui inviti rivolti
alla coscienza del buon cattolico affinché vigilasse contro la pornografia,
5
Stefano Pivato, Strumenti dell’egemonia cattolica, in Gabriele Turi e Simonetta Soldani, op. cit.,
p. 364.
14
l’immoralità dei costumi, le indecenze, ma soprattutto contro la diffusione
della stampa «cattiva», che sembra identificarsi con quella verista,
altrimenti detta «immorale» […] La «buona stampa» incoraggiava infine
anche l’attività delatoria del cattolico presso la pubblica autorità, affinché
fossero denunciate le eventuali trasgressioni contro le leggi per la pubblica
moralità
6
.
Per aiutare la società civile nel compito, sorsero numerose leghe per la
difesa della moralità che facevano capo ai gruppi popolari; e fu
proprio grazie all’iniziativa di una di queste leghe che Pitigrilli subì un
processo per oltraggio al pudore, nel 1925.
Ed è proprio sul tema della moralità, della censura e dell’educazione
delle masse che il regime e la Chiesa strinsero un duraturo sodalizio,
benché non privo di contrasti. Non poté che essere così, visto che le
gerarchie ecclesiastiche erano interessate
ad esaltare l’ordine e la moralità, l’autorità e a bandire dalle scene i
conflitti e le tensioni sociali, e [siffatti criteri] venivano a congiungersi con
le analoghe direttive del regime rivolte ad abolire nel cinema, nella
stampa, nel teatro, notizie riguardanti cronaca nera, suicidi, fatti immorali,
delitti passionali: in definitiva tutto ciò che potesse compromettere il
quadro di una società ideale
7
.
Non era raro poi che fossero le stesse organizzazioni cattoliche a
reclamare un più severo comportamento da parte del governo fascista
in materia di opere immorali
8
.
La Chiesa, per di più, fu anche molto attiva nel vigilare su come il
regime operava la censura in materia teatrale e cinematografica, tanto
che
Leopoldo Zurlo (nominato censore responsabile per il teatro da Bottai)
ricorda gli interventi di prelati e la pressione della compagnia dei Gesuiti
per emendare alcuni testi ritenuti immorali: e del resto, rileggendo oggi i
6
Ibidem, p. 367.
7
Ibidem, p. 370.
8
Ibidem.
15
documenti di Zurlo, con la loro costante preoccupazione di non dispiacere
all’autorità ecclesiastica, si avverte nettamente l’esistenza di un’attenzione
e di una pressione continue
9
.
D’altra parte la Chiesa diede vita ad un vero e proprio circuito
parallelo d’intrattenimento, con il «teatrino» e le sale
cinematografiche parrocchiali.
Proprio riguardo ai contenuti che il «teatrino» avrebbe dovuto
proporre ai fedeli, monsignor Calchi Novati invitava gli autori ad
evitare «più che possibile, di dare rappresentazioni le quali hanno per
tesi il traviamento, pur col finale ravvedimento, della donna,
specialmente se madre o sposa»
10
e ancora
l’aureola di santità e di bontà che circonda la madre, mai, dinnanzi ai
nostri figli, deve essere offuscata e tanto meno strappata. Né le pazzie di
una sposa, pur domate e contrapposte alla virtù di un felice ritorno,
possono sempre produrre buon effetto sull’animo delle giovinette che vi
assistono. Quanto dolci e più benefiche quelle scene in cui la donna, pur
tra le quinte, compie la sua larga cristiana missione di bene
11
.
Così l’idea che regime e Chiesa hanno della donna si fonde nella
figura «dell’angelo del focolare», chiudendole le porte
dell’emancipazione.
Non poteva essere più diversa la rappresentazione che Pitigrilli dà
della figura femminile, benché anch’egli non sia privo di un certo
maschilismo apparente, dovuto però al suo tono cinico e scettico. Lo
vedremo nel prossimo capitolo.
Questo il contesto culturale dove Dino Segre coglie i suoi successi
giornalistici ed editoriali, dove si forma amici e nemici, dove diviene
famoso e invidiato; è in questo melange di progressismo/reazione che
riceverà l’etichetta di autore immorale e pornografico, della quale non
si libererà mai più.
9
Ibidem, p. 374.
10
«Il Cittadino», Lodi, 19 marzo 1931.
11
Calchi Novati, Le parole dei nostri vescovi, in «I quaderni del teatro cristiano», I, 1931, 4, p. 13.