II
Quattro, in estrema sintesi, sono i caratteri che plasmano la
fisionomia del totalitarismo: un’ideologia ufficiale; un
movimento di massa centralizzato; il monopolio dei mezzi di
coercizione e comunicazione; una burocrazia forte, che esercita
un saldo controllo sull’economia e sui rapporti sociali.
Alla luce di una simile premessa, possiamo senz’altro
riconoscere al concetto di totalitarismo una valenza propria, una
sua dignità, uno spessore teoretico che va al di là della mera
polemica politica.
La genesi politologica del concetto si radica nel contesto
storico degli anni ’30 e ’40 del XX secolo; è scandita dalla
riflessione sul regime sovietico. Particolare attenzione meritano,
in questa prospettiva, le elaborazioni di Souvarine, Aron,
Bataille, Weil, che per primi disegnano i lineamenti di una critica
al totalitarismo destinati a rimanere punti fermi per tutta la
riflessione liberale sull’argomento, nel quadro di una
III
speculazione a torto sminuita, da taluni, a vantaggio della
successiva scienza politica americana.
Emergono, qui, le interpretazioni che costituiranno il
quadro di riferimento di tutte le teorizzazioni successive. Si
definiscono i percorsi orientati a scolpire il totalitarismo nella sua
novità concettuale, sul piano filosofico, storico, economico e
culturale, ma anche a rinvenire le sue radici nella cultura
occidentale, quale fenomeno certamente non avulso dal contesto
storico in cui matura.
Si profila, ad esempio, la valenza religiosa, escatologica
dell’ideologia totalizzante, la sua vocazione messianica, la sua
tensione ad una realtà ultima e perfetta, quale vera e propria
“religione secolare”. L’afflato religioso – come si avrà modo di
approfondire – non emerge a caso; matura piuttosto in relazione a
precise esigenze spirituali, rese impellenti dalla contingente
situazione storico-culturale.
IV
La religione, peraltro, non è certo l’unica chiave di lettura
del fenomeno in una prospettiva antropologica; nella stessa ottica
si pongono le istanze ermeneutiche di matrice psico-sociologica.
Accanto alle considerazioni di ordine antropologico, si
pongono le questioni squisitamente istituzionali, il cui baricentro
si colloca nella questione della continuità fra Stato e totalitarismo
(continuità fondamentalmente da negarsi, recando lo Stato
totalitario il crisma di un’istanza rivoluzionaria permanente).
Nell’orizzonte di queste riflessioni – un orizzonte
magmatico e convulso – emergono le istanze di mediazione, di
sintesi, di connessione, se non di reductio ad unum tra le varie
letture del totalitarismo. Questa fase evolutiva del concetto è
scandita dalle elaborazioni di Hannah Arendt, che si pongono sia
come momento di sintesi del dibattito sull’argomento, sia come
punto di partenza per le nuove analisi del fenomeno.
V
Alla stregua di queste premesse concettuali, si condurrà,
nell’economia del presente lavoro, una disamina delle realtà
politiche che portano le stigmate dell’ideologia totalitaria:
nazionalsocialismo, comunismo, fascismo. Si porrà attenzione,
da ultimo, agli atteggiamenti – non univoci – assunti,
nell’interazione con i regimi totalitari, da una realtà istituzionale
di notevole spessore spirituale, ma anche politico e culturale,
quale la Chiesa cattolica.
1
Capitolo primo
IL TOTALITARISMO
Sommario: 1.1. Genesi del concetto. 1.2. Definizioni e controversie. 1.3. Il
dibattito degli anni ’30 e ’40. 1.4. L’irruzione di Hannah Arendt nel dibattito
degli anni ’50.
1.1. GENESI DI UN CONCETTO
Iniziamo questo lavoro facendo subito delle doverose
precisazioni, onde evitare fraintendimenti di carattere politico-
ideologico: a) il concetto di totalitarismo non nasce all’epoca
della guerra fredda; b) non nasce come “controideologia”
democratica-occidentale nei confronti del mondo comunista; c)
non nasce con esclusiva connotazione negativa, ma, al contrario,
assume sin dall’inizio ampie cadenze apprezzative.
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Storicamente, dalla rivoluzione francese in poi, il termine
emerge raramente e sempre connesso all’idea di volonté générale
(Rousseau), di mobilitazione generale, di levée en masse, di
guerra totale (Robespierre, Ludendorff, Goebbels); d’altro canto,
teorici dello Stato tedeschi, quali A. Müller e Hegel,
attribuiscono all’idea di Stato una “totalità”, vale a dire un
carattere di globalità e di imperatività rispetto all’individuo e ai
gruppi sociali.
Queste idee vaghe e generiche trovarono un primo
sistematico assetto terminologico in Italia.
L’aggettivo “totalitario” sarebbe circolato già nei primi anni
venti tra gli oppositori del regime fascista per indicare la
preoccupante tendenza che il governo mussoliniano stava
assumendo: la tendenza verso un dominio assoluto e
incontrollato della vita politica e amministrativa.
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Jens Petersen ha trovato per la prima volta l’attributo
“totalitario” in un articolo di Giovanni Amendola ne “Il Mondo”
del 12 Maggio 1923, ove si parla del fascismo come “sistema
totalitario”, cioè «promessa del dominio assoluto e dello
spadroneggiamento completo e incontrollato nel campo della vita
politica e amministrativa».
Negli anni immediatamente successivi non sono molti coloro
che sembrano cogliere il potenziale innovativo dell’aggettivo.
Intellettuali come Salvatorelli, Fortunato, Mosca, Ferrero,
Treves, Labriola percepiscono sì la rottura apportata dal
fascismo, ma la esprimono ancora attraverso i tradizionali
strumenti lessicali della dottrina dello Stato, con le sue
distinzioni tra tirannia, dittatura e dispotismo. Tra coloro i quali,
invece, che non esitano ad associare il nuovo termine alla
radicalità dei cambiamenti intercorsi, vanno citati Pietro Gobetti,
Lelio Basso e Luigi Sturzo. In loro si fa strada la consapevolezza
4
che il nuovo modo di concepire lo Stato, la nazione e il partito,
attraverso un gioco di identificazioni reciproche, assolutizza e
deifica il potere, e le sue azioni, in una maniera mai vista prima,
sacrificando totalmente la libertà.
Non è allora un caso che Lelio Basso sulle pagine della rivista
“La rivoluzione liberale” del 2 Gennaio 1925, probabilmente
inauguri il sostantivo “Totalitarismo”. Infatti si legge: «Tutti gli
organi statuali, la corona, il parlamento, la magistratura che
nella teoria tradizionale incarnano i tre poteri e la forza armata
che ne attua la volontà, diventano strumenti di un solo partito
che si fa interprete dell’unanime volere, del “totalitarismo”
indistinto»
1
.
Il totalitarismo indistinto è, dunque, l’obiettivo di uno stato,
quello fascista, che pretende di rappresentare l’intero popolo,
1
J. Petersen ritiene che l’origine della parola e del concetto non va cercata né nel pensiero
di Mussolini né nell’ambiente fascista, ma nell’ambito dell’opposizione antifascista
liberale, democratica, socialista e cattolica, anche se in pratica, con la sua affermazione, il
fascismo se ne attribuì la paternità politica del termine, cfr. FISICHELLA D.,
Totalitarismo, Carocci, Roma - 2002, pag. 14.
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distruggendo qualsiasi movimento e qualsiasi persona che cerchi
di ostacolare tale pretesa. «Il totalitarismo fascista ha così posto
tutti i suoi principi: soppressione di ogni contrasto per il bene
superiore della nazione identificata con lo Stato, il quale si
identifica con gli uomini che detengono il potere (stato fascista).
Questo Stato è il Verbo, ed il suo Capo è l’uomo mandato da Dio
per salvare l’Italia; esso rappresenta l’Assoluto, l’Infallibile. Una
volta posti questi principi, lo Stato può tutto: ogni opposizione al
fascismo è veramente un tradimento della nazione, ogni delitto
fascista viene così giustificato».
Ciò che è caro all’autore, è che un nuovo ordine si sta
delineando, un ordine che va ben al di là della semplice
riorganizzazione politica. Oltre alla consapevolezza della
profondità del cambiamento, vi è in Basso lo stesso allarme che
già l’anno prima aveva portato Sturzo a denunciare, dalle pagine
della medesima rivista, «lo spirito di dittatura che oggi pervade
6
l’Italia» e «la nuova concezione di stato-partito» che stava
portando alla «trasformazione totalitaria di qualsiasi forza
morale, culturale, politica, religiosa».
La radicale novità introdotta dalla coppia di termini
totalitario-totalitarismo sembra colta anche da Gramsci,
preoccupato di spiegare, e non solo di condannare, la nuova
realtà del partito totalitario. Per Gramsci la politica totalitaria
tenderebbe. a) ad ottenere che i membri di un determinato partito
trovino solo in questo tutte le soddisfazioni che prima trovavano
in una molteplicità di organizzazione, quindi ad interrompere
tutti i legami con organismi culturali estranei al partito; b) a
distruggere tutte le altre organizzazioni o a incorporarle in un
sistema in cui il partito sia l’unico regolatore.
Una svolta importante nella storia dei termini è costituita
dall’entusiastica appropriazione che di essi fanno nel frattempo
sia Mussolini sia i teorici del “Nuovo Verbo”. Come se
7
l’aggettivo e il sostantivo riuscissero ad esprimere pienamente
l’enfasi rivoluzionaria e il volontarismo onnipotente che, almeno
dal punto di vista della propaganda, caratterizzano l’ideologia
fascista. È, infatti, il momento in cui il fascismo manifesta la sua
tenace volontà di opposizione alla liberal-democrazia. Nel
discorso tenuto dal duce, il 22 Giugno 1925, al IV Congresso del
Partito Nazionale Fascista, il fascismo viene esaltato proprio per
la sua capacità totalitaria. Il duce si espresse in questi termini:
«Abbiamo portato la lotta sopra un terreno così netto che ormai
bisogna essere o di qua o di là. Non solo, ma quella meta, che
viene definita la nostra feroce volontà totalitaria, sarà perseguita
con ancora maggiore ferocia […]. Vogliamo, insomma,
fascistizzare la Nazione, tanto che domani italiano e fascista […]
siano la stessa cosa ». L’appello del duce non rimane certo
inascoltato; l’aggettivo “totalitario” inizia a circolare quale
espressione dell’orgoglio littorio. Forges Davanzati, in un
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discorso del 28 Febbraio 1926 all’Istituto di Cultura a Firenze,
espresse il suo pensiero come segue: «Se gli avversari ci dicono
che siamo totalitari, che siamo domenicani, che siamo
intransigenti, che siamo tirannici, non vi spaventate di questi
aggettivi. Prendeteli con onore e con orgoglio […]. Si, siamo
totalitari! Vogliamo essere tali, dal mattino alla sera, […]
vogliamo essere domenicani […] vogliamo essere tirannici».
Da questo momento in poi, l’apologetica di Stato cerca di
strappare il monopolio dell’aggettivo e del sostantivo
all’opposizione e s’impegna a conferire ai due nuovi termini una
propria dignità teorica. Giovanni Gentile intende elaborare il
profilo filosofico del regime, suggellando al contempo il
passaggio dalla fase “eroica e movimentista” a quella “statalista”
del fascismo. Con la pubblicazione del 1928, per Foreign Affairs,
di «The Philosophical Basis of Fascism», e successivamente con
la stesura della voce Fascismo redatta per l’Enciclopedia Italiana,
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a nome di Mussolini, Gentile fissa in dottrina quelli che ritiene
essere gli elementi totalitari della concezione fascista.
“Antiindividualistica”, la concezione fascista è per lo stato, ma
nella misura in cui l’individuo coincide con lo stato, essa è per
l’individuo, e riafferma lo stato come la vera realtà
dell’individuo. È, inoltre, per la libertà, nella misura in cui la
libertà è l’attributo dell’uomo reale e non di quell’astratto
fantoccio cui pensava il liberalismo. Il fascismo è
“antidemocratico “solo se il concetto di popolo viene ridotto a
un’entità numerica, ma esso è la forma più schietta di democrazia
se il popolo è concepito qualitativamente e non quantitativamente
come l’idea più potente perché più morale, più coerente, più vera,
che nel popolo si attua quale coscienza e volontà di pochi, anzi di
Uno. Lo stato fascista è altresì una “realtà etica”, non naturale
che conferisce al popolo la sua unità e identità morale. Lo Stato
fascista, insomma, non è un semplice datore di leggi e fondatore
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di istituti, ma educatore e promotore di vita spirituale. Esso non
vuol rifare le forme della vita umana ma il contenuto, l’uomo, il
carattere, la fede. Perciò esso vuole che disciplina e autorità
“penetrino negli spiriti” e vi dominino incontrastati. Dunque,
quello che Gentile chiama “Stato totalitario fascista” in realtà si
presenta come una forma estrema di “stato etico”.
L’uso del termine si affermò decisamente sia all’interno che
all’esterno dell’ambiente fascista; ne è un esempio l’esternazione
di Pio XI
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il quale, in polemica concorrenza con il fascismo, il 18
Settembre 1930 affermava che «se c’è un regime totalitario di
fatto e di diritto, è il regime della Chiesa, dato che l’uomo
appartiene totalmente alla Chiesa».
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Il rapporto tra fascismo e Chiesa sarà analizzato al capitolo 5 del presente lavoro.