9
In particolare, al primo capitolo è assegnato, il compito di ripercorrere
la parabola della rappresentatività sindacale.
Il ruolo del sindacato (di rappresentanza e di contrattazione) viene
riconosciuto dalla Costituzione: “…i sindacati registrati possono,
rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare
contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli
appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce” (art. 39).
Storicamente, è la L. 20 maggio 1970, n. 300 (c.d. Statuto dei
lavoratori) che codifica il diritto alla rappresentanza sui luoghi di
lavoro: “Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite
ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell’ambito delle
associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di
lavoro applicati nell’unità produttiva”.
Si parte, così, dall’articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori con le
vicende della maggiore rappresentatività confederale, ricostruendone
l’ascesa e, successivamente, il declino.
Le polemiche sull’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori (legge 20
maggio 1970, n. 300), e la crisi del sindacalismo confederale hanno
provocato un intenso dibattito nelle principali confederazioni
sindacali, rifluito in varie proposte di riforma organizzativa delle
rappresentanze a livello aziendale.
Si avverte l’esigenza di superare la rappresentatività presunta ed
irradiata in favore di un modello per lo più ispirato a principi di
democrazia rappresentativa, nonché aperto a momenti di verifica
periodica del consenso dei rappresentati.
La risposta, alla crisi di rappresentatività del sindacato confederale, è
costituita dal Protocollo del 23 luglio 1993 che ha affrontato il tema
della rappresentanza e della democrazia sindacale in azienda,
10
prevedendo i criteri e le regole per la costituzione e il funzionamento
di un nuovo modello di rappresentanza sindacale unitaria dei
lavoratori in azienda.
Le previsioni contenute nell’anzidetto Protocollo hanno, poi, avuto
concreta attuazione nell’Accordo Intercofederale del 20 dicembre
1993.
L’accordo trilaterale (governo, sindacati, padronato) stipulato per i
settori privati; per il settore pubblico, ha un alto valore simbolico,
espressione della volontà di costruire un unico sistema di relazioni
sindacali.
Vengono definiti e, per la prima volta nella storia del nostro paese,
vengono “formalizzati” i nuovi assetti contrattuali delle relazioni
sindacali. Per “assetti contrattuali” si intende la
individuazione/definizione dei soggetti abilitati alla contrattazione (i
sindacati rappresentativi a livello nazionale; le organizzazioni
sindacali firmatarie del contratto e le RSU a livello aziendale o luogo
di lavoro), dei livelli contrattuali (due, nazionale e decentrato), della
durata dei contratti (quadriennale, per la parte normativa, e biennale
per la parte economica).
A loro volta, spetta ai CCNL la individuazione, nello specifico, dei
soggetti e delle delegazioni abilitate a trattare e contrattare a livello
aziendale (secondo livello), delle materie (il che cosa contrattare) e
degli istituti contrattuali (le modalità, gli strumenti della
contrattazione, della negoziazione e della partecipazione: i diritti di
informazione, l’istituto o la procedura della concertazione, gli
organismi consultivi, ecc.).
Si conclude con un esame dello scenario post-referendum del 1995 e
dei suoi effetti, sul versante sia del lavoro pubblico, dove
11
l’abrogazione dell’art. 47 ha indotto il legislatore ad una riforma
organica e complessiva della materia, sia di quello privato, con
l’abrogazione parziale dell’art. 19 della legge del 20 maggio 1970, n.
300, dove la consultazione popolare non ha certo sortito immediati e
decisivi effetti in ordine all’adozione di nuove regole; regole, che,
peraltro, l’ultima progettazione legislativa ancora in stallo vorrebbe
comuni a pubblico e privato, all’insegna di una rappresentatività
"onnivalente" rispetto a tutti gli istituti promozionali dell’attività
sindacale.
Se il primo capitolo ha la funzione di tracciare l’evoluzione storico-
normativa della rappresentatività sindacale, il secondo capitolo mira,
invece, a sottolineare le caratteristiche delle rappresentanze sindacali
unitarie nel lavoro privato, che sono il (relativamente) nuovo
organismo di rappresentanza
1
dei lavoratori nei luoghi di lavoro.
Nel lavoro pubblico, la dimensione tradizionalmente pubblicistica del
rapporto di impiego con la P.A. ha fatto fa sì che il settore restasse per
molto tempo impermeabile, o quasi, ai principi privatistici della
rappresentanza volontaria.
Nello specifico, le RSU del pubblico impiego vanno collocate nel
grande processo riformistico avviatosi a partire dalla grande crisi della
rappresentanza politica nel nostro Paese del ‘92-93 (tangentopoli, crisi
dei partiti politici) e dalla congiuntura economica (inflazione a due
1
“Rappresentare” ed “essere rappresentativi” sono termini contigui, ma non identici.
“Rappresentare” significa sostituire, agire al posto, in nome di qualcuno; “essere
rappresentativi” può significare tanto rispecchiare, riprodurre, impersonare” le caratteristiche di
qualcuno o di un gruppo, quanto la capacità di unificare i comportamenti dei lavoratori rispetto
alle controparti e gli interlocutori in generale. Per rappresentatività sindacale si intende la
capacità di una organizzazione sindacale di unificare i comportamenti dei lavoratori, in modo che
questi operino non ciascuno secondo scelte proprie ma come gruppo (Giugni); si riferisce
generalmente al rapportro tra sindacati e lavoratori nel loro complesso, iscritti e non iscritti
(Napoli) e alla capacità del sindacato di porsi come soggetto organizzato nei confronti dei suoi
interlocutori, contrattuali e istituzionali. Per rappresentanza sindacale, invece, si intende il
legame tra sindacato e propri iscritti e le modalità di questo rapporto (Giugni, Napoli).
12
cifre, debito pubblico fuori controllo, i “vincoli” di Maastricht,
l’esigenza e le condizioni dell’ingresso nell’Euro, ecc.).
Il punto di partenza è rappresentato dalla legge 23 ottobre 1992, n.
421, “Delega al governo per la razionalizzazione e la revisione delle
discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di
finanza territoriale”. L’esecutivo è delegato a razionalizzare e a
riordinare la grande macchina pubblica. La articolazione
amministrativa deve entrare in quella cultura economico-privatistico
dove sono nati e si sono sviluppati i concetti e le pratiche della
programmazione per obiettivi, dell’efficacia (rapporto obiettivi-
risultati), dell’efficienza (rapporto costi-benefici), del budget, della
managerialità e della responsabilità amministrativo-gestionale, del
successo, dei premi e dei castighi.
Da una parte, le amministrazioni si autonomizzano, diventano
pienamente responsabili della propria organizzazione e gestione, si
“aziendalizzano”; dall’altra, come controfaccia, il rapporto di lavoro
viene “privatizzato”. I pubblici dipendenti diventano “prestatori
d’opera”.
Vengono ripercorse le tappe dell’evoluzione legislativa: notevole la
differenza tra prima e dopo il d. lgs. 396/’97 (il decreto di modifica-
integrazione del d. lgs. 29/’93, cfr. gli artt. 45, 46, 47 bis).
Nella fase precedente (prima del decreto) le RSU fungevano da
“terminali” e da soggetti locali in ordine alla sola funzione di
contrattazione aziendale; nella fase attuale (dopo l’emanazione del d.
lgs. 396/’97), le RSU concorrono, insieme al dato associativo, a
misurare la rappresentatività dei sindacati nazionali.
13
Se, prima, erano i sindacati nazionali a “legittimare” le rappresentanze
periferiche, ora il processo di legittimazione è (in parte) ascensionale,
procede dal basso verso l’alto (bottom-up).
Nell’elaborato si prende atto dell’esistenza di una netta divergenza tra
la disciplina dei due settori: c’è, da un lato, il modello organico ed
autoconcluso del "pubblico" e, dall’altro, quello disorganico e
sfilacciato del "privato", dove l’assenza di un nesso coerente tra
singole fattispecie della rappresentatività e relativi effetti si fa
particolarmente evidente.
Viene da interrogarsi, allora, circa l’opportunità di una trasposizione
nel lavoro privato delle scelte qualificanti inaugurate nell’impiego
pubblico: potrebbe, in altre parole, esser valutata come positiva
l’ipotesi di una disciplina sulla rappresentanza e rappresentatività
sindacale comune ai due settori.
Ed infatti, l’ultimo capitolo è dedicato alle prospettive di riforma della
rappresentanza sindacale nel settore privato.
14
CAPITOLO 1
RAPPRESENTANZE SINDACALI UNITARIE
E RAPPRESENTANZE SINDACALI
AZIENDALI:
UNA DIFFICILE TRANSIZIONE
15
1. L’ARTICOLO 19 DELLO STATUTO DEI LAVORATORI E
LE RAPPRESENTANZE SINDACALI AZIENDALI
Alla sua origine, l’articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori si presenta
come la legalizzazione di un ventennio di lotte nelle fabbriche italiane,
finalizzato ad affermare la cittadinanza delle organizzazioni sindacali
in azienda. Tutto il titolo III dello St. Lav. predispone delle garanzie
all’azione del sindacato e dei suoi rappresentanti (assemblea,
referendum, diritto di affissione, permessi per i rappresentanti
sindacali, etc…), infatti, l’art.19 non è una norma <<permissiva>>,
bensì una disposizione meramente <definitoria>, in altre parole, la
legge non dispone nel senso che il potere è riconosciuto solo alle
rappresentanze costituite secondo i presupposti indicati nell’articolo,
ma si limiterebbe a fotografare solo una delle possibili entità, e non
escludendo quindi altre forme di rappresentanza.
In particolare, l’art. 19 prevede espressamente che “rappresentanze
sindacali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni
unità produttiva, nell’ambito: a) delle associazioni aderenti le
confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale; b)
dalle associazioni sindacali non affiliate alle predette confederazioni,
che siano firmatarie di contratti collettivi nazionali o provinciali di
lavoro applicati nell’unità produttiva.”
“Adottando questa formulazione, il legislatore si è pronunciato a
favore di un modello di rappresentanza aperto a tutti i lavoratori e ha
posto al centro della tutela statutaria il sindacato-organizzazione che
risponde ai requisiti della lett. a) dell’art. 19 (maggiore
rappresentatività c.d. storica).”
1
1
Ghera-Bozzao, La rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro 1970-1993, Sipi, Roma, 1994,
p. 33.
16
E’ a queste rappresentanze che è attribuito in concreto il potere: con
queste il datore di lavoro deve trattare per l’installazione di impianti
audiovisivi (art. 4) o per la previsione di visite personali di controllo
(art. 6); alle rappresentanze è riservato il potere di poter convocare
assemblee del personale (art. 20), l’indizione del referendum (art. 21),
alle medesime è garantita la disponibilità di spazi per le affissioni di
comunicati e della stampa (art.25), la disponibilità di locali (art.27),
nonché la possibilità di fruire di permessi per i dirigenti (art. 23 e 30).
In sostanza ad ogni lavoratore è garantito l’esercizio della libertà
sindacale (art. 14), nonché il diritto di proselitismo e di raccolta di
contributi (art. 26), ma solo ai lavoratori affiliati alle associazioni più
rappresentative o che in ogni modo contano in concreto per la
regolamentazione in sede collettiva delle condizioni di lavoro è dato di
poter creare ad entità effettivamente titolari del potere sindacale
nell’unità di lavoro.
Ai lavoratori non affiliati nel suddetto modo, fermi i diritti dell’art. 26,
resta ben poco. Dove essi aspirino alla conquista del potere nell’unità
di lavoro, devono adoperarsi per dar vita ad un’altra associazione che
poi, per la forza delle adesioni, possa imporsi a quelle concorrenti e
alla controparte e giungere a stipulare contratti collettivi applicati
nell’unità di lavoro in questione, ponendo in esse la premessa esterna
per il conseguimento di una parte di potere all’interno.
“Quando si parla di r.s.a. non sempre, è chiaro se si parla di organi
deputati alla rappresentanza dei lavoratori o di organi deputati alla
rappresentanza delle associazioni sindacali dei lavoratori. La
distinzione tra il modello nel quale l’investitura ai rappresentanti è
data dal basso, mediante elezione da parte dei lavoratori (e quindi a
essere rappresentati sono direttamente questi ultimi) e il modello nel
17
quale l’investitura ai rappresentanti è data, per così dire, dall’alto, o
meglio al di fuori dell’azienda, mediante nomina dell’associazione ad
essere <rappresentata> da un proprio organo periferico e i lavoratori lo
sono soltanto per il tramite dell’associazione.”
2
La norma è stata letta, da alcuni, come un tentativo di conciliazione tra
l’investitura dal basso e il rapporto organico tra rappresentanze
aziendali e associazioni esterne, deducendo l’obbligatorietà del
carattere elettivo delle r.s.a. e dell’attribuzione dell’elettorato attivo a
tutti i lavoratori, iscritti e no.
Ma fin dai primi anni ’70, un’altra parte della dottrina qualificava le
r.s.a. come organo periferico delle organizzazioni sindacali.
Sta di fatto che, l’interpretazione della legge che ha prevalso e
l’applicazione che n’è stata fatta nella generalità dei casi lasciano alle
organizzazioni sindacali una libertà assoluta della modalità di
designazione dei membri della rappresentanza, salva la necessità della
presenza in azienda di almeno un lavoratore aderente all’associazione
interessata. Le r.s.a. traggono, dunque, la propria investitura
essenzialmente dalle rispettive associazioni sindacali, non dai
lavoratori in quanto tali.
Così ai sensi del vecchio testo dell’art. 19 potevano essere costituite
r.s.a. nell’ambito di associazioni sindacali che pur non avendo tra i
dipendenti di una determinata azienda un elevato numero di iscritti,
fossero tuttavia aderenti alle confederazioni maggiormente
rappresentative. Per contro, alle associazioni sindacali che avessero un
largo seguito in azienda, ma non avessero aderito alle Confederazioni
maggiormente rappresentative, non era consentito costituire r.s.a..
2
Ichino, Le r.s. in azienda dopo il referendum, RIDL, n. 2, 1996, p. 116 ss.
18
“Insomma, nella logica del vecchio testo dell’art. 19, la maggiore
rappresentatività sindacale non dipendeva dal numero dei lavoratori
iscritti e quindi non era determinata dal numero dei rappresentanti in
senso tecnico, e neppure presupponeva un mandato ascendente,
nonostante il richiamo all’iniziativa dei lavoratori, ma era un predicato
della Confederazione, cosicché era corretto affermare che la maggiore
rappresentatività, exart. 19 vecchio testo, discendesse dalla
Confederazione, per irradiazione, nei confronti delle proprie
articolazioni gerarchicamente sottordinate.”
3
L’unica manifestazione
di consenso che lo Statuto richiede espressamente ai lavoratori
riguarda la fase di costituzione della rappresentanza sindacale
aziendale, che deve avvenire secondo l’art. 19, ad iniziativa dei
lavoratori. Spetta dunque all’iniziativa dei lavoratori aprire le porte
dell’azienda al sindacato; ma una volta costituita, la rappresentanza
sindacale non è soggetta ad alcuna specifica verifica del mandato.
Le rappresentanze sindacali aziendali, cui sono conferiti diritti e poteri
rilevanti, non sono espressione di una rappresentatività inerente ai
lavoratori dell’impresa, ma si pongono come l’organo delle
associazioni nazionali collegate nelle grandi confederazioni destinato
ad operare nell’ambito dell’azienda. “Da un lato le grandi
confederazioni di lavoratori divengono monopolizzatrici
dell’organizzazione sindacale e fissano le linee di un’azione e di una
politica unitaria, dall’altro intendono crearsi una posizione di potere,
di supremazia, di direzione oltre che nei confronti degli associati, cioè
3
Santoro Passarelli, Prospettive di riforma della rappresentanza sindacale nel lavoro privato,
ADL, n. 1, 1999, p. 35.
19
di tutti i lavoratori, costruendo quest’edificio di potere dal basso, cioè
dalle aziende in cui vivono e operano i prestatori di lavoro.”
4
L’interpretazione dell’art. 19 che ha finito col prevalere anche in
dottrina, nel senso dell’assenza di qualsiasi vincolo circa le modalità
di scelta dei rappresentanti sindacali aziendali, corrisponde alla scelta
politica fondamentale che ha ispirato la legge del 1970.
Lo St. Lav. è stato scritto ed emanato in un periodo in cui il processo
di unificazione delle tre Confederazioni sindacali maggiori appariva
irreversibile, periodo in cui nessun’altra organizzazione sembrava
poter insidiare l’egemonia delle Confederazioni.
Per queste contingenti ragioni, il legislatore non solo non avvertiva
alcun bisogno di verifiche della loro rappresentatività effettiva nei
luoghi di lavoro, in quanto considerate a priori come garanzia di
miglior tutela dei lavoratori, ma soprattutto nutriva diffidenza nei
confronti di qualsiasi formazione <<autonoma>> che poteva
contrapporsi alle Confederazioni.
“Si spiega così perché nello Statuto venisse escluso qualsiasi
riferimento all’entità dei consensi (“rappresentatività”) di cui
l’associazione sindacale godesse nella singola azienda, e perché
venisse adottato un criterio selettivo fatto su misura per rafforzare ed
estendere a tutte le aziende di dimensioni medio-grandi l’egemonia
già conquistata sul campo nella maggior parte di esse da CGIL, CISL,
UIL.”
5
4
Simi, La disciplina delle rappresentanze sindacali aziendali e la costituzione, Il Diritto del
Lavoro, I, 1970, p. 333.
5
Ichino, Le r.s. in azienda dopo il referendum, RIDL, n. 2, 1996, p. 118 ss.
20
1.1 LE RAGIONI DELLA CRISI DI RAPPRESENTATIVITA’
“Costituisce ormai un’acquisizione generalmente accettata, sia dalla
dottrina, sia dalle stesse organizzazioni sindacali ,quella seconda cui a
partire dagli anni ’80 il sindacato è entrato in una situazione di crisi
che ha condotto ad un sempre maggiore distacco dalla base dei
rappresentati. Ciò ha comportato, oltre alla diminuzione dei tassi di
sindacalizzazione dei lavoratori, l’emersione di nuovi soggetti
sindacali, specialmente in alcuni settori, in cui alla frammentazione
rappresentativa è corrisposta un’alta capacità dimostrativa delle azioni
conflittuali.”
6
“Aris Accornero, sensibile sismografo dei fatti sindacali, richiamò
proprio in questa fase, la metafora della parabola (discendente) del
sindacato. La parabola della rappresentanza sindacale può essere
spiegata come progressiva erosione, sempre maggiore, della capacità
delle organizzazioni sindacali storiche di essere rappresentative delle
istanze di gruppi di lavoratori, ovvero il sindacato non riesce più a
farsi carico del compito di affrontare, mediare e organizzare le forze
conflittuali”.
7
L’espressione che meglio ha sintetizzato le difficoltà
delle organizzazioni sindacali, è “crisi di rappresentatività”, intesa
quale capacità di interpretare, di rispecchiare gli interessi del mondo
del lavoro”.
All’origine di tale crisi si deve ritenere che ci sia stata l’incapacità di
conciliare la sempre maggiore istituzionalizzazione del sindacato con
6
Manganiello, Le rappresentanze sindacali unitarie nel protocollo del luglio 1993 e negli accordi
istitutivi, in ADL, n. 4, 1997, p. 196.
7
Di Stasi, Le rappresentanze sindacali unitarie nel pubblico impiego, Giappichelli, Torino, 2000,
p. 7, cfr D’Antona, testo della lezione rivolta agli studenti e ai docenti della facoltà di
Giurisprudenza dell’Università di Firenze, 4 maggio 2000.
21
l’esigenza di una regolazione delle sue responsabilità, anche e
soprattutto verso i lavoratori, i quali in assenza di regole subivano
passivamente le decisioni dei rappresentanti, cioè delle organizzazioni
sindacali.
E’ doveroso soffermarsi sulle ragioni che hanno dato luogo a questa
crisi, perché solo un’attenta analisi delle sue cause può portare a
definire qualche soluzione.
Le ragioni, che sono state prospettate come causa della crisi del
sindacato, possono essere suddivise in relazione alla loro natura:
a) Economica;
b) Sociologica;
c) Politico-sindacale.
Tra le prime ragioni d’ordine economico deve ricordarsi la
trasformazione che è avvenuta nel settore industriale provocando
l’abbandono del modello taylor-fordista e del corrispondente modello
operaio di lavoratore-produttore. Infatti, anche per gli effetti della c.d.
rivoluzione tecnologica, la struttura produttiva dell’impresa ha visto
l’emersione di una pluralità diversificata di professionalità con
interessi ed esigenze non più omogenei e talvolta in conflitto tra loro.
Quindi, la rappresentanza sindacale ha avvertito l’esigenza di
contemperare interessi eterogenei.
Ma anche il decentramento produttivo ha eliminato un ulteriore
elemento d’unificazione come il luogo di lavoro, costituito fino allora
dalla “fabbrica”.
La perdita di centralità nel settore produttivo del sistema industriale,
(storicamente ritenuto pilastro del sindacato italiano), cui ha fatto
riscontro la maggiore diffusione del settore dei servizi caratterizzato
22
dalla presenza di una forte eterogeneità di posizioni professionali, è
stato ulteriore fattore di crisi sindacale.
La crisi del sindacato confederale si è manifestata col sorgere di
coalizioni di base in contrapposizione alle tradizionali organizzazioni
sindacali.
La congiuntura economica alla fine degli anni ’70 si è mostrata
sfavorevole, costringendo il sindacato ad interrompere la politica di
rivendicazioni acquisitive, ed innestando contemporaneamente
processi di riconversione e ristrutturazione aziendale collegati alla
crisi economica. L’effetto negativo sul sindacato e stato provocato dal
suo coinvolgimento nella gestione delle crisi aziendali, cui il
legislatore ha trasferito sul sindacato la responsabilità di tutelare i
diritti individuali e l’equa distribuzione dei sacrifici imposti dalle crisi
aziendali sui lavoratori attraverso la tecnica del “garantismo
collettivo.”
2
Se le ragioni economiche sono quelle di maggiore importanza, non
mancano motivazioni sociologiche che hanno influito sulla crisi
sindacale, nel senso di aggiungere all’esigenza di tutela degli interessi
tradizionali la necessità di rappresentare anche altri interessi.
Basti ricordare i mutamenti antropologici che hanno interessato la
figura del lavoratore.
Il modello tradizionale di lavoratore maschio, dipendente a tempo
pieno e con rapporto a tempo indeterminato in un’impresa medio-
grande sino al raggiungimento dell’età pensionabile è diventato
8
“Legge continua a garantire ai lavoratori alcune tutele, ma contemporaneamente, attribuisce
alle parti sociali, attraverso la contrattazione collettiva, la possibilità di apportarvi deroghe
quando ciò sia ritenuto dalle stesse necessario per consentire alle imprese di mantenere la propria
competitività su mercati sempre più concorrenziali e difendere così i livelli occupazionali, ovvero
la legge si limita a regolare una materia in linea di principio, attribuendo al contratto collettivo il
compito di integrarla” v. Giugni, Diritto Sindacale, Cacucci Editore, Bari, 2002, p. 21.