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un terreno di lotte fra eroi e esseri malvagi, rese più accattivanti dal fascino esotico di un
paesaggio alieno.
Con Heinlein e Bradbury Marte si fa già “rivisitazione”, e diventa lo strumento con cui
riproporre passaggi fondamentali della storia americana. Il pianeta non funge più da sfondo di
fantasiose avventure, ma si trasforma in metafora del passato, un luogo di conquista che ha
tutte le caratteristiche di una nuova America. Nel caso di Heinlein, l’attenzione si concentra sul
momento glorioso della rivoluzione, riproposta nella ribellione di una colonia marziana
all’egemonia terrestre. In Bradbury, invece, il parallelismo storico assume i toni severi della
critica, richiamando alla memoria – attraverso lo sterminio dei marziani da parte terrestre – le
vittime della colonizzazione americana.
Per Dick Marte assomiglia più a un’“allucinazione”, l’ennesima illusione di realtà che
crolla al primo squarciarsi di quel velo che, normalmente, impedisce all’uomo di vedere oltre le
apparenze. L’aridità del pianeta riflette quella dei sentimenti umani, e contribuisce a mettere
meglio a nudo quel degrado e quella corruzione che sulla Terra vengono costantemente coperti
da complesse reti sociali. Marte appare come uno specchio esasperato e distorto del nostro
pianeta, come l’ennesima immagine di wasteland proposta dalla cultura del XX secolo.
Il Marte di Robinson, infine, può considerarsi un ideale punto di arrivo di tutte queste
tendenze, un’utopia in fieri che si fonda su una rigorosa verosimiglianza scientifica e sulla
speranza che l’umanità sappia, anche moralmente, essere all’altezza del proprio progresso
tecnologico. Al tempo stesso, l’insieme di allusioni, riferimenti meta-letterari e invenzioni
personali con cui l’autore correda la propria narrazione fornisce al pianeta una nuova e più
ampia dimensione mitologica.
L’aumentata “visibilità” di Marte lo ha reso un soggetto appetibile anche per il grande
schermo, che mai come in questi ultimi anni ha mostrato tanto interesse nei suoi confronti.
Come per la letteratura, anche il cinema di fantascienza segue da vicino il progresso
tecnologico, senza però rinunciare alla segreta speranza di trovare sul pianeta più di quanto ci è
noto al momento. È questo il caso di Mission to Mars di Brian De Palma, in cui la prima
spedizione umana su Marte porterà alla scoperta delle nostre antiche origini marziane.
L’attuale presenza di due rover americani – Spirit e Opportunity – sulla superficie del
pianeta, e di una sonda europea – la Mars Express – in orbita intorno ad esso, sono la più
concreta testimonianza di quanto vivo e intenso sia l’interesse per Marte. Le loro scoperte, oltre
che utili a livello scientifico, alimenteranno probabilmente la fantasia di nuovi scrittori,
aggiungendo un nuovo capitolo alla mitologia fantascientifica marziana.
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Capitolo 1
Marte: un excursus storico
1. Dall’antichità al Cinquecento
Per capire il fascino e l’interesse che Marte, il quarto pianeta del nostro sistema solare,
ha esercitato per anni sull’immaginario collettivo, bisogna ripercorrere la storia delle
osservazioni e degli studi che lo hanno riguardato sin dall’antichità. Dopo essere stato per
migliaia di anni soltanto un puntino rossastro tra la moltitudine delle stelle, già presso gli Egizi
(3000 a.C.) Marte era stato identificato e battezzato, proprio in virtù del suo colore, Har
décher, ossia “il rosso”. I Babilonesi lo chiamarono Nergal, dal nome del dio della morte e
della pestilenza, ma presso di loro le osservazioni astronomiche erano ancora subordinate alla
religione.
Furono i Greci i primi ad assumere una prospettiva moderna e razionale e a identificare
Marte per quello che è realmente, ossia uno dei cinque “vagabondi” (in greco planetes) dello
spazio, un pianeta che si muove rispetto alle stelle cosiddette “fisse”. Essi lo chiamarono Ares,
figlio di Zeus e dio della guerra, probabilmente perché la guerra viene associata al sangue e al
fuoco. Anche i Romani diedero al pianeta il nome del loro dio della guerra, Marte, secondo per
importanza soltanto a Giove e protettore di Roma, di cui si può considerare il capostipite in
quanto padre leggendario di Romolo e Remo.
Nonostante la sua vicinanza, Marte creò diversi problemi agli antichi, i quali, potendo
disporre soltanto della propria vista per osservarlo, non riuscirono a spiegarsi le cicliche
anomalie del suo moto. Ogni due anni e due mesi circa, infatti, proprio quando il pianeta si
trova in “opposizione” rispetto al Sole e più vicino alla Terra, esso interrompe
momentaneamente il suo consueto moto da est a ovest e procede in senso inverso. Il fatto destò
lo stupore dei primi osservatori, al punto che Plinio arrivò ad etichettarlo “inobservabile sidus”.
Nell’universo geocentrico che gli antichi si erano costruiti, in cui i pianeti e il Sole seguivano
un’orbita circolare intorno alla Terra, non c’era spazio per i complessi movimenti che essi
notavano nel cielo. Come pure non c’era spazio per qualsiasi dottrina, come quella eliocentrica
di Aristarco di Samo (250 a.C. circa), che mettesse in discussione la perfetta armonia
dell’universo. La sua teoria – che, pur con tutte le sue imperfezioni, era comunque un primo
passo verso una corretta interpretazione del cosmo – era decisamente troppo all’avanguardia
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per quei tempi. Fu perciò presto sostituita dal sistema geocentrico (detto anche degli “epicicli”)
di Tolomeo, che, nonostante la sua artificiosità, rimase un pilastro dell’astronomia per un
migliaio d’anni. Bisognerà attendere Copernico e la fine del Medio evo per assistere alla
riabilitazione, anche se fra molta ostilità, del sistema eliocentrico di Aristarco.
In questa disputa secolare, Marte svolse un ruolo essenziale. Già prima dell’invenzione
del telescopio, infatti, due importantissimi studiosi ne osservarono il moto a occhio nudo
contribuendo in maniera determinante allo sviluppo dell’astronomia. Il primo fu il danese
Tycho Brahe, il più grande astronomo della sua generazione dopo Copernico. A differenza di
quest’ultimo, che era soprattutto un teorico, Brahe era un osservatore. Fu proprio osservando
Marte, in ogni sua opposizione a partire dal 1580, che Brahe si accorse che il pianeta poteva
avvicinarsi alla Terra più del Sole, fatto spiegabile con il sistema copernicano, ma non con
quello tolemaico. Brahe, comunque, non fu mai pienamente convinto delle idee di Copernico e
finì per adottare una posizione di compromesso, nota come “sistema ticonico”, in cui i pianeti
girano intorno al sole, mentre il sole a sua volta gira intorno alla Terra.
Brahe era molto geloso delle sue osservazioni e quando, nel 1600, fu affiancato nel suo
lavoro dal giovane matematico Johannes Keplero, non gli permise di avere accesso ai suoi dati.
Keplero iniziò a studiare il moto di Marte insieme a un altro assistente di Brahe, ma fu solo alla
morte di quest’ultimo che, potendone consultare gli appunti, arrivò a elaborare le sue famose
tre leggi sul moto dei pianeti (pubblicate nell’opera Astronomia Nova del 1609). La scoperta
che i pianeti si muovono secondo un’orbita ellittica, con il Sole ad occupare uno dei due
fuochi, fu, per ammissione dello stesso Keplero, dovuta anche a una buona dose di fortuna. A
parte Mercurio, infatti, Marte ha l’orbita più ellittica fra i pianeti che si conoscevano in quel
periodo, e basandosi sull’intuito Keplero realizzò che quanto valeva per questo pianeta doveva
valere anche per tutti gli altri.
Marte fu, pertanto, il punto di partenza per un completo capovolgimento del concetto
medievale di universo e la sua centralità fu perfettamente colta da Keplero, che così commentò:
“Solo Marte ci permette di penetrare i segreti dell’astronomia che altrimenti ci rimarrebbero
per sempre nascosti” (SMITH, 1992, p. 4).
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2. L’introduzione del telescopio
Anche se il suo moto era stato accuratamente definito da Keplero, nulla ancora si
sapeva della reale natura fisica di Marte. Per questo occorre attendere il 1609, una data epocale
nella storia dell’astronomia, l’anno cioè in cui Galileo Galilei puntò per la prima volta verso il
cielo una recente invenzione olandese, il telescopio. Dopo le osservazioni di Giove e della
Luna, fu la volta di Marte, nel 1610. Il pianeta allora si trovava alla sua massima distanza dalla
Terra e tutto ciò che Galileo riuscì a notare fu che non gli sembrava perfettamente rotondo. Al
di là, comunque, dei pochi risultati ottenuti, con Galileo iniziava una nuova era nello studio di
Marte. Il telescopio era allora uno strumento ancora molto primitivo, ma nel corso dei secoli
andrà incontro a continui perfezionamenti.
Quando Francesco Fontana, nel 1636, realizzò i primi disegni in assoluto del pianeta,
già disponeva di uno strumento migliore rispetto a quello di Galileo. I suoi schizzi sono
rudimentali e i pochi dettagli che vide non assomigliano a nulla di ciò che fu osservato in
seguito, ma a lui spetta il merito di essere stato il pioniere di un nuovo tipo di studi.
I primi veri disegni dettagliati sono opera di un altro grande astronomo del Seicento,
l’olandese Christiaan Huygens. Osservando il pianeta nel 1659, riuscì a scorgervi delle
macchie, alcune delle quali facilmente riconoscibili anche oggi, come la scura area triangolare
che in seguito sarà chiamata Syrtis Major. Proprio seguendo lo spostamento di questa macchia
sulla superficie, Huygens fu in grado di stabilire che Marte possedeva una rotazione, anche se
il tempo da lui calcolato si allontana decisamente da quello reale.
Molto più preciso fu Giovanni Domenico Cassini, che fissò il tempo di rotazione a 24
ore e 40 minuti, un valore estremamente vicino a quello esatto. Osservando la superficie
marziana nel 1666, anche Cassini vi scorse delle macchie, per quanto non facilmente
riconoscibili in base alle mappe che noi oggi possediamo. Nel 1669 Huygens e Cassini si
ritrovarono entrambi a Parigi e qualche volta osservarono Marte insieme. I risultati più
interessanti sono quelli cui arrivarono durante l’opposizione del settembre del 1672. Huygens
realizzò un disegno in cui appariva, senza ombra di dubbio, anche la brillante calotta del Polo
sud, mentre Cassini, più dedito allo studio teorico, riuscì a stabilire la parallasse del pianeta e di
conseguenza la sua distanza dalla Terra.
Con la morte di Huygens, nel 1695, si chiude un secolo di grandi scoperte in campo
astronomico, anche se relativamente poco si era aggiunto alla conoscenza effettiva di Marte. I
telescopi continuavano ad essere strumenti abbastanza primitivi e si era scoperto, inoltre, che le
condizioni atmosferiche incidevano in maniera determinante sull’accuratezza delle
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osservazioni. In queste condizioni non stupisce che, per i successivi 75 anni circa, le ricerche
abbiano subito una drastica battuta d’arresto, tanto da far parlare di una “lunga notte negli studi
marziani” (SHEEHAN, 1996, p. 43).
Cassini, che divenne cieco nel 1710, fu il capostipite di una vera e propria dinastia di
astronomi, il più importante dei quali, relativamente allo studio di Marte, fu il nipote Giacomo
Filippo Maraldi. Questi si dedicò a un’accurata serie di osservazioni di ogni opposizione a
partire dal 1672, ottenendo i suoi migliori risultati nel 1704 e nel 1719. Anche Maraldi vide
delle macchie sulla superficie marziana e sospettò che cambiassero non solo di opposizione in
opposizione, ma di mese in mese, convincendosi erroneamente che si trattasse di semplici nubi.
Sulla scia degli schizzi di Huygens, Maraldi iniziò il primo studio esauriente dei poli, notando
che la superficie delle macchie biancastre che li ricoprivano cambiava ciclicamente
dimensione, restringendosi e poi allargandosi di nuovo, segno che dovevano essere composte
da una qualche sostanza soggetta ad alterazione fisica.
Dopo Maraldi, che portò avanti gli studi su Marte in un periodo in cui questo era quasi
del tutto trascurato, bisognerà attendere gli anni Settanta del XVIII secolo prima che un altro
grande astronomo, William Herschel, rivolga le sue attenzioni al pianeta. Anche se la sua fama
è dovuta principalmente alla scoperta di Urano, Herschel aggiunse un importante tassello alla
conoscenza di Marte. Ipotizzò, per esempio, che le sue calotte fossero composte da acqua
ghiacciata, come quelle terrestri. Inoltre riuscì a stabilire l’inclinazione del suo asse, che
essendo molto simile a quella della Terra, fa sì che le stagioni marziane assomiglino alle
nostre, anche se la loro durata è quasi il doppio, dal momento che il pianeta impiega ben 687
giorni per compiere una rivoluzione completa intorno al sole.
Il secolo si chiude con il lavoro di uno dei più importanti astronomi a livello amatoriale
di tutti i tempi, Johann Hieronymus Schroeter. Le sue osservazioni iniziarono nel 1785, ma lo
portarono subito fuori strada circa la natura delle macchie marziane, che in quell’anno vide
solo come forme grigie e confuse, e al pari di Maraldi si convinse, con sua grande delusione,
che si trattasse soltanto di nuvole. Fu più fortunato negli studi teorici, con i quali confermò i
risultati di Herschel sull’obliquità dell’asse e la natura delle stagioni marziane.
Le osservazioni e le scoperte di Herschel e Schroeter contribuirono notevolmente ad
alimentare il mito di Marte come pianeta più simile alla Terra all’interno del nostro sistema
solare, l’unico capace di ospitare la vita, sempre ammesso che già non la ospitasse. Con loro lo
studio fisico di Marte era stato definitivamente avviato e si entrava in una nuova epoca,
un’epoca fatta di importanti conquiste, ma che culminerà, alla fine dell’Ottocento, in ipotesi
tanto suggestive quanto clamorosamente errate.
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3. L’Ottocento e la questione dei canali
Nel corso dell’Ottocento furono messi a punto telescopi sempre più potenti e precisi, il
che permise di ottenere immagini dettagliate della superficie marziana e di disegnarne le prime
mappe. Il secolo si apre con il lavoro congiunto degli astronomi William Beer e Johann Mädler
che, stando alle parole di Camille Flammarion, diedero avvio ad un nuovo periodo negli studi
di Marte, “il periodo geografico”. Flammarion sottolinea la loro importanza in maniera
piuttosto incisiva:
Cristoforo Colombo fu felice quando incappò nel continente americano durante
il suo viaggio di circumnavigazione dell’Asia. Marte non ha il suo Cristoforo Colombo.
Questi raggiunse la fama per il solo fatto di aver raggiunto l’America; una schiera di
astronomi è impegnata da più di un secolo a studiare il proprio continente celeste. Ma
Beer e Mädler meritano di essere ricordati come i veri pionieri in questa nuova
conquista. (FLAMMARION, 1892, vol. 1, p. 101)
I due si incontrarono nel 1824 e qualche anno più tardi, nel 1830, il loro osservatorio fu pronto
per l’uso. L’opposizione di quell’anno servì loro per stabilire che le macchie erano
caratteristiche costanti della superficie, non nubi come alcuni credevano, e per avvicinarsi
ancora di più all’effettiva durata del periodo di rotazione del pianeta.
Interessanti sono anche gli studi dei due poli, che osservarono a sette anni di distanza
l’uno dall’altro. Beer e Mädler notarono che le due calotte sembravano “sciogliersi” in
concomitanza con la stagione estiva, per poi riformarsi nel periodo invernale, lasciando
supporre analogie con quelle terrestri. Tale “scioglimento” avviene in maniera molto diversa da
polo a polo. Nell’emisfero sud, infatti, le stagioni vanno incontro a notevoli sbalzi di
temperatura, facendo sì che durante l’estate breve ma afosa la calotta si sciolga quasi del tutto,
per poi riformarsi completamente durante l’inverno lungo e rigido. Nell’emisfero nord, invece,
che per motivi legati all’eccentricità dell’orbita marziana si presenta come più moderato, la
calotta è soggetta a cambiamenti meno drastici. Nel 1840 Mädler raccolse tutte le informazioni
di cui era in possesso e disegnò la prima mappa del pianeta, una importante innovazione
rispetto al passato.
Negli anni successivi molti astronomi realizzarono ottimi disegni, da Warren de la Rue
a William Rutter Dawes, da J. Norman Lockyer a Frederik Kaiser, la cui mappa soppiantò
quella di Mädler, prima di diventare anch’essa datata.
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Nel 1867 l’americano Richard Anthony Proctor elaborò la mappa più dettagliata che
fosse stata disegnata fino a quel momento. Seguendo l’opinione ormai comune all’epoca,
Proctor interpretò le zone scure come “mari” e quelle chiare come “continenti”, consolidando
l’immagine di Marte come pianeta gemello della Terra. La sua nomenclatura, ampiamente
criticata perché basata quasi esclusivamente su nomi di astronomi inglesi, avrà vita breve e sarà
presto soppiantata da quella di gran lunga più evocativa del grande astronomo italiano
Giovanni Virginio Schiaparelli.
Con Schiaparelli e l’opposizione del 1877 si apre la fase più suggestiva degli studi
marziani. La prima grande scoperta di quell’anno venne dall’U.S. Naval Observatory di
Washington. Qui l’astronomo Asaph Hall, con un notevole spirito di iniziativa, riuscì a
smentire quanto da sempre era stato affermato nei testi ufficiali, ossia che Marte non possedeva
lune. Nell’agosto del 1877, dopo diversi tentativi falliti, Hall scorse dapprima il satellite più
esterno e poi, a distanza di alcuni giorni, anche quello più interno. Li battezzò rispettivamente
Deimos e Phobos, i nomi dei due compagni di Marte nel quindicesimo libro dell’Iliade. Da
quel momento gli avvistamenti dei due satelliti si susseguirono, dando credito alla scoperta e
stimolando la fantasia di chi, come Edward Holden e Henry Draper, credette di vederne anche
più di due.
È curioso ricordare che se la scoperta astronomica delle lune marziane è relativamente
recente, già più di un secolo prima era stata ipotizzata con sorprendente precisione dallo
scrittore irlandese Jonathan Swift. Nei Gulliver’s Travels, infatti, Swift non solo racconta che
gli astronomi dell’isola di Laputa hanno scoperto due satelliti intorno a Marte, ma ne descrive
le orbite basandosi sulle leggi di Keplero:
[The astronomers] have likewise discovered two lesser stars, or satellites, which
revolve about Mars, whereof the innermost is distant from the center of the primary
planet exactly three of his diameters, and the outermost five; the former revolves in the
space of ten hours, and the latter in twenty-one and a half; so that the squares of their
periodical times are very near in the same proportion with the cubes of their distance
from the center of Mars, which evidently shows them to be governed by the same law
of gravitation that influences the other heavenly bodies.
1
(SWIFT, 1998, p. 136)
1
“[Gli astrononomi] hanno pure scoperto due stelle minori, o satelliti, che girano intorno a Marte, dei quali il più
vicino dista dal centro del pianeta principale esattamente tre volte il suo diametro, e il più lontano cinque; il primo
compie il suo giro in dieci ore, il secondo in ventuno e mezzo: così che i quadrati dei loro tempi periodici son
quasi nella stessa proporzione con i cubi delle loro distanze dal centro di Marte, cosa che mostra chiaramente
come siano governati da quella stessa legge di gravitazione che agisce sugli altri corpi celesti” (SWIFT, 1995, p.
154).
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Probabilmente Swift era a conoscenza delle speculazioni di Keplero, il quale aveva ipotizzato
l’esistenza delle due lune di Marte basandosi ingenuamente su di un principio di progressione
aritmetica (Venere non ha lune, la Terra ne ha una, Marte, quindi, doveva averne due). Il suo,
comunque, rimane uno dei sorprendenti casi in cui la letteratura anticipa la scienza.
Se l’esistenza dei satelliti marziani è un dato certo e incontestabile, ben diverso fu il
destino cui andò incontro l’altra sensazionale scoperta del 1877, quella dei canali. In realtà già
nel 1859 il padre gesuita Angelo Secchi, direttore dell’osservatorio del Collegio Romano,
aveva utilizzato questo termine per indicare certe strutture regolari allungate sulla superficie
del pianeta, osservate anche da altri astronomi. In particolare, in una delle sue osservazioni,
Secchi parlò di “Canale Atlantico” per indicare la nota zona di Syrtis Major, giustificando
questo nome col fatto che quell’area gli sembrava svolgere lo stesso ruolo che sulla Terra ha
l’Atlantico, quello, cioè, di separare due continenti. Secchi fu dunque il primo a impiegare
quello che diventerà il termine più controverso dell’intera storia di Marte, anche se nessuno,
all’epoca, sembrò farci molto caso.
Nel settembre di quell’anno Schiaparelli, ormai un’autorità indiscussa nel campo
dell’astronomia, annunciò alla comunità scientifica la sua impressionante scoperta di una
complessa rete di linee, cui egli diede il nome di canali. Schiaparelli, in realtà, non intendeva
riferirsi a strutture artificiali, bensì naturali, tanto che in altre occasioni utilizzò, con lo stesso
significato, la parola “fiumi”. Tuttavia l’ambiguità del termine italiano, che può avere entrambi
i significati, si risolse ben presto nell’errata traduzione di “canale” in “canal”, che in inglese si
usa solo per indicare ciò che è costruito dall’uomo (a differenza di “channel”, canale di origine
naturale).
Schiaparelli, che aveva iniziato ad osservare Marte quasi per caso, per testare le
capacità del suo nuovo potente telescopio Merz (il migliore dell’epoca), si ritrovò ben presto a
notare tanti di quei dettagli da decidersi a realizzare una nuova e più completa mappa del
pianeta. Questa mappa, assolutamente innovativa nel suo genere, rappresenta una vera e
propria pietra miliare nella storia di Marte. Pasquale Tucci spiega che “era la prima volta che
per le osservazioni planetarie si introduceva la metodologia usata nelle carte terrestri” e in
questo Schiaparelli fu “un vero pioniere” (TUCCI, 1998, p. 16). Di fronte alla gran quantità di
dettagli in più, l’astronomo italiano si vide costretto ad abbandonare la nomenclatura di Proctor
e a crearne una nuova, pur senza avere la pretesa che venisse universalmente riconosciuta
(come poi accadrà). I suoi nomi, tratti dalla letteratura classica e dalla Bibbia, s’imporranno a
viva forza nell’immaginario collettivo per il loro carattere evocativo e assieme all’utilizzo di
termini quali “canali”, “mari”, “continenti”, “istmi”, “stretti” e così via, contribuiranno ad
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accrescere l’interesse per il pianeta. Come sottolinea William Sheehan, “in un certo senso i
nomi di Schiaparelli crearono un nuovo Marte, o almeno un modo nuovo di guardare il vecchio
Marte” (SHEEHAN, 1996, p. 62).
L’impatto psicologico del lavoro di Schiaparelli fu immenso. Marte assomigliava
sempre più alla Terra e questo non faceva altro che alimentarne il mito, destando la curiosità
dei non addetti ai lavori e stimolando la fantasia di quanti ritenevano di non essere i soli
abitanti del nostro sistema solare.
Qualche anno più tardi, in occasione dell’opposizione del 1881-82, Schiaparelli affermò
con sicurezza che alcuni dei canali da lui osservati nel 1877 si erano letteralmente sdoppiati.
L’astronomo parlò di “geminazione” e descrisse il fenomeno in questo modo:
Un canale che prima appariva come linea schiettamente semplice, d’un tratto si
trasforma in un sistema di linee, quasi sempre uguali e parallele fra di loro. […] le
geminazioni compajono tali da un giorno all’altro, durano qualche giorno o qualche
settimana, poi si riducono di nuovo a canali semplici, od anche entrambi i loro canali
scompaiono affatto. (SCHIAPARELLI, 1998, p. 98)
Schiaparelli non aveva dubbi sull’effettiva esistenza di canali e geminazioni, ma ne nutriva
molti circa la loro natura. Supporre che dietro tutto ciò ci fosse la mano di esseri intelligenti era
qualcosa di troppo ipotetico perché egli si sentisse di sostenerlo in via ufficiale. Tuttavia anche
Schiaparelli, in un articolo del 1895 destinato al grande pubblico (“La vita sul pianeta Marte”),
si lasciò andare per una volta alla più sfrenata immaginazione. Visto che le geminazioni
sembravano verificarsi con regolarità nel periodo che precede e in quello che segue le
inondazioni dovute allo scioglimento del polo nord, egli ipotizzò che i canali altro non fossero
se non un complesso sistema di irrigazione. È “il Gran Prefetto dell’Agricoltura” ad ordinare
ciclicamente che si aprano le chiuse e in realtà quello che noi riusciamo a vedere dalla Terra
non sono i canali veri e propri, ma la vegetazione che vi cresce intorno per effetto del
passaggio dell’acqua (cfr. SCHIAPARELLI, 1998, p. 87).
Schiaparelli era consapevole di essersi spinto “oltre” e di aver abbondantemente
infranto il confine tra “fatti” e “opinioni”. Lo testimonia il commento scherzoso che egli stesso
scrisse in calce al proprio articolo: semel in anno licet insanire. Ma se per l’astronomo lo
scenario era talmente fantastico da sentire l’esigenza di giustificarsene, per altri era
perfettamente plausibile. Proctor fu il primo ad avanzare l’ipotesi che i canali fossero opera di
esseri intelligenti e che la loro imponenza si dovesse alla minor gravità marziana. Il francese
Camille Flammarion, nel suo celebre libro del 1892 La Planète Mars et ses conditions
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d’habitabilité, si lasciò andare a speculazioni molto ardite, tra le quali, per esempio, quella che
anche le lune di Marte fossero abitate da esseri intelligenti, naturalmente microscopici.
Chi più di chiunque altro, però, contribuì ad alimentare questo genere di fantasie e a
rendere popolari i canali fu l’americano Percivall Lowell. Stando a quanto affermò uno dei suoi
biografi, “fra tutti coloro che, nel corso della storia, hanno posto interrogativi su Marte e
proposto soluzioni, [egli fu] il più influente e di gran lunga il più controverso” (HOYT, 1976,
p. 12). Lowell iniziò a studiare Marte nel 1894 dal suo osservatorio di Flagstaff, in Arizona, e
già l’anno successivo uscì il suo primo e discusso libro sull’argomento, Mars. Non solo era
certo della natura artificiale dei canali, ma, affascinato dalla somiglianza del paesaggio
desertico dell’Arizona con quello arido della superficie marziana, arrivò a ipotizzare che Marte
fosse ormai un mondo vecchio e prossimo alla fine. I suoi abitanti, per sopravvivere, avevano
costruito un complesso sistema di irrigazione per trasportare la poca acqua rimasta dai poli alle
oasi da loro coltivate. Tutto ciò faceva anche supporre che si trattasse di una razza
estremamente avanzata, capace di far fronte ai disagi fisici con l’esercizio delle proprie
sviluppate facoltà mentali. L’impatto di questo scenario decadente fu immenso, specialmente
tra la gente comune. L’interesse per Marte raggiunse livelli mai visti prima, tanto che non
mancò chi, certo dell’esistenza dei Marziani, tentò di mettersi in contatto con loro.
Naturalmente la comunità astronomica, in tutta questa vicenda, si ritrovò divisa. Alcuni
sostennero di aver visto canali e geminazioni, altri solo i canali, altri ancora né gli uni né le
altre, ma vi credettero ugualmente, sulla fiducia. Non mancò, poi, chi si mise a cercarli tenendo
a portata di mano la dettagliata mappa di Schiaparelli, falsando così in partenza qualsiasi tipo
di osservazione. Quasi tutti, insomma, volevano vedere i canali e questo, il più delle volte, era
già un motivo di per sé sufficiente per convincersi, in tutta buona fede, di averli visti.
Sul versante opposto, comunque, vi era una nutrita schiera di “anticanalisti”. Asaph
Hall, lo scopritore delle lune marziane, non vide mai i canali, così come Charles Augustus
Young; William Henry Pickering vide sì i canali, ma anche in corrispondenza dei cosiddetti
“mari” marziani, il che quindi portava ad escludere o che quelle zone fossero mari o che i
canali fossero realmente tali.
Il grande castello di illusioni sorto a fine Ottocento crollerà definitivamente nel secolo
successivo. Ciò che lo aveva reso possibile era l’ancora relativamente scarsa conoscenza che si
aveva del pianeta. Pur con tutti i passi in avanti che erano stati compiuti, infatti, gli studi su
Marte procedevano ancora a un ritmo lento e tra molti errori e contraddizioni.
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4. Il Novecento e l’era spaziale
Con l’inizio del Novecento sembrò che una nuova e più consistente prova arrivasse a
confermare le ipotesi di Lowell. Nel 1905, infatti, egli annunciò che due suoi assistenti, Carl O.
Lampland e Vesto M. Slipher, erano riusciti a fotografare i canali marziani. Lowell accennò
alla questione in Mars and Its Canals, pubblicato l’anno successivo, ma in realtà nel libro non
si mostrava alcuna foto. Inoltre, accanto all’entusiasmo mostrato da alcuni (Schiaparelli su
tutti), molti altri si dichiararono scettici, ritenendo le foto troppo poco definite per potervi
scorgere con sicurezza alcunché.
A cavallo fra i due secoli gli attacchi al “Marte lowelliano” furono ripetuti, anche se
spesso inascoltati. Nel solo 1894 arrivarono ben tre smentite, tutte da parte di fonti autorevoli.
W.W. Campbell, del Lick Observatory, escluse, con le sue indagini spettroscopiche, la
presenza di acqua nell’atmosfera marziana. Un suo collega, Edward E. Barnard, rese noti in
quell’anno i risultati della sua lunga osservazione del pianeta, sostenendo di non avervi mai
notato nulla di regolare e geometrico. Infine, Edward W. Maunder, in uno scritto provocatorio,
sostenne l’impossibilità di conoscere veramente in dettaglio la superficie marziana. Per lui i
canali altro non erano se non un’illusione ottica, dovuta al fatto che il nostro occhio, a una certa
distanza, tende a vedere punti distinti fra loro come fossero un’unica linea ininterrotta.
Maunder era un “convertito”, in un certo senso, poiché in un primo momento della sua
carriera era caduto anche lui in quell’illusione. Analoga fu la sorte dell’italiano Vincenzo
Cerulli, che nel 1897 iniziò a dubitare della rete di canali ed espresse le sue perplessità in
Marte nel 1896-97. Inutile dire che Schiaparelli, che pur vedeva in Cerulli il suo più
promettente successore, non condivise le sue idee.
Il più celebre fra coloro che si ricredettero fu il francese Eugène Michael Antoniadi.
Iniziò come collaboratore di Camille Flammarion e insieme a lui realizzò diverse mappe
corredate di canali, anche se personalmente non era mai riuscito a vederne molti. Poi
cominciarono i dubbi, dubbi che divennero certezza quando Antoniadi, nel 1903, disegnò una
mappa senza canali, la prima da 25 anni a quella parte. Nel 1909 iniziò le osservazioni con il
Grand Lunette, un potente telescopio con il quale fu in grado di distinguere molti dettagli della
superficie marziana, ma tutti estremamente irregolari. Nel complesso, Marte appariva molto
più simile alla Luna che non alla Terra.
Una risposta definitiva alla questione dei canali non arriverà che con le prime sonde
spaziali. Nel frattempo, gli studi svolti intorno a Marte si concentrarono anche su altri fattori,
volti soprattutto ad appurare l’esistenza o meno di vita sul pianeta. L’influenza di Lowell,
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anche in questo campo, si faceva ancora sentire, ma a poco a poco si fecero strada ipotesi
alternative, destinate a sconvolgere di nuovo il paradigma marziano.
L’atmosfera marziana, per esempio, incominciò a rivelarsi molto più rarefatta di quanto
si pensasse e con un’alta concentrazione di diossido di carbonio. La presenza di acqua non
veniva confermata dalle analisi spettroscopiche e quella che forse era contenuta ai poli in forma
ghiacciata sembrava davvero troppo poca a garantire la vita. Le temperature si prospettavano
molto più rigide di quanto ipotizzato da Lowell, che paragonava il clima di Marte a quello
inglese. Infine, dalle più recenti osservazioni emergeva un altro dato nuovo, ossia la presenza
di montagne e vulcani sulla superficie del pianeta, dato, questo, che ne metteva in crisi l’ormai
leggendaria piattezza.
Il nuovo paradigma che si andava costituendo, cioè quello di un pianeta molto più arido
e invivibile di quanto si fosse mai pensato, troverà definitiva consacrazione nel 1965, data
storica nello studio di Marte. Fu in quest’anno, infatti, che la sonda americana Mariner 4 riuscì
a inviare le sue prime straordinarie immagini ravvicinate. Con esse, forse in maniera fin troppo
brusca e precipitosa, ha fine un’epoca fatta di speculazioni fantastiche e ne ha inizio un’altra,
molto più tecnologica e realistica. Le sconcertanti foto del Mariner 4, infatti, mostravano una
superficie brulla e grigiastra, del tutto priva di canali, ma in compenso ricca di crateri, proprio
come la Luna. Le analisi dell’atmosfera rivelarono che questa non solo era estremamente
rarefatta, ma anche composta al 95% di diossido di carbonio, cioè praticamente irrespirabile.
Mentre i russi, che pur avevano iniziato per primi la corsa al pianeta rosso,
continuavano ad avere problemi con i propri lanci, gli americani riuscirono a mandare in porto
altre due missioni. Nel 1969, il Mariner 6 e il Mariner 7 inviarono altre immagini, molto simili
alle precedenti, costringendo gli astronomi a fare i conti con un Marte apparentemente davvero
poco interessante.
Tuttavia le tre sonde, nel complesso, avevano coperto appena il 10% della superficie. Il
pianeta aveva ancora molto da rivelare e lo fece nel 1971, quando la sonda americana Mariner
9 riuscì a sorvolarlo quasi interamente. Il paesaggio marziano si mostrò particolarmente vario,
ricco di sorprese come Olympus Mons, la più alta montagna del nostro sistema solare, e Valles
Marineris, un enorme canyon che si estende per 4000 chilometri lungo la linea dell’equatore.
Ma, soprattutto, la superficie risultava scavata da una rete di canali e affluenti che avevano
tutta l’aria di essere stati formati dallo scorrere dell’acqua. Pur non essendocene la certezza
assoluta, il fenomeno lascia supporre che anche Marte, in passato, fosse caldo e umido come lo
è oggi la Terra.
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Le scoperte del Mariner 9 rappresentarono un grande stimolo per la successiva missione
americana, concepita allo scopo di stabilire se sul pianeta esistesse o no una qualche forma di
vita. Si trattò di un’impresa storica, perché il Viking 1 e il Viking 2, inviati nel 1975 e arrivati
l’anno successivo, erano provvisti di un apposito “lander” che permise, per la prima volta, di
atterrare sulla superficie marziana. Purtroppo gli esperimenti destinati a rivelare la presenza di
vita diedero esiti contraddittori, rimandando il verdetto alle missioni future. Ancora oggi, pur
nella quasi totale certezza che Marte sia un pianeta morto, si continuano a cercare prove del
contrario.
Da allora, se si eccettua il parziale successo della sonda russa Phobos 2, che aveva per
obiettivo la più grande delle lune marziane e inviò immagini per circa due mesi, trascorsero
ben venti anni prima di assistere alla riuscita di un’altra missione. Nel 1996 gli americani
inviarono il Mars Global Surveyor, che arrivò nei pressi di Marte l’anno successivo e
incominciò a studiarne la superficie, l’atmosfera e la composizione, trasmettendo più
informazioni di quante se ne fossero mai avute fino a quel momento.
Il resto è storia recente. Nel 1997 il Mars Pathfinder, dotato non solo di un “lander”, ma
anche di un “rover” (il Sojourner) adibito all’esplorazione del terreno, permise un’accurata
analisi chimica di rocce e suolo marziani e affascinò, con le sue immagini, gli spettatori di tutto
il mondo. Attualmente il Mars Odyssey, partito nel 2001, sta orbitando intorno al pianeta,
cercando di stabilire la sua esatta composizione e di scoprire tracce di acqua. Ognuna di queste
missioni aggiunge un importante tassello alla conoscenza del pianeta, ponendo le basi per
quello che viene considerato il prossimo inevitabile e storico passo: lo sbarco dell’uomo su
Marte.
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Capitolo 2
Marte e la fantascienza
1. L’influenza di Percival Lowell (“Barsoom Mars”)
Marte è uno dei soggetti più amati dalla cultura popolare. Elencare il numero preciso di
romanzi, racconti, trasmissioni radio e film che lo hanno chiamato in causa è impresa
pressoché impossibile, senza contare i continui aggiornamenti cui andrebbe sottoposta tale
lista. Spesso il pianeta è stato un semplice strumento per rendere più allettanti e vendibili storie
che avrebbero potuto svolgersi in qualsiasi altro luogo. Nei casi più riusciti, però, si è rivelato
una scelta precisa e consapevole, protagonista della vicenda al pari dei personaggi che vi
prendono parte. Risalire alle origini di questo interesse non è certo molto difficile. Come
sottolinea Thomas Clareson, “what happened in science fiction resulted from a series of
discoveries in the field of astronomy which drew the imagination outward from the earth-moon
system”
2
(CLARESON, 1985, p. 202).
Di tutte queste scoperte, la più determinante fu anche quella scientificamente più
inconsistente, ossia la rete di canali disegnata con tanta precisione da Schiaparelli, nel 1877. Il
fatto, di per sé, sarebbe potuto restare senza grandi conseguenze se non fosse stato per
l’ostinata convinzione, da parte dell’astronomo americano Percival Lowell, che quei canali
fossero di natura artificiale. Come sostiene William Graves Hoyt, l’interesse per Marte, a
cavallo dei due secoli, sarebbe stato lo stesso senza Schiaparelli, ma non senza Lowell e
l’opera da lui svolta nel rendere il pianeta conosciuto al grande pubblico (cfr. HOYT, 1976, p.
12). Le sue tre opere di astronomia divulgativa (Mars, del 1895; Mars and Its Canals, del
1907; Mars as the Abode of Life, del 1908) sono un punto di partenza imprescindibile per
chiunque tenti di capire come Marte abbia finito per ricoprire un ruolo così importante nella
letteratura fantascientifica. In essi il pianeta è rappresentato come un mondo vecchio, arido, in
rovina, abitato da esseri intelligenti capaci di far fronte all’ostilità dell’ambiente con le più
avanzate opere di ingegneria. I canali, infatti, altro non sono che un complesso sistema idrico
creato per convogliare la preziosa acqua, presente solo ai poli, nelle poche aree destinate alle
colture (le “oasi”).
2
“Ciò che è accaduto nella fantascienza è stato il risultato di una serie di scoperte in campo astronomico che
attirarono l’immaginazione al di fuori del sistema terra-luna”.