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seconda delle tipologie preventive sopraindicate (anche se non mancano riferimenti a
progetti il cui obiettivo è principalmente il consolidamento della percezione di sicurezza
dei cittadini), sottolineando l’importanza sia delle attività di sostegno (ri)educativo e
psicologico offerto ai soggetti coinvolti in “comportamenti impropri”, che del
rafforzamento e miglioramento della qualità dei servizi presenti e delle potenzialità
socializzanti del territorio. Si è potuto costatare come la prevenzione della criminalità in
ambito sociale sia applicata, quasi esclusivamente, in ambito minorile o adolescenziale,
articolandosi su più livelli basati sulle caratteristiche dei destinatari, dei contenuti, delle
finalità e delle aree d’intervento. Le argomentazioni più dettagliate riguarderanno proprio
tale tipologia preventiva, la quale sarà oggetto sia di una breve storiografia per delinearne
origine ed evoluzione, che di una sistematica presentazione dei principali modelli teorici e
metodologici di riferimento. Per fornire una panoramica della situazione attuale nel nostro
Paese del fenomeno della criminalità e della percezione di sicurezza dichiarata dai cittadini
riporteremo i risultati delle indagini statistiche, forniti da vari Istituti ed organi statali,
riguardanti gli ultimi anni e comparati con quelli diffusi dall’Eurostat e da altre fonti
dell’Unione europea.
Nella seconda parte dell’elaborato presenteremo gli esiti della ricerca effettuata
nell’ambito delle attività svolte dall’amministrazione pubblica per intervenire direttamente
sui fenomeni in esame. Verranno soprattutto evidenziate la crescente autonomia legislativa
e influenza istituzionale degli Enti locali (Regioni, Comuni e servizi sociali delle singole
municipalità) che nel corso degli ultimi decenni hanno portato ad un progressivo
decentramento della politica sociale secondo il principio della sussidiarietà dell’intervento.
In una fase successiva illustreremo i meccanismi e l’ammontare monetario dei
finanziamenti che dai Ministeri vengono, sulla base di specifiche disposizioni di legge ed a
seguito della presentazione di precisi progetti operativi rispondenti alle esigenze specifiche
della realtà locale, trasferiti agli Enti dislocati sul territorio nazionale. A riguardo
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mostreremo alcuni dei più interessanti interventi di prevenzione realizzati o ancora in
essere, indicando tipologia e bacini d’utenza cui fanno riferimento.
Nell’ultimo capitolo compiremo un confronto tra le politiche preventive
caratterizzanti le diverse realtà europee ed americane, con quanto esposto
sull’amministrazione italiana, riferendoci alle disposizioni del Parlamento Europeo per la
realizzazione di un sistema “unificato” di contrasto e prevenzione dei comportamenti
devianti e del crimine.
Nel corso dell’intero scritto sarà presente il continuo rimando alla realizzazione di
un sistema “integrato di prevenzione” che abbiamo inteso riferire a più significati: uno
riguardante la sinergia tra misure penali, di sicurezza urbana ed interventi attuati
nell’ambito sociale per agire sulle cause scatenanti il comportamento deviante; un altro
indirizzato verso l’emergere di una necessità collaborativa fra i vari attori istituzionali
impegnati in un settore notevolmente deficitario di riferimenti precisi, personale qualificato
e di un sistema di valutazione dei risultati realizzato ad hoc. Si prospetta, in ultimo, la
realizzazione di interventi incentrati su un Piano nazionale che indichi i livelli essenziali
dei servizi e delle priorità e che unifichi le diverse fonti di finanziamento. Integrazione
quindi, anche, come superamento di un sistema disperso in mille rivoli, disposizioni e
finanziamenti, reso incerto e confuso da sovrapposizioni e ambiguità di competenze.
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PARTE PRIMA
Capitolo 1 - I modelli teorici di riferimento
Nel primo capitolo dell’elaborato presenteremo una disamina il più possibile
completa ed esaustiva dei principali modelli teorici che nel corso degli anni hanno
determinato orientamenti ed approcci metodologici utilizzati per gli interventi applicati alla
prevenzione del crimine. Ad essi e alla loro evoluzione si deve fare riferimento per dare
ragione della politica preventiva, normative e finanziamenti compresi, attuata in Italia fino
ad oggi. Intendiamo in questo modo porre le basi per le argomentazioni che presenteremo
successivamente.
1.1. Il disagio giovanile
Il concetto di disagio giovanile necessita di una definizione più specifica e
pertinente che ne individui i confini e ne impedisca un uso generalizzato ed ambiguo. Esso
è stato esplorato, in particolare, dalla psicologia e dalla pedagogia che ne hanno
evidenziato la condizione di percezione soggettiva di un malessere – “il disagio si sente,
ma non necessariamente si vede”. (Regoliosi, 2000, p. 20). Il disagio è l’onere di reggere il
gioco della flessibilità dei percorsi, delle scelte e degli atteggiamenti, affrontato dai
soggetti della socializzazione (Neresini, Ranci, 1998).
Da questa definizione si può partire per focalizzare l’attenzione su due elementi
fondamentali che sono i compiti evolutivi dell’adolescente e la società complessa che, nel
loro percorso interattivo, sembrerebbero determinare i cosiddetti “fattoti-rischio”. Ne
consegue la necessità di interpretare il disagio come un processo dinamico in cui il ruolo
fondamentale è svolto dalle risorse personali e dalle opportunità ambientali. Nelle
situazioni in cui, o per deficit individuali o per carenze ambientali, i normali bisogni della
persona vengono negati o comunque ci si trova nelle condizioni di vivere una frustrazione
di essi il disagio può assumere caratteristiche più o meno marcate. Ciò risulta essere la
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conseguenza diretta o indiretta di problematiche familiari, di deprivazione culturale, di
marginalità socioeconomica, di carenze di spazi e tempi di aggregazione con il gruppo dei
pari. Al fine di chiarire le suddette differenze di disagio possiamo riprendere la
categorizzazione in tre livelli proposta da Regoliosi, ovvero:
a) un disagio evolutivo endogeno, che riguarda genericamente quasi tutta la popolazione
giovanile ed è legato alla natura transizionale dell’adolescenza;
b) un disagio socioculturale esogeno, risultato di condizionamenti tipici della società
complessa di tipo occidentale;
c) un disagio cronicizzante, scaturito dall’interazione di fattori-rischio individuali e
ambientali. (Regoliosi, 2000)
Il disagio, quindi, può essere ordinato lungo un continuum che va da una
fenomenologia grave (disturbi e patologie tipiche dell’età adolescenziale che si
manifestano in forma acuta e che compromettono lo sviluppo psico-fisico) ad una di tipo
generale e ordinario (disagio come patologia da impedire e come normalità da
salvaguardare e rafforzare). Questa distinzione ha, però, prodotto una settorializzazione
nell’area dei servizi sociali che tendono a distinguersi fra quelli rivolti alla “normalità” e
quelli rivolti allo studio della devianza. Da ciò scaturisce un inevitabile meccanismo di
“etichettamento” (di cui parleremo approfonditamente nei prossimi paragrafi)
Il disagio investe anche l’intero contesto sociale in cui si manifesta e si riproduce,
può essere individuato nella famiglia, nella scuola, nel mondo del lavoro e negli spazi
ricreativi. Esso, infatti, rappresenta un’esperienza comune ad individui, gruppi e comunità,
manifestandosi sul piano della comunicazione e della possibilità di usufruire di risorse.
(Maurizio, 1994)
Da tenere presente nell’affrontare queste argomentazioni è anche il concetto di
disadattamento, inteso come la mancata capacità e/o possibilità di un inserimento attivo e
propositivo dei giovani nella società, ovvero una relazione tra il soggetto e il suo ambiente
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di riferimento basata sulla passività del primo. Strettamente connessi al suddetto concetto
sono l’emarginazione, come processo sociale, e la marginalità, nell’accezione di
condizione sociale.
I comportamenti impropri, quindi, potrebbero (in questo caso il condizionale è
d’obbligo) scaturire come esito ultimo di un percorso, iniziato con un disagio
adolescenziale non risolto, probabilmente perché deprivato di risorse essenziali, proseguito
con esperienze di disadattamento indotte da condizionamenti ambientali e successivamente
aggravato da processi di emarginazione che hanno sortito condizioni di svantaggio sociale.
Quando tutto ciò viene riconosciuto come deviante dalla società “conforme alla norma”
l’etichettamento che ne deriva porta alla fossilizzazione di questa condizione e
all’assunzione di una identità negativa nella quale anche lo stesso soggetto finisce per
riconoscersi.
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1.2. La devianza e il comportamento criminale
La devianza costituirebbe, dunque, il punto di approdo di un percorso complesso
compiuto dal soggetto attraverso l’interazione costante con il contesto sociale di
appartenenza. Riprendendo quanto detto alla fine del paragrafo precedente si potrebbe
schematizzare (se mai fosse possibile e auspicabile) un itinerario personale e sociale del
giovane articolato nel modo seguente:
¾ una crisi adolescenziale caratterizzata da un forte disagio evolutivo che si scontra con
una società di tipo complesso generatrice essa stessa di disagio socioculturale;
¾ ne conseguirebbe un disagio cronicizzato determinato da deprivazione sempre di natura
socioculturale;
¾ il passo successivo sarebbero il disadattamento e lo svantaggio sociale che
porterebbero a processi di emarginazione;
¾ il risultato di quanto avvenuto in precedenza causerebbe l’attuazione di comportamenti
aggressivi di tipo deviante legati a fattori-rischio (da intendersi come un quadro
complessivo di variabili psicologiche, culturali e sociali che precedono e
accompagnano l’insorgere di forme di disagio – devianza):
¾ per arrivare, infine, alla devianza vera e propria riconosciuta da uno stigma sociale.
Non si tratta, ovviamente, di un percorso obbligato in quanto le variabili in gioco sono
molteplici e in grado di incidere in modo determinante sul tipo di risposta approntata dal
soggetto. A questo proposito citiamo il modello dell’interazione reciproca triadica di A.
Bandura che descrive il processo e il prodotto dell’interazione reciproca fra la personalità,
il comportamento e l’ambiente. Secondo l’autore il divenire psico-sociale della devianza
nei “percorsi di vita” presenta un andamento fortemente suscettibile della combinazione
dei suddetti elementi che possono assumere sbocchi notevolmente divergenti fra un
individuo ed un altro. La devianza, nel percorso di vita di un individuo, evidenzia forme
che possiamo considerare di tipo diacronico, nel senso che la relazione che si instaura fra i
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tre fattori presi in esame da Bandura sortisce esiti diversi sulla base dei contesti e dei
momenti della vita sociale in cui avviene. Da questo si evince che i fattori di rischio non
hanno carattere né di linearità ne di unidirezionalità, ma sono interattivi e agiscono
attraverso forme di reciprocità circolari che si modificano, come appena detto, in relazione
ai contesti e ai tempi. Numerosi studi e ricerche segnalano che “la devianza si genera e si
costruisce all’interno dell’interazione circolare e ricorsiva fra i fattori di protezione e di
rischio” (De Leo, Malagoli Togliatti, 2000, p. 99).
Con il fine di creare un sostegno epistemologico alle metodologie d’intervento in
campo preventivo che affronteremo nel terzo capitolo, intendiamo proporre un breve
excursus di quelli che ci sono sembrati gli approcci teorici più attinenti ed opportuni.
La devianza è stata affrontata dal punto di vista sociologico partendo da una
definizione di orientamento relativistico e interazionista secondo la quale essa “non è una
qualità intrinseca di un certo modo d’agire, ma un’interpretazione che se ne dà” (Cohen,
1969), in questa definizione sono riscontrabili sia la reazione sociale ad un comportamento,
atto o espressione che la maggioranza dei membri della collettività giudicano come uno
scostamento da determinate norme sociali, sia la necessità di una reazione al
comportamento stesso che secondo Becker sfocia in processi di etichettamento. Il sistema
etichettante è stato da Lemert approfondito nei concetti, da lui coniati, di devianza primaria
e secondaria. La prima corrisponde ad una violazione della norma sociale mediante un atto
non conforme che però viene giudicata come sintomatica e situazionale e per questo
reversibile, la seconda viene percepita come sistematica e conseguentemente porta alla
stigmatizzazione del soggetto. Ovvero, un atto di condanna che funge da imposizione di
ruolo. Il deviante secondario viene, infatti, definito dallo stesso autore, come “una persona
la cui vita e identità sono organizzate attorno ai fatti della devianza” (Lemert, 1981, p. 88).
Lemert nel suo lavoro riprende da Goffman il concetto di “stigma” che definisce come il
prodotto di un processo sociale che conduce a “contrassegnare pubblicamente delle
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persone come moralmente inferiori […]”(idem, 1981, p. 91) o pericolose e che provoca in
esse il tentativo di liberarsene. Tentativo, però, che nel momento in cui dovesse fallire
porterebbe come conseguenza il ripetersi di un episodio deviante simile o connesso a
quello che in origine aveva dato luogo alla stigmatizzazione stessa.
Una definizione, centrata più sull’intervento ri-educativo e quella di stampo
psicopedagogico che centra l’attenzione sull’inadeguatezza del comportamento e degli
atteggiamenti. All’operatore si richiede d’intervenire sul comportamento improprio e
quindi, prima che subentri lo stigma sociale che, qui, viene inteso come fattore-rischio che
può aggravare una situazione di emarginazione incipiente.
Più recente e attuale, oltre al già citato modello di Bandura, riteniamo essere il
concetto di carriera deviante in cui prioritaria è la valorizzazione della complessità del
contesto in rapporto all’individuo che con esso interagisce ricorsivamente “costruendo”,
attraverso la partecipazione attiva, il proprio comportamento. Si tratta di una forma di
circolarità in cui la devianza viene ad essere intesa non più come prodotto di un qualche
comportamento dettato, in forma quasi meccanico-causale, da una risposta ad un qualche
stimolo esterno, bensì, come processo in cui interagiscono in modo reciproco aspetti
cognitivi, comportamentali e di significato sociale (von Cranach e Harrè, 1982).
A questa visione più attuale ed esaustiva della spiegazione del comportamento
deviante e del crimine, ha in larga parte contribuito l’approccio sistemico. Modello
sviluppatosi dall’apporto di varie discipline quali la biologia, la teoria dell’informazione e
la cibernetica, con l’esplicito scopo di fornire una chiave di lettura alla “complessità
organizzata” più attenta all’analisi delle relazioni fra le variabili ambientale e individuale.
Il focus, in questo caso, è incentrato sulle modalità d’interazione fra i due soggetti e sulla
comunicazione intesa come veicolo per esprimerne i vissuti. Tutto il comportamento
verrebbe letto come forma di comunicazione. Nel caso della criminalità, essa sarebbe
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l’espressione di un disagio generato da sistemi sociali incapaci di rispondere
adeguatamente alle necessità del singolo in una determinata fase del ciclo di vita.
La devianza va analizzata come processo attivo del soggetto che non soccombe più
ad un determinismo esasperato, ma si trova ad interagire in dimensioni e prestazioni
situazionali, relazionali, temporali e simboliche. In questo senso si esprime il modello
sequenziale di Becker secondo il quale il percorso dell’azione deviante inizia dagli
antecedenti storici del soggetto, procede attraverso una crisi che si manifesta in età
adolescenziale attraverso episodi percepiti o agiti come devianti per poi “stabilizzarsi”,
eventualmente in una devianza cronicizzata, ovvero in una assunzione di identità deviante
(si veda la devianza secondaria di Lemert). Va sottolineato che i suddetti antecedenti
storici non sono da considerarsi come cause ma come fattori-rischio che sono attivi durante
il vissuto di socializzazione del soggetto e possono inficiare l’interazione fra l’identità
dell’Io, ancora parziale e in fase costruttiva, e il ruolo sociale ancora indefinito.
Da questo concetto possiamo sviluppare l’ipotesi che la devianza, soprattutto in
campo minorile, sia una forma di comunicazione con particolare riferimento agli effetti
espressivi da essa prodotti. L’indagine va effettuata sul problema del perché la ricerca
d’identità a volte sfoci in azioni devianti più o meno gravi. In molte devianze i giovani
mandano messaggi di relazione, di rapporto fra sé stessi e gli altri: la famiglia, il gruppo di
appartenenza, le istituzioni di controllo e della giustizia, la società, il loro quartiere (De
Leo, 1990).
La psicologia criminale ha, nella storia recente, prestato molta attenzione
all’identità ed in particolare al “processo di assunzione di identità deviante” che si
articolerebbe in tre fasi. La prima della quali sarebbe caratterizzata da un’antisocialità
occasionale senza ripercussioni sull’immagine del Sé. Nella seconda fase, il
riconoscimento sociale del “comportamento improprio”, determinerebbe una reazione
individuale tale da sfociare nella messa in atto di comportamenti marcatamente ed
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esplicitamente devianti, i quali avrebbero, come conseguenza ultima, quella di una
attribuzione di stigma sociale che si concretizzerebbe nell’assunzione di un ruolo negativo
da parte dell’individuo. In questo approccio al fenomeno criminale, dichiaratamente di
stampo interazionista e antideterminista, la centralità dell’azione e dell’attore sono
prevalenti, l’azione si impone sul comportamento in quanto già compreso in essa,
organizzato e dotato di significato dalle dimensioni cognitiva e simbolica. L’attore è
soggetto attivo in grado di attribuire un senso alla propria azione e di costruire un rapporto
con il contesto sociale e normativo nel quale trovano significato i suoi atti.
L’azione come “contesto ordinatore della realtà sociale del crimine” (Patrizi, 1996).
L’azione deviante espleta funzioni strumentali ed espressive, rappresentative di una sfera
cognitiva di latenza strettamente legate alla natura individuale del soggetto e delle sue
esperienze relazionali con il contesto sociale (di particolare rilievo nella spiegazione della
devianza minorile e adolescenziale). Attraverso l’analisi dell’azione sarebbe possibile
rintracciare sia la storia soggettiva e relazionale del soggetto, sia la sua prospettiva futura
attraverso la quale egli esprime le parti del proprio sé.
La devianza minorile richiede una maggiore sensibilità e attenzione a quelli che
sono i percorsi di assunzione d’identità negativa e quindi al processo sequenziale già
indicato da Becker e da Lemert. Rilevante risulta essere il concetto di personalità in
divenire nella sua interazione con i contesti della famiglia, della scuola, degli adulti e dei
coetanei di riferimento e con i possibili fattori di rischio e di deprivazione in essi presenti.
Con riferimento ad alcuni programmi di prevenzione secondaria che descriveremo
nel terzo capitolo, riteniamo utile citare la teoria della deprivazione relativa (Lea J., Young
J., 1984). Nata, sempre nell’ambito del costruzionismo complesso in contrapposizione alla
teoria dell’etichettamento e del controllo sociale, la teoria suggerisce l’ipotesi di poter
individuare una possibile spiegazione del crimine chiamando in causa il “malcontento”
(discontent). Il crime è inteso come problema reale in grado di produrre danni e
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vittimizzazioni soprattutto nelle aree più marginali della società. In oltre, sempre secondo
gli autori, il comportamento umano, in questo caso quello criminale, è caratterizzato da una
relativa autonomia e le differenze individuali e collettive nei comportamenti rappresentano
soluzioni adottate nei confronti di problemi dettate da posizioni culturali specifiche. La
deprivazione relativa emerge dalla continua attività di comparazione che gli individui ed i
gruppi attuano fra loro nei confronti delle proprie aspettative e delle effettive possibilità di
realizzarle che vengono loro fornite dalla società. Là dove queste dovessero essere carenti,
o percepite come tali dai soggetti, la conseguenza sarebbe quella di ritenersi vittime di
un’ingiustizia sociale. La differenza di fondo con le precedenti teorie deterministiche sta
nel ritenere la povertà, la patologia, la disoccupazione non come agenti criminogeni ma
bensì come generatori di questo sentimento di malcontento che spingerebbe ad attuare atti
devianti quali il razzismo, il vandalismo e la criminalità di strada.
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Capitolo 2 – Il fenomeno della criminalità in cifre
Riporteremo qui di seguito una breve rielaborazione dei rilevamenti statistici
riguardanti la criminalità nel nostro Paese facendo riferimento alle tipologie di reato, ai
soggetti responsabili di comportamenti devianti e della sicurezza urbana così come esperita
dai cittadini nel loro quotidiano. Il quadro complessivo della situazione attuale, che ne
consegue, permetterà una più consapevole trattazione degli argomenti della seconda parte
dell’elaborato, in particolare per quel che concerne le zone e i soggetti cui fanno
riferimento i progetti di prevenzione.
2.1. Il trend della criminalità in Italia (fonti: ISTAT, CENSIS e Rapporto sullo stato
di sicurezza in Italia emanato dal Ministero dell’Interno)
Per meglio inquadrare il fenomeno criminale riguardante il territorio italiano
riteniamo opportuno fare riferimento, riportandoli di seguito, ai rilevanti statistici diffusi
dai principali Enti nazionali e dal Ministero dell’Interno. Lo scopo è quello di fornire
elementi concreti per meglio affrontare il discorso che intraprenderemo nella seconda parte
dell’elaborato.
Il “Compendio statistico degli eventi criminosi, anno 2001” diffuso dal Sistema
informativo Interforze del Dipartimento della Pubblica Sicurezza fotografa la seguente
situazione: il dato generale è quello di un andamento pressoché stazionario della
criminalità con un calo irrisorio pari all’1,90% rispetto all’anno 2000, sono, in oltre,
aumentate le persone denunciate ( + 4,91%) e quelle arrestate (+ 1,20%). Analizzando il
rapporto tra i delitti e gli operatori della Forze di Polizia si evince che, nel periodo
considerato, questo risulta essere pari al 7,99 con una notevole disomogeneità nella
distribuzione sul territorio nazionale (la regione con la più alta presenza di operatori di
polizia per abitante è il Lazio). Con riferimento ai tassi generali di episodi criminali il
primato negativo va alla provincia di Rimini (n.6.985 delitti denunciati ogni 100.000