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rationally willing to revolt against their oppressive government”.
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La nostra indagine verterà soprattutto su interventi realizzati mediante uso
della forza; ne consegue che rispetto all’azione degli Stati si prospetta il limite
stabilito nell’articolo 2 paragrafo 4 della Carta delle Nazioni Unite, che
proibisce per questi ultimi “la minaccia o l’uso della forza sia contro l’integrità
territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato sia in qualunque altra
maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite”.
Nelle pagine che seguono analizzeremo se questo divieto sia applicabile
anche agli interventi finalizzati alla tutela dei diritti umani. Ma alcuni dei casi di
cui ci occuperemo non si sono risolti attraverso uso della forza; spesso sono
state dislocate nel territorio truppe scarsamente armate al fine di garantire le
condizioni necessarie per le operazioni di soccorso umanitario o il ritorno dei
profughi, con un mandato ridotto all’uso della forza in legittima difesa. Talora,
invece, l’uso della forza non è stato diretto contro il governo legittimo di uno
Stato, ma contro ribelli o fazioni che controllano di fatto alcune parti del
territorio.
In altri casi ancora, la coercizione ha assunto la forma della minaccia, poiché
comportava minori costi politici e militari: vedremo un esempio di tale tendenza
a proposito della crisi a Haiti nel 1994, che ha portato le autorità del governo de
facto ad acconsentire al dispiegamento di un contingente militare sull’isola.
Per quello che riguarda gli scopi dell’intervento, è difficile individuare nella
prassi ipotesi in cui la tutela dei diritti umani sia l’unico obiettivo dello Stato
che interviene, ma è evidente che per definire un’azione umanitaria essa deve
essere, se non esclusivamente, almeno principalmente motivata da una spinta
altruistica e non da ragioni di interesse proprio dello Stato o degli Stati che
intervengono.
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Cfr. F.R. TESÓN, Humanitarian Intervention: An Inquiry into Law and Morality, New York, 1997,
p.5.
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Infine l’intervento può essere una risposta non a dirette violazioni di diritti
umani ma all’impedimento dell’assistenza umanitaria in presenza di guerre
civili; in questi casi si parla di “violations of international humanitarian law”
Circa i soggetti che agiscono, l’intervento umanitario può essere realizzato
da uno Stato singolarmente oppure da un gruppo di Stati che agiscono come una
coalizione temporanea o come parte di una organizzazione internazionale. Lo
Stato o gli Stati che intervengono possono agire sotto l’autorità del Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite; le Nazioni Unite a partire dagli anni ’90, in
presenza di gravi violazioni di diritti umani che minacciavano la pace e la
sicurezza internazionale, hanno autorizzato l’uso della forza attraverso due
modalità: l’accompagnamento armato dei soccorsi da parte di forze delle
Nazioni Unite o l’intervento di uno o più Stati.
Si usa il termine intervento unilaterale per definire sia quello realizzato da
un singolo Stato (intervento individuale) che da un gruppo di Stati (intervento
collettivo) caratterizzato dalla mancanza di una autorizzazione formale da parte
del Consiglio di Sicurezza. L’intervento unilaterale si distingue, perciò, sia da
quello di forze armate sotto il controllo diretto delle Nazioni Unite, sia da un
intervento individuale o collettivo autorizzato da tale organizzazione. Sono
esclusi dal concetto di intervento, e quindi dalla nostra analisi le azioni di
organismi non governativi, come la Croce rossa o Médecins sans Frontières,
non essendo imputabili ad uno Stato.
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Intervento umanitario degli Stati e sovranità: il problema del consenso.
L’intervento umanitario comporta gravi conseguenze poiché implica che Stati
terzi esercitino un controllo anche sul dominio riservato, cioè sul rapporto fra un
certo Stato e i suoi sudditi. Secondo alcuni autori, infatti una concezione
assoluta di sovranità impedisce di fatto qualsiasi spazio per una ingerenza o
intervento umanitario.
Tuttavia si deve ritenere che una caratteristica di questo sia la mancanza di
consenso da parte dello Stato sovrano territoriale. Teoricamente non si parla di
intervento se lo Stato o gli Stati che intervengono rispondano ad una richiesta
del governo de jure. Ma la prassi mostra che il consenso dello Stato territoriale
non è decisivo per definire certe azioni come interventi umanitari leciti. Infatti a
volte risulta difficile individuare un accordo delle autorità dello Stato che
subisce l’intervento, perché il governo de jure può avere solo un parziale
controllo del proprio territorio o essere in esilio, a vantaggio di gruppi o fazioni
de facto. E’ necessario esaminare anche questi casi, distinguendoli però da
quelli in cui l’intervento ha assunto la forma di azione coercitiva. In alcuni casi
addirittura può essere venuta a mancare qualsiasi autorità di governo e quindi
non esistere un soggetto in grado di consentire all’intervento, come nel caso
della Somalia. Laddove manchi un consenso sarà perciò necessario accertare se
l’intervento sia comunque lecito.
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Intervento umanitario delle Nazioni Unite
È opportuno fare qualche cenno riguardo agli interventi delle Nazioni Unite,
sebbene questi siano oggetto solo marginale della nostra analisi, che concerne le
relazioni fra Stati nel diritto internazionale generale. Si pone il problema se
questi interventi siano fondati su poteri attribuiti al Consiglio di Sicurezza dalla
Carta. In altre parole si tratta di vedere se il Consiglio di Sicurezza possa
utilizzare le misure previste dal capitolo VII in presenza di gravi violazioni dei
diritti umani.
L’articolo 2, paragrafo 7, della Carta vieta all’organizzazione di intervenire
“in questioni che appartengano essenzialmente nella competenza interna di uno
stato”. Questo principio non pregiudica però l’applicazione di misure coercitive
a norma del capitolo VII.
Come risulta dall’articolo 24, paragrafo 1, della Carta delle Nazioni Unite, i
poteri attribuiti da questa al Consiglio riguardano il mantenimento della pace e
della sicurezza internazionale. Il sistema delle Nazioni Unite consente il ricorso
agli strumenti coercitivi previsti dal capitolo VII a garanzia della pace e della
sicurezza internazionale. La Carta non ammette esplicitamente l’uso della forza
per tutelare valori diversi da questi.
L’articolo 39 della Carta è la norma che attribuisce al Consiglio di Sicurezza
il potere di accertare l’esistenza di “ogni minaccia alla pace, violazione della
pace o atto di aggressione”, e di prendere le misure necessarie per il
mantenimento o il ristabilimento della pace e della sicurezza internazionale.
L’articolo 39 della Carta si presta ad interpretazioni molto ampie, consentendo
al Consiglio di Sicurezza di operare con una notevole discrezionalità nel
valutare l’esistenza di questi presupposti.
Se una crisi umanitaria di per sé non può dunque giustificare l’utilizzazione
degli strumenti previsti per situazioni accertate dal Consiglio come minaccia
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alla pace, violazione di essa o aggressione (art.39), recentemente il Consiglio ha
fondato la propria competenza ad intervenire o ad autorizzare uno Stato a farlo,
sulla individuazione di un legame di causa-effetto fra situazioni di crisi
umanitaria interne e la instabilità esterna.
Il legame fra l’emergenza umanitaria e la minaccia alla pace consente
l’utilizzazione di meccanismi previsti dalla Carta che non potrebbero operare
per l’attuazione di valori umanitari in quanto tali. Sebbene in via tendenziale la
minaccia alla pace non dovrebbe essere totalmente dissociata dal rischio di un
conflitto armato internazionale, dopo la fine della guerra fredda il Consiglio si è
servito di interpretazioni estensive dell’articolo 39, per soddisfare l’esigenza di
rispondere a delle violazioni di obblighi essenziali per la Comunità
internazionale. Alla luce di recenti risoluzioni e del vasto consenso con il quale
sono sempre state adottate, sembra che si possa ritenere che fra gli Stati vi sia un
orientamento secondo cui la minaccia alla pace prevista all’articolo 39 della
Carta possa anche includere conflitti armati interni.
Si può dunque ritenere che gli interventi umanitari delle Nazioni Unite siano
permessi sicuramente quando le violazioni dei diritti umani costituiscano una
minaccia alla pace e sia dunque soddisfatto il presupposto richiesto dall’articolo
39. Il problema nasce laddove la violazione dei diritti umani non costituisca una
tale minaccia; nella prassi più recente del Consiglio di Sicurezza non sono
mancati casi in cui l’esistenza di una minaccia alla pace è stata ricollegata alle
violazioni di diritti umani.
È stato anche posto il problema se si possa ipotizzare un dovere di intervenire.
D’altro canto per aversi un dovere giuridico in diritto internazionale, questo
dovrebbe derivare da una norma pattizia o di diritto internazionale generale, o
da un principio generale di diritto riconosciuto dalle nazioni civili.
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2
Cfr. Articolo 38 dello Statuto della Corte Internazionale di Giustizia.
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Riguardo alla prima ipotesi, né nella Carta né in altri trattati vi sono elementi
per individuare un obbligo in tal senso. Riguardo alla seconda ipotesi, nella
prassi non si ritrovano affermazioni di un dovere di intervenire giuridicamente
fondato, quanto piuttosto enunciazioni di carattere puramente morale. La terza
ipotesi è allo stato attuale non realizzabile, poiché implicherebbe la presenza
negli ordinamenti nazionali di norme che prevedano generali obblighi di
soccorso umanitario nei confronti di persone non legate da alcun rapporto
reciproco o sanzionino un dovere di assistenza umanitaria.