2
arretrati del mondo, governato da un gruppo di fanatici religiosi iconoclasti, assassini e
torturatori, che hanno realizzato la società sognata dagli islamisti. Le donne sono
negate, imprigionate in burqa azzurrini e private di ogni diritto, i mutilati sembrano
essere milioni, qualsiasi forma di divertimento e libertà è stata messa al bando, la sharia
viene applicata con estremo rigore, le faide omicide sono legalizzate, macabre punizioni
fisiche e pubbliche esecuzioni sono l’unico spettacolo ammesso.
Dopo anni di sostanziale silenzio e denunce inascoltate di operatori, organizzazioni
umanitarie e attivisti, l’audience globale scopre un mondo terribile, medievale,
inimmaginabile e incomprensibile, che reclama un intervento immediato in difesa della
popolazione, a tutela dei diritti umani brutalmente violati.
Volontà di vendetta e necessità di giustizia, rafforzate dalla determinazione a difendere
le libertà e i valori occidentali, si uniscono indissolubilmente all’imperativo morale di
aiutare gli afgani a cacciare i talebani, responsabili di ospitare e nascondere il satanico
Osama Bin Laden e i suoi terroristi.
La comunità internazionale sostiene le milizie mujaheddin del Fronte Unito nella guerra
civile contro gli studenti coranici e la liberazione dell’Afghanistan dal medioevo
sanguinario diventa una issues centrale nell’agenda dei media. Per questo la cacciata dei
talebani dalle città, il ritorno dei simboli della libertà sono salutati come la vittoria della
prima tappa della guerra globale al terrorismo internazionale.
A detta dei suoi sostenitori, Enduring freedom ha introdotto una nuova fase delle guerre
umanitarie. Se il Kosovo era stata la prima guerra combattuta in difesa di valori
universali e non per interessi di parte, l’Afghanistan è stata la dimostrazione che la
tutela dei propri interessi non può essere scissa dall’aiuto alle popolazioni povere e
oppresse e dall’estensione dei propri valori, ritenuti universalmente validi. Il piano
militare e quello umanitario, si è sostenuto, costituiscono i due lati della medesima
medaglia.
La pretesa di combattere in nome di valori universali amplia il quadro interpretativo del
conflitto: lo scontro simbolico e culturale assume un ruolo centrale e il dibattito sulle
civiltà e le diverse concezioni dei diritti umani diventa dominante. Nonostante i politici
si sforzino di diffondere messaggi inclusivi e universalistici, che smentiscano il framing
della guerra come “scontro di civiltà”
2
o di religione, i media generalmente riproducono
una polarizzazione piuttosto netta dell’opposizione tra Occidente e Islam, avvalorando
2
Huntinghton, Samuel, The Clash of Civilization and the Remaking of the World Order, Simon & Schuster,
New York, 1996. Traduzione italiana di Sandro Minucci, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine
mondiale, Garzanti, Milano, 1997.
3
di fatto l’irriducibile alterità di questi mondi sostenuta dagli stessi terroristi islamisti, e
affermano l’evidente preferibilità (o superiorità) del sistema occidentale.
Per evitare di trasformare i diritti umani in un atto di “imperialismo morale”
3
e farne
veramente un terreno di incontro e comunicazione interculturale, Michael Ignatieff
propone di abbandonare l’idolatria di questa “religione laica” e di partire da una
concezione “minimalista”, su cui tutti possano concordare e che sia frutto
dell’esperienza storica degli uomini. Se non possiamo raggiungere un accordo
globalmente condiviso su cosa sia una “vita buona”, l’empatia, la reciprocità morale che
sembra far parte della natura umana, ci permette di avere una concezione comune su
cosa sia certamente male.
“Vorremmo essere dalla parte di chi è oggetto di quelle azioni?
E poiché non possiamo concepire una circostanza qualsiasi
nella quale noi o chiunque altro possa desiderare di essere
sottoposto ad abusi mentali o fisici, abbiamo buone ragioni per
credere che queste pratiche debbano essere bandite.”
4
Una volta affermata la centralità della retorica umanitaria e dei diritti umani, diventa a
mio avviso essenziale comprendere come sono raccontate le persone in nome delle quali
si combatte e, da questo punto di vista, analizzare quale concezione dei diritti umani
viene proposta.
Le persone comuni, le loro storie, sono state pressoché assenti dalla narrazione dei
media mainstreaming. I giornalisti sono stati tenuti lontani dagli afgani all’interno del
Paese e hanno finito per narrare un Afghanistan senza persone, popolato solo da icone: i
talebani crudeli, i terroristi votati al martirio, le donne oppresse, la marea umana dei
profughi, le vittime anonime. Le persone cominciano ad emergere solo dopo la
liberazione e, a ben vedere, anche in questo caso la dimensione simbolica finisce
talvolta per prevalere sul tentativo di raccontare storie. I protagonisti della narrazione
sui diritti umani prima violati e poi ritrovati, infatti, non sono tanto gli individui quanto i
valori che essi incarnano.
3
Ignatieff, Michael, Human Rights as Politics and Idolatry, Princeton University Press, Princeton, 2001.
Traduzione italiana di Sandro d’Alessandro, Una ragionevole apologia dei diritti umani, Feltrinelli, Milano,
2003, p. 24.
4
Ignatieff, Michael, op. cit., pp. 90-91.
4
La tutela dei diritti umani viene posta come discriminante dell’accettabilità o meno di
un regime e, talvolta, della possibilità di considerare persone i suoi esponenti.
Contemporaneamente, anche grazie allo sviluppo delle nuove tecnologie di
comunicazione, il pubblico può seguire un’altra narrazione dell’Afghanistan, sviluppata
dagli operatori umanitari e dalle organizzazioni non governative impegnate nelle difesa
dei diritti umani. Pur con molte differenze, le Ong adottano il punto di vista delle
persone coinvolte nel conflitto e raccontano la guerra da questa prospettiva, il suo
sviluppo cronologico, l’attribuzione di ruoli ai partecipanti. L’elemento che
maggiormente differenzia questa narrazione da quella condotta dai media
mainstreaming è il concentrarsi sulla gente: gli afgani non sono mai massa anonima, ma
sono sempre persone, storie individuali di cui si cerca di mettere in luce le peculiarità e,
contemporaneamente, il valore esemplare. Sono storie di grande sofferenza, talvolta di
morte, ma anche racconti di importanti vittorie, di persone che sono riuscite a superare
le difficoltà grazie all’aiuto delle organizzazioni umanitarie.
Lo spettacolo del dolore costituisce da sempre un problema: la morte, già tabù nel teatro
greco, è stata sempre più allontanata dalla vista degli uomini nella società occidentale
durante il XX secolo. Mostrare e osservare la sofferenza altrui è spesso considerato
morboso, un atto da voyeur. Solo l’azione volta a porre fine a tale pena può fornirci una
giustificazione morale
5
, di fronte agli altri e a noi stessi. Possiamo rifiutare di osservare
il dolore, ma se lo vediamo ci sentiamo in dovere di fare qualcosa.
Attraverso i media assistiamo al dolore di popolazioni che vivono a migliaia di
chilometri di distanza da noi e ciò impone una trattazione paradossale della loro
sofferenza. Visto che l’empatia si può realizzare solo nei confronti di altre persone, e
non di masse, i sofferenti devono essere trattati come singoli, ma attraverso l’accumulo
di tante storie individuali il loro dolore deve poter essere generalizzato: Jamila, Ahmad,
Walid sono esempi di una condizione diffusa. Se riusciamo a percepire le loro
sofferenze, ci sentiremo impegnati moralmente a cercare di alleviarle, attraverso le
forme della parola agente o aiutando materialmente chi, sul campo, si prende cura degli
infelici.
5
Cfr. Susan Sontag (Regarding the Pain of Others, 2003. Traduzione italiana di Paolo Dilonardo,
Davanti al dolore degli altri, Mondatori, Milano, 2003) e Luc Boltanski (La Souffrance à distance,
Éditions Métailié, Paris, 1993. Traduzione Italiana di Barbara Bianconi, Lo spettacolo del dolore. Morale
umanitaria, media e politica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2000).
5
Per mezzo dell’empatia, quindi, il problema dello spettacolo del dolore si collega
strettamente a quello dei diritti umani. Che ruolo può essere attribuito ai media come
mezzi di conoscenza delle sofferenze di popolazioni lontane? Quali meccanismi
narrativi possono suscitare nell’audience una risposta empatica, capace di trasformarsi
in azione? Quale concezione dei diritti umani emerge dalle diverse narrazioni?
Nel mio lavoro ho cercato di mettere in luce come questi temi sono stati trattati da due
organi di stampa italiani (il Corriere della Sera e il Foglio) e da alcuni operatori
umanitari presenti in Afghanistan prima, durante e dopo Enduring freedom.
Attraverso l’analisi degli aspetti comunicativi di alcuni conflitti della seconda metà del
XX secolo (Vietnam, Golfo, Kosovo), ho delineato le condizioni in cui generalmente si
trovano ad operare i giornalisti. Censura delle fonti e forme sempre più accurate e
invadenti di news management hanno allontanato l’inviato dalla guerra e dalle sue
conseguenze. I media, cerimonieri dell’evento, raccontano guerre che non vedono e
attingono informazioni e immagini quasi esclusivamente da fonti ufficiali governative,
senza alcuna possibilità di verifica. I canali vengono monopolizzati dal racconto di una
guerra virtuale, che sembra però capace di soddisfare le attese di informazione del
pubblico.
Le guerre vengono raccontate secondo un pattern costante di framing ed espedienti
retorici, volti a polarizzare e rassicurare l’opinione pubblica. Sodati eroici e leader giusti
si contrappongono a milizie violente e dittatori sanguinari. Strategie, armi e tecnologie
riaffermano miti importanti dell’identità occidentale e contribuiscono a dare un carattere
razionale allo scontro. La guerra diventa racconto di azioni senza conseguenze, la
sofferenza e la morte sono generalmente lasciate ai margini della trattazione:
gradualmente scompaiono dalla vista dei soldati, dei giornalisti e dell’opinione
pubblica.
Osservare il dolore degli altri può essere un atto di voyeurismo, ma in molti hanno
creduto e credono nella possibilità di far cessare, mostrandole, le sofferenze causate
dalla guerra. Per Susan Sontag, solo una risposta attiva e diretta può fornirne una
giustificazione morale per lo spettacolo del dolore. A partire dall’elaborazione teorica
della “politica della pietà”
6
di Hannah Arnedt, Luc Boltanski sostiene la possibilità di
sviluppare sentimenti empatici per i dolori di gruppi lontani e di voler agire a distanza
per alleviarli, assolvendo così da un punto di vista morale la rappresentazione della
6
Arendt, Hannah, On revolution, Viking Press, New York, 1963. Traduzione italiana, Sulla rivoluzione,
Edizioni Comunità, Torino, 1999.
6
sofferenza. La condizione fondamentale è che gli altri siano rappresentati come
individui dotati di singolarità, e mai come masse anonime indifferenziate.
Ho quindi brevemente analizzato come le guerre siano cambiate nel corso del
Novecento e come, in parallelo, sia mutato il modo di considerare il nemico. Sia per
motivi ideologici che legati allo sviluppo di nuove tecnologie belliche, i civili sono
sempre più coinvolti nei conflitti e la guerra non può più essere interpretata come
scontro regolato tra Stati, per il raggiungimento di fini razionali. Nelle nuove guerre
l’Altro è individuato su base etnica, spesso a partire da una costruzione recente e incerta
di queste identità. L’identità dell’Altro è sempre stata delineata in opposizione
all’identità dell’Uno e la spersonalizzazione del nemico ha contribuito a rendere
possibili i peggiori massacri della storia.
Dalla fine della Guerra fredda, i Paesi occidentali sono stati sempre più spesso coinvolti
in guerre “per fini umanitari”. Ciò ha evidentemente comportato la necessità di
individuare in modo nuovo il nemico: si combatte contro dittatori violenti, diabolici,
pazzi, e il popolo non solo non è ostile, ma è la prima vittima dei propri governanti e
deve essere aiutato.
Attraverso l’analisi delle edizioni del Corriere della Sera e del Foglio dal 12 settembre
2001 al 31 gennaio 2002, ho messo in luce come è stato costruito il racconto di guerra:
motivi, nemici, obiettivi. Iniziata per vendicare/fare giustizia degli attentati al World
Trade Center e al Pentagono e difendere la libertà occidentale da Osama bin Laden, dal
terrorismo e forse dall’Islam, Enduring freedom è diventata anche una guerra
umanitaria, di liberazione del popolo afgano oppresso dai talebani terroristi. I giornalisti
hanno parlato di talebani, profughi, donne, vittime che spesso non potevano vedere
direttamente: la massa anonima e la dimensione simbolica del racconto hanno prevalso
sul tentativo di raccontare le storie della gente e l’identità (spesso stereotipata) del
gruppo ha annullato quella individuale.
Ho poi analizzato come la guerra è stata raccontata da alcune organizzazioni umanitarie,
mettendone in luce il ruolo di agenti di controinformazione, spesso critici nei confronti
dei media e della retorica (e dell’azione) umanitaria militare. In particolare ho
evidenziato la ridefinizione totale del racconto che deriva dall’assumere il punto di vista
della gente e il tentativo costante di personalizzare il racconto. La massa anonima è
rifiutata, i casi singoli sono protagonisti e, di fronte alla sofferenza, l’identità di gruppo
delle persone diventa irrilevante.
7
Infine, sulla base di parte dell’ampia letteratura relativa ai temi posti in agenda dopo
l’11 settembre e considerando alcuni sviluppi della situazione afgana, ho cercato di
delineare delle ipotesi interpretative sul ruolo dei media nella percezione del conflitto,
evidenziando soprattutto come le modalità narrative adottate per le persone possano
essere collegate a diverse concezioni dei diritti umani.
Ringrazio il professor Enrico Menduni per aver seguito con attenzione il mio lavoro,
avermi offerto interessanti spunti di riflessione ed avermi consigliata nel corso
dell’analisi e della stesura di questa tesi.
Ringrazio il professor Marcello Flores D’Arcais per i preziosi suggerimenti sulle
tematiche storiche e sulle questioni dell’umanitarismo.
Un ringraziamento speciale va ai miei genitori, a Francesca e a Mariapiera.
8
“Il mondo in cui noi occidentali oggi viviamo presenta molti e gravissimi difetti e pericoli, ma rispetto al
mondo di ieri gode di un gigantesco vantaggio: tutti possono sapere subito tutto su tutto. L’informazione è
oggi “il quarto potere”: almeno in teoria, il cronista e il giornalista hanno via libera dappertutto, nessuno
può fermarli né allontanarli né farli tacere.”
Primo Levi, Appendice a Se questo è un uomo
1. I media raccontano le guerre: tecnologie, censure
e news management
1.1. Tecnologie di guerra e di comunicazione
1.1.1. Speranze di trasparenza
La diffusione di mezzi di comunicazione sempre più leggeri, veloci, potenzialmente
accessibili per tutti i cittadini, in grado di trasmettere in tempo reale audio, video e dati
da un capo all'altro del mondo, la disponibilità di spazi sempre più ampi sui giornali e in
tv con i canali all-news o le continue edizioni speciali, la possibilità di inviare
immediatamente "al fronte" frotte di inviati in grado di fornire aggiornamenti 24 ore su
24, hanno contribuito ad alimentare la speranza (o forse l’illusione) che le guerre
contemporanee sarebbero state completamente visibili da casa, attraverso lo spazio
mediatico.
Nel secondo dopoguerra, i mezzi di comunicazione broadcasting hanno avuto una
diffusione capillare, tanto da diventare la principale (e spesso l’unica) fonte di
informazione sui fatti del mondo: solo gli eventi riferiti dai media sono accaduti per chi
è lontano, potremmo dire semplificando un po’. Dall’ultimo decennio del Ventesimo
secolo, nuovi mezzi interattivi di comunicazione su scala globale sono diventati di uso
comune, soprattutto presso le classi sociali di livello medio-alto, nei Paesi più
industrializzati e in alcune aree dei Paesi in via di sviluppo.
Dalla fine della Seconda guerra mondiale, l’Europa ha conosciuto un lungo periodo di
relativa pace (fanno eccezione, naturalmente, le sanguinose guerre combattute nei
territori della ex Jugoslavia durante gli anni Novanta). Le tecnologie belliche, tuttavia,
hanno avuto un enorme sviluppo e numerosi conflitti si sono svolti nel resto del mondo,
spesso con il coinvolgimento diretto o indiretto di Stati o interessi di Paesi europei o
nordamericani, causando circa trenta milioni di morti, senza contare i feriti, i torturati, i
profughi. Nel mondo dei fatti raccontati dai media, molte di queste violenze non si sono
9
mai verificate. Le tecnologie della libera informazione non sembrano quindi essere
bastate a contrastare la crescente “virtualità” delle guerre e delle vittime civili.
“Le comunicazioni moderne stanno rendendo più facile per un giornalista passare le sue
informazioni, con o senza approvazione, e più difficile per qualsiasi autorità controllare
il passaggio di informazione, o anche sapere che viene trasmessa”, disse il Ministro
della Difesa britannico all’indomani della guerra delle Falkland-Malvinas, il primo
conflitto invisibile dell’era televisiva.
La convinzione che sia ormai impossibile controllare e tanto meno frenare il libero e
anarchico flusso delle informazioni deriva forse da un certo determinismo tecnologico
(la possibilità di accedere alle informazioni e alle tecnologie in grado di trasmetterle
sarebbero condizioni sufficienti affinché le notizie vengano di fatto diffuse nelle sfera
pubblica e rese accessibili per tutti) e dall’ingenua convinzione che i mezzi tecnici di
riproduzione di immagini e suoni siano in grado di darci una visione totale, oggettiva e
trasparente degli eventi
1
.
A queste speranze risponde negativamente Mimmo Candito, reporter di guerra, che
sostiene:
“Oggi le tecnologie elettroniche consentono una libertà d’azione che nessun
vecchio corrispondente poteva immaginare; però mai lo scarto tra potenzialità
tecnologica e controllo dell’informazione è stato tanto ampio, drammatico.”
2
Strumenti di comunicazione tecnologicamente avanzati fanno ormai obbligatoriamente
parte del bagaglio di ogni reporter di guerra e sono in corso ricerche universitarie
sperimentali
3
per costruire il cyber-reporter del terzo millennio: un giornalista in grado
1
L’illusione della neutralità e della “trasparenza” degli strumenti tecnici di riproduzione della realtà
(soprattutto gli apparati di riproduzione delle immagini) è nata con l’invenzione della macchina
fotografica. Questo tema e le sue implicazione per l’informazione in tempo di guerra saranno discussi al
capitolo 2.
2
Candito, Mimmo, I reporter di guerra. Storia di un giornalismo difficile da Hemingway a Internet,
Baldini & Castaldi, Milano, 2002, p. 15.
3
I professori John Pavlik e Steven Feiner della scuola di giornalismo della Columbia University di New
York sono a capo di un progetto di ricerca per costruire la Mobile Journalistic Workstation (Mjw), un
computer contenuto in un grande zaino, a cui “sono attaccati vari strumenti: un modem per il
collegamento con Internet e con la redazione, un pc che il reporter terrà in mano per scriverci appunti e
note, un’antenna gps per la localizzazione dell’inviato, una cuffia e un microfono per ascoltare i
documenti sonori e dialogare con la redazione, una microcamera piazzata dietro la testa per inviare
immagini direttamente alla redazione o allo studio televisivo, e infine un paio di occhiali-schermo a
cristalli liquidi per far scorrere nel campo visivo (e sovrapposte a questo) tutte le informazioni di testo o
di immagini che il giornalista possa richiedere a Internet o al computer di redazione.” Candito, Mimmo,
op. cit., p. 549.
10
di comunicare una augmented reality grazie a sofisticate e per ora costosissime stazioni
di lavoro mobili.
Come ha dimostrato la crescente diffusione e visibilità del mediattivismo
4
negli ultimi
venti anni, tuttavia, le conseguenze potenzialmente più rivoluzionarie della disponibilità
di tecnologie di comunicazione più leggere, economiche e user-friendly e della
diffusione dei nuovi media dovrebbero probabilmente essere individuate nella
possibilità che offrono a chiunque di diventare un reporter e raccontare la guerra
dall’interno, dal punto di vista di chi necessariamente si trova sul campo: civili, membri
di organizzazioni umanitarie, militari schierati su qualsiasi lato del fronte.
1.1.2. Tappe di un percorso comune
Dalla fine dell’Ottocento, la guerra e l’industria delle comunicazioni sono state sempre
strettamente intrecciate e lo sviluppo dei media ha notevolmente influito
sull’elaborazione di nuove strategie militari. A dimostrazione di quanto affermato, è
possibile citare la nascita contemporanea e lo sviluppo parallelo di guerra industriale e
industria culturale, distruzione di massa e comunicazione di massa.
In una delle sue celebri ed epigrafiche sentenze, il massmediologo canadese Marshal
McLuhan affermava che “tutte le guerre si sono sempre combattute con la tecnologia
più nuova che ogni cultura aveva a disposizione”
5
.
Il legame tra modernità, tecnologie belliche e mass media è stato rilevato da molti
studiosi
6
. Le guerre sono infatti state uno “straordinario volano di accelerazione del
progresso tecnico”
7
, sia perché hanno reso sopportabili i costi di innovazioni
tecnologiche, che difficilmente sarebbero state perseguite rapidamente in tempo di pace,
sulla base di un’analisi costi-benefici, sia perché molte tecnologie belliche hanno poi
4
Cfr. Harding, Thomas, The Video Activist Handbook, Pluto Press, London, 2001. Edizione italiana
Menduni, Enrico (a cura di), trad. it. Giomi, Elisa, Videoattivismo. Istruzioni per l’uso, Editori Riuniti,
Roma, 2003.
5
McLuhan, Marshall, Understanding Media, [1964]. Traduzione italiana di Ettore Capriolo, Gli
strumenti del comunicare, il Saggiatore, Milano, 1995, p. 362
6
Tra gli altri, si vedano ad esempio Gozzini, Giovanni, Storia del giornalismo, Milano, Bruno
Mondadori, 2000; Hobsbawm, Eric J., Age of Extremes- The Short Twentieth Century 1914-1919, [1994].
Traduzione italiana di Brunello Loti, Il secolo breve, RCS Libri S.p.A., Milano, 1997
24
; Ortoleva,
Peppino, Ottaviano, Chiara, Guerra e mass media, Liguori Editore, Napoli, 1994; Savarese, Rossella,
Guerre intelligenti, Franco Angeli, Milano, 1992. Per una breve storia dell’intreccio tra comunicazione
dei conflitti e storia dei mezzi di comunicazione si può vedere anche l’intervento di Enrico Menduni
“Guerra, mass media e opinione pubblica” al workshop “Informazione di guerra, informazione in guerra”,
Siena, 11-12 aprile 2003.
7
Hobsbawm, Eric J., op. cit., p. 64.
11
trovato utili applicazioni in campo civile. La Seconda guerra mondiale accelerò il
processo di diffusione delle competenze tecniche, con un rilevante effetto
sull’organizzazione industriale e sui metodi di produzione di massa, così come la prima
costituì un momento importante per la diffusione del taylorismo in Europa.
Peppino Ortoleva sostiene che i conflitti del Ventesimo secolo hanno favorito
l’innovazione dei mezzi di comunicazione e contemporaneamente ne sono stati
condizionati.
“La radio, all’alba della prima guerra mondiale, era ancora quasi esclusivamente
radiotelegrafia, e la trasmissione dei suoni via etere (radiotelefonia, o radiofonia) era
ancora allo stadio della sperimentazione. Fu la Grande Guerra, con le sue esigenze
di comunicazione rapida, a imporre lo sviluppo a tappe forzate della radiofonia,
consentendo quel salto tecnologico che avrebbe portato di lì a poco alla
radiodiffusione circolare.
La televisione, negli anni precedenti la seconda guerra mondiale, era ancora una
tecnologia primitiva, e un medium a circolazione limitatissima.[…] Dopo lo scoppio
della guerra, le esigenze belliche […] paralizzarono per un certo periodo lo sviluppo
della televisione come mezzo di intrattenimento domestico, ma al tempo stesso
stimolarono la ricerca e l’innovazione in campo elettronico ponendo le basi per il
boom postbellico del nuovo mezzo.”
8
Lo stretto legame tra tecnologie di comunicazione e ambienti militari è evidente anche
nello sviluppo delle tecnologie informatiche e della rete Internet, nata da un progetto di
ricerca promosso dal Ministero della difesa americano, all’inizio degli anni Sessanta,
per preservare le telecomunicazioni in caso di guerra nucleare. Dagli anni Novanta, la
Rete ha cominciato a diffondersi a ritmi esponenziali tra la popolazione dei Paesi
occidentali e per una sorta di “vendetta della storia”, Internet sembra essere oggi il
mezzo più difficile da controllare e il principale canale di comunicazione aperto a punti
di vista alternativi a quelli dell’establishment
9
. Già dalla fine degli anni Ottanta, le reti
telematiche dimostrarono di poter essere efficacemente usate per diffondere
un’informazione sottratta da filtri e condizionamenti, creando così grandi aspettative di
liberazione. Ad esempio, furono i terminali informatici di PeaceNet a diffondere, il 22
Dicembre 1988, la notizia dell’assassinio del leader ecologista Chico Mendes a Xapuri.
8
Ortoleva, Peppino, Ottaviano, Chiara, op. cit., pp. 10, 11.
9
Questo apparente paradosso viene fatto notare da molti autori, tra cui Carlini, Franco, Internet,
Pinocchio e il gendarme: le prospettive della democrazia in rete, Manifestolibri, Roma, 1996.
12
Nel 1994, inoltre, i militanti zapatisti utilizzarono massicciamente la rete Internet per
dare diffusione mondiale alla loro lotta in favore degli indigeni del Chiapas.
La grande e crescente diffusione degli strumenti di comunicazione interattivi ha
certamente reso possibile la circolazione di un maggior numero di voci, resoconti e
opinioni, ma l’effettiva portata e incidenza sociale della novità deve essere valutata (e
probabilmente ridimensionata) in base alle attuali abitudini di fruizione, alla diffusione e
capacità di agenda-setting dei diversi media, alla fiducia di cui godono e al grado di
verificabilità delle informazioni diffuse. Se da un lato è infatti possibile affermare che
Internet fa di ogni cittadino un potenziale reporter e che il mezzo permette una
narrazione collettiva dei fatti, dall’altro è anche necessario sottolineare che la rete
sembra non offrire garanzie al suo fruitore. A proposito dell’uso di Internet durante la
guerra in Kosovo nel 1999, in un articolo piuttosto pessimista sulla possibilità di
migliorare il panorama dell’informazione grazie alla rete, Furio Colombo ha scritto che
il Web “offre una chiacchiera fervida e fitta che si incrocia intorno al tema terribile della
guerra, alza e diffonde la febbre, molto più di quanto non alzi e diffonda il grado e la
qualità delle informazioni”. Vi compaiono notizie senza prove né controllo e, in questo
senso, è in opposizione al metodo giornalistico, che dovrebbe invece basarsi proprio
sulla verifica delle informazioni e il controllo delle fonti. “La notizia senza filtri, che
tanti di noi hanno celebrato, al tempo dell’avvento della rete, mostra un suo carattere di
cui occorre prendere atto: la diceria dell’untore si diffonde con raffinata tecnologia.”
10
E’ inoltre necessario ribadire che persistono ancora notevoli problemi e una
distribuzione non omogenea dell’accesso (digital divide). Gli utenti della Rete
corrispondono infatti ancora in maggioranza alle classi medio alte, abbastanza colte e
benestanti delle città occidentali e gran parte della popolazione mondiale ne è ancora
completamente esclusa.
Proprio per la grande libertà di navigazione e per la possibilità che ogni utente si
costruisca un percorso di lettura del tutto personalizzato, Internet dimostra un potere di
agenda setting molto meno cogente di quello proprio dei giornali e della televisione.
Quest’ultima rimane comunque per la maggioranza della popolazione le principale (e
spesso l’unica) fonte di informazione.
10
Colombo, Furio, “Hackers, bugie, vittime. La guerra corre su Internet, in La Repubblica, p. 15,
mercoledì 5 maggio 1999.
13
1.2. Le guerre come evento mediale
1.2.1. Caratteristiche dei media events
Per i media, le guerre, soprattutto quelle che vedono coinvolti i Paesi occidentali o la
comunità internazionale, costituiscono un vero e proprio evento, cui dedicare spazi e
risorse, rompendo il consueto flusso televisivo
11
. Come ben hanno spiegato Dayan e
Katz
12
la trasmissione televisiva degli eventi produce per lo spettatore un effetto di
“iper-realtà” (un concetto simile a quello di augmented reality che abbiamo affrontato
nelle pagine precedenti): gli elementi presenti sulla scena vengono mostrati da posizioni
difficilmente accessibili e lo spettatore può seguire i fatti da molti punti di vista diversi
contemporaneamente, ottenendo una visione impossibile per chi vi ha preso parte o
assistito fisicamente. In relazione all’evento-guerra ciò significa, ad esempio, che lo
spettatore può seguire in contemporanea gli sviluppi della diplomazia internazionale, i
riflessi interni del conflitto e la situazione sul campo. Al pubblico viene mostrato il
decollo dei bombardieri, il momento in cui l’aereo sgancia la bomba, seguito
dall’esplosione e la nube di polvere e detriti che si alza da terra quando l’ordigno
raggiunge l’obiettivo
13
. Le guerre sono un tipico esempio di “competizione
14
” e sono
generalmente precedute da un periodo più o meno lungo di attesa durante il quale si
pongono ultimatum o si tentano le ultime mediazioni diplomatiche, prima che la guerra
si scateni e con essa il “diluvio informativo”.
Per le redazioni giornalistiche le guerre rappresentano un momento di grande impegno
ed esposizione. Tutte le maggiori testate inviano corrispondenti e operatori al fronte o in
varie “zone calde”, considerate rilevanti o strategiche ai fini della copertura del
conflitto. La capacità di fornire con rapidità notizie continuamente aggiornate (anche se
questo va talvolta a discapito della verifica e dell’accuratezza delle informazioni
fornite), con particolari nuovi, in grado di mettere in luce diversi aspetti delle vicende,
11
In realtà la copertura offerta dai media non può essere considerata in alcun modo automatica, ma
dipende da decisioni e influenze che analizzeremo in seguito.
12
Dayan, Daniel, Katz, Elihu, Media Events. The Live Broadcasting of History, Harward University
Press, Cambridge, USA, 1992. Traduzione italiana di Stefania di Michele, Le grandi cerimonie dei media,
Bologna, Baskerville, 1993.
13
I giornali forniscono lo stesso tipo di informazione attraverso gli infographics, che traducono nello
spazio lineare della pagina la successione cronologica delle azioni militari. Questa modalità di
rappresentazione è stata molto utilizzata anche nella descrizione delle armi utilizzate nell’operazione
Enduring freedom.
14
Competizioni, Conquiste e Incoronazioni sono le tre categorie elmentari attraverso cui è possibile
classificare, secondo Dayan e Katz tutti gli eventi.
14
sono i parametri in base ai quali le emittenti saranno giudicate e potranno magari
guadagnarsi fiducia e fama a livello mondiale.
Dirette televisive, telegiornali non-stop, edizioni speciali, numeri monografici:
l’informazione di guerra monopolizza tutti i canali, trasformandosi in un “super-genere”
che assorbe anche gli spazi generalmente dedicati all’intrattenimento. L’enorme
abbondanza di spazi identificati come “di informazione” crea nel pubblico la sensazione
di avere veramente la possibilità di vedere tutto, di poter seguire il conflitto in tempo
reale, fin nei minimi dettagli.
Le redazioni assumono anche il ruolo di “cerimonieri” dell’evento: lo spiegano e
cercano di renderlo più comprensibile al pubblico dei profani, attraverso una serie di
temi e strutture narrative ricorrenti. Armi e schieramenti sono descritti con minuzia,
anche nei particolari più tecnici. Esperti militari e di geopolitica vengono interpellati
quotidianamente per piegare le mosse dei combattenti o anticiparne le tattiche. Le
iniziative diplomatiche, gli ultimatum, i discorsi ufficiali e le minacce incrociate tra
leader e capi di stato vengono trasmessi, nell’ambito di una strategia di media
diplomacy.
15
Spesso si dà voce anche a chi individua, dietro ai conflitti e alle scelte
degli attori coinvolti, ragioni meno palesi e comunque diverse da quelle solitamente
proclamate. Numerosi servizi raccontano con pathos la partenza degli eroici soldati e la
loro vita al fronte, sulle portaerei e sui caccia. Ci si concentra per ore (o per decine di
pagine) sulle mostruosità commesse dai terribili dittatori contro cui si sta combattendo.
Si descrivono gli aiuti che arrivano alle popolazioni colpite dalla guerra, gli obiettivi
perfettamente centrati dalle armi intelligenti e, quando le bombe sbagliano bersaglio, si
parla di “effetti collaterali”.
Probabilmente uno dei personaggi quantitativamente meno rilevanti nei racconti di
guerra sono i civili. Molti studi hanno dimostrato che nei conflitti della seconda metà
del Ventesimo secolo, oltre il 90 % delle vittime sono state civili, senza considerare il
numero di profughi all’estero o di sfollati all’interno del Paese, i cui problemi spesso
continuano per anni dopo la fine della guerra
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. I civili coinvolti nelle guerre
costituiscono un argomento particolarmente delicato: sono spesso difficili da
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Rossella Savarese (Guerre intelligenti, Franco Angeli, Milano, 1995) utilizza questa espressione in
riferimento al ruolo dei media come “ambasciatori catodici” tra capi di Stato, diplomatici e policymakers,
soprattutto in situazioni di crisi o conflitto. Questo modo di gestire le relazioni politiche e diplomatiche si
è diffuso a partire dagli anni Sessanta.
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Si vedano ad esempio i dati riportati in Weiss, Thomas, Collins, Cindy, Humanitarian Challenges &
Intervention, Westview Press, Boulder-Oxford, 2000. Le guerre degli ultimi dieci anni hanno causato
cinquanta milioni di senzatetto e la morte di due milioni di bambini. Per quanto riguarda il rapporto tra
morti civili e combattenti, si è calcolato che in Bosnia, Ruanda e Somalia circa il 95 % delle vittime erano
cittadini inermi.
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raggiungere per gli organi di informazione (e talvolta anche per gli operatori umanitari),
le loro sofferenze possono essere strumentalizzate e gli esperti di comunicazione degli
eserciti hanno imparato a gestire con estrema cura anche questo aspetto, per cercare di
controllare gli effetti che una diffusione troppo libera delle notizie potrebbe avere
sull’opinione pubblica interna o internazionale.
1.2.2. La guerra in salotto e la sindrome del Vietnam
Il lungo conflitto che vide gli Stati Uniti impegnati in Indocina in un’estenuante e
logorante “guerra di guerriglia”, è generalmente considerato e citato come il momento
di svolta nelle relazioni tra media e eserciti. Dalla metà degli anni Settanta, all’inizio di
ogni nuovo conflitto si torna a parlare di “sindrome del Vietnam” o di “timori di un
effetto Vietnam”
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per motivare la decisione degli eserciti di tenere sotto controllo
l’informazione, di censurare le fonti dei reporter, di ostacolare la diffusione di notizie e
immagini riguardanti vittime civili o propri militari uccisi in battaglia o nel corso di
imboscate.
L’opposizione alla guerra in Vietnam costituì uno dei movimenti più forti e visibili
dell’America degli anni Sessanta e Settanta e ancora oggi molti sostengono che i media,
mostrando le terribili immagini delle devastazioni prodotte dai militari statunitensi sul
territorio e sui villaggi vietnamiti, i ragazzini ustionati dal napalm, i bonzi che si davano
fuoco nelle piazze per protesta e le salme dei soldati americani che rimpatriavano nelle
body bags, causarono la crescente opposizione dell’opinione pubblica alla condotta del
proprio governo e del proprio esercito in Oriente.
La guerra in Vietnam non fu la prima ad essere portata fin dentro le case, nei salotti dei
cittadini che vivevano in Paesi non interessati dalle operazioni militari. Radio, film,
fotografie e giornali avevano già raccontato la seconda guerra mondiale e quella di
Corea. La tv si era accreditata come “cronista della storia” agli occhi del pubblico,
soprattutto a partire dal 1963, quando trasmise in tempo reale l’omicidio del Presidente
John Kennedy a Dallas. Anche per questo negli anni Sessanta si diffuse anche l’idea che
il Vietnam avrebbe inaugurato una vera e propria nuova era della visibilità delle guerre,
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In ambito militare e di politica internazionale si parla invece di “sindrome del Vietnam” a proposito
della riluttanza statunitense ad impegnarsi in lunghe ed incerte operazioni militari di terra, che
comportano il rischio di ingenti perdite. Naturalmente l’aspetto comunicativo e quello militare sono tra
loro legati.