Senza volti, senza corpi, senza dolore. Senza il volto segnato dal
panico di nessun soldato che riportasse il grande show del conflitto
alle dimensioni dell'umano.
Dal punto di vista occidentale, il conflitto iracheno è stato scandito dai
servizi dei giornalisti embedded, letteralmente “incastonati” al seguito
delle truppe, una delle novità che hanno caratterizzato la copertura
mediatica dell’operazione Iraqi Freedoom. Questi nuovi protagonisti
del giornalismo di guerra, protetti e assistiti dall’esercito, si sono
rivelati una delle armi vincenti in mano alla propaganda Usa per la
conquista del “fronte interno” dell’opinione pubblica americana, un
fronte che- come ha sottolineato Roberto Reale- avrebbe potuto
“creare più complicazioni al presidente e al suo staff di quanto non ne
abbia creati la guardia Repubblicana di Saddam”
1
.
La copertura mediatica della prima guerra del Golfo, segnata da una
manciata di immagini del cielo di Baghdad attraversato dalle scie
luminose delle bombe e della contraerea irachena, ossessivamente
ripetute dalla CNN, ha decretato il successo globale del network di
Atlanta, che con le sue breaking news in onda 24 ore su 24, ha
rivoluzionato i tradizionali criteri giornalistici di selezione e scelta
delle notizie, imponendo un modello dell’informazione a “ciclo
continuo” per cui è stata coniata la definizione di “giornalismo fast
food”
2
. Il secondo capitolo della saga bellica statunitense in Medio
Oriente ha invece registrato il trionfo del “giornalismo patriottico”
inaugurato da Fox news, il nuovo canale satellitare all news nato
proprio per fare concorrenza alla Tv del gruppo Time Warner.
“Proprio come il successo della Cnn nella prima guerra del Golfo
aveva influito sulle politiche editoriali nel mondo televisivo -
scrivono Rampton e Stauber- il successo della Fox ha prodotto un
effetto a catena, costringendo gli altri network a personalizzare i
1
R. Reale., Non sparate ai giornalisti. Iraq: la guerra che ha cambiato il modo di raccontare la guerra, Roma,
Nutrimenti, 2003, p. 85.
2
F. Tonello, La nuova macchina dell’informazione. Culture tecnologie e uomini nell’industria americana dei media,
Milano, Feltrinelli, 1999
6
notiziari per competere con ciò che gli esperti del settore chiamavano
effetto Fox”
3
.
Secondo i dati diffusi dall’istituto Nielsen, una sorta di Auditel
americano, il maggior beneficiario del conflitto in termini di ascolti è
stata proprio Fox News, che ha fatto del patriottismo integrale e
dell’appoggio incondizionato al secondo conflitto iracheno il proprio
marchio di fabbrica, promuovendo uno stile aggressivo e
sensazionalistico di sicura presa sul pubblico.
Il nuovo canale di informazioni via cavo è tuttavia solo la punta
dell’iceberg della News Corporation, il gigantesco impero editoriale
presieduto da Rupert Murdoch, che grazie all’acquisizione del canale
satellitare Direct Tv, oltre alle svariate Sky Tv sparse in tutto il mondo,
può contare sulla smisurata cifra di 120 milioni di abbonati distribuiti
in 52 paesi.
La News Corporations inoltre pubblica 175 giornali nel mondo, tra cui
The Times, The Sunday Times, The Sun, The News of the World, nel
Regno Unito, il New York Post ed il Weekly Standard negli Stati Uniti.
40 milioni di esemplari alla settimana in totale, venduti in tutti i
continenti.
William Randolph Hearst, il simbolo dell’influenza raggiunta dal
“Quarto Potere” all’epoca dell’”età dell’oro della stampa”, e alla cui
figura non a caso si ispira Citizen Kane ,il capolavoro cinematografico
di Orson Welles, al confronto con l’estensione smisurata dell’impero
mediatico di Murdoch, come sottolinea un’articolo apparso su Le
Figaro, “farebbe la figura di un editore di bollettini locali”
4
.
Hearst , attraverso una violenta campagna stampa a favore
dell’intervento militare a Cuba, uno degli ultimi possedimenti
spagnoli, trascinò praticamente gli Stati Uniti nel conflitto ispano-
americano, ribattezzata da molti come la guerra di Hearst.
Allo stesso modo, come sostiene Federico Rampini su La Repubblica
del 16 Aprile 2003, “l’intervento in Iraq passerà alla storia come la
3
S.Rampton., J. Stauber., Vendere la guerra. La propaganda come arma d’inganno di massa, Ozzano dell’Emilia(
Bo), Nuovi Mondi Media, 2004, p.139.
4
“Rupert Murdoch et Lord Black: Deux serviteurs zélés de la propagande francophobe , Le Figaro, 17 febbraio 2003,
http://forums.transnationale.org
7
vittoria privata di Rupert Murdoch, per il suo ruolo decisivo nel
“venderla” all’opinione pubblica angloamericana mobilitando la
potenza planetaria dei suoi mass media. E’ stato il motore ideologico
di questa guerra”
5
.
Tuttavia, nonostante l’appoggio incondizionato della corazzata
mediatica di Murdoch, e della maggior parte dei grandi network
informativi statunitensi, abbia fornito un sostegno importante
all’amministrazione Bush per convincere l’opinione pubblica
americana circa “la giustezza della guerra” intrapresa in Iraq,
l’opinione pubblica internazionale, definita dal New York Times del 16
febbraio 2003, sull’onda delle grandi manifestazioni contro la guerra
che hanno portato in piazza 110 milioni di persone in tutto il mondo,
come “la seconda superpotenza mondiale”
6
, è rimasta piuttosto
scettica riguardo alla necessità di un intervento militare; sia prima,
durante la lunga campagna mediatica che ha preceduto l’inizio delle
ostilità; che dopo, di fronte al perdurare della crisi irachena una volta
decretata ufficialmente la fine della guerra.
Secondo un sondaggio pubblicato negli Stati Uniti
7
, alla vigilia
dell’inizio delle operazioni militari in Iraq, mentre il 59% degli
americani si dichiarava favorevole alla guerra, solo il 39% dei
britannici, i cui soldati erano in procinto di partire a fianco delle forze
Usa , appoggiava l’intervento militare “alleato”. In Italia, Spagna e
Polonia, paesi inclusi nella “coalizione dei volenterosi” che
sostenevano la spedizione angloamericana nel Golfo, la percentuale
dei sostenitori della guerra crollava rispettivamente al 17, al 13 e al
21% degli intervistati. Percentuali simili in Germania e Francia, dove
solamente il 27 e il 21% dichiarava di non essere contrario
all’intervento. In Russia infine, l’operazione Iraqi freedoom era
approvata da appena il 10% della popolazione.
Nello stesso Iraq “liberato”, appena nove giorni dopo il trionfale
abbattimento della statua di Saddam, anziché lanciare mazzi di fiori ai
5
F. Rampini, La Repubblica, 16 aprile 2003.
6
New York Times, 16 aprile 2003
7
“America’s image furthrer erodes, europeans want weaker ties”, Pew research center for the people and the press,
Washington, 18 marzo 2003, http://people-press.org/
8
soldati americani, come enfaticamente raccontato dalla “coalizione”
dei media occidentali, migliaia di persone affollavano le strade di
Baghdad per protestare contro l’occupazione americana. Come
riporta il Corriere della Sera on line del 18 aprile 2003 : “nel primo
venerdì di preghiera da quando i tank Usa sono arrivati nel cuore della
capitale irachena la scorsa settimana, i fedeli si sono riversati per le
strade gridando slogan contro gli Usa in nome dell'Islam unito. In
migliaia cantavano “no a Bush, no a Saddam, sì alla libertà, si
all'Islam”. [..] “Daremo ai soldati americani pochi mesi per lasciare
l'Iraq. Se non lo faranno, li combatteremo con i coltelli”, ha detto uno
dei dimostranti”
8
. Sinistri presagi di una situazione di crisi che a
qualche mese di distanza sarà descritta come “l’inferno iracheno”. “A
un anno esatto dalla presa di Baghdad- recita un lancio dell’Ansa del
9 Aprile 2004- la guerra in Iraq sembra ricominciare più vigorosa che
mai. Si combatte da nord a sud del Paese e si aggiorna di continuo il
conto dei morti”. Lo stesso giorno, mentre i commentatori dei media
cominciano a evocare sempre più insistentemente lo spettro di un
nuovo Vietnam, la tv satellitare araba Al Jazeera trasmette le
angoscianti immagini dei tre ostaggi giapponesi rapiti da un gruppo di
guerriglieri iracheni, bendati, legati e con il coltello alla gola, costretti
a gridare invocazioni ad Allah. Immagini crude e brutali che
contrastano drammaticamente con la rassicurante visione della guerra
proposta dai mezzi di informazione occidentali,-come scrive Guido
Rampoldi su La Repubblica del 9 aprile 2004- “uno spettacolo in cui
l’orrore era ben sterilizzato, non ci sporcava, non ci contagiava”
9
.
Attraverso lo sguardo delle telecamere delle tv satellitari arabe, la
sensazione è quella di assistere ad un’altra guerra, molto diversa da
quella iper-patriottica andata in onda sui media americani: è la storia
di una violenza quotidiana contro civili inermi, con immagini
terrificanti di corpi smembrati, bambini attoniti, donne in lacrime.
Mentre sugli schermi della CNN e delle altre testate giornalistiche
occidentali andava in onda la lunga sequenza della rimozione della
8
“Migliaia in piazza a Bagdad: via gli americani”, Corriere della Sera, 18 aprile 2003,
http://www.corriere.it/Primo_Piano/Esteri/2003/04_Aprile/18/proteste.shtml
9
G. Rampoldi, “Quel pugnale alla gola, l’immagine del nostro terrore”, La Repubblica, 9 aprile 2004
9
statua di Saddam Hussein da Piazza del Paradiso, più o meno
“patriotticamente” commentata a seconda della nazionalità e della
proprietà dell’emittente, le emittenti arabe mostravano le vittime civili
dei bombardamenti angloamericani urlanti dal dolore accolte negli
ospedali iracheni.
Come accennato in precedenza, l’introduzione dei giornalisti
embedded ha rappresentato la novità più significativa nella copertura
mediatica del secondo conflitto iracheno da parte dei media
occidentali. Un’interpretazione illuminante dei motivi che hanno
spinto Victoria Clarke, responsabile della comunicazione del
Dipartimento di Difesa statunitense, nonché ex dirigente della Hill &
Knowlton, una delle più stimate agenzie di pubbliche relazioni
specializzate nella creazione di eventi mediatici al servizio di governi
e di Stati in situazioni di crisi, nel mettere a punto la strategia di
comunicazione che contemplava i giornalisti “arruolati” al seguito
delle truppe, viene dalle parole di Steve Gorman, corrispondente della
Reuters da Los Angeles. Secondo Gorman, che scrive un mese prima
dello scoppio del conflitto,“ preoccupati che il pubblico rimanga
profondamente scettico riguardo l’entrata in guerra, gli ufficiali del
Pentagono hanno detto che è nel loro interesse fornire ai media
occidentali l’accesso alle zone di combattimento per contrastare il
potenziale di disinformazione che potrebbe venire da fonti di notizie
arabe”
10
.
In una guerra caratterizzata dalla debolezza e dall’estrema incertezza
del disegno politico che l’accompagna, “la conquista dei cuori e delle
menti” dei popoli coinvolti nel conflitto e dell’opinione pubblica del
pianeta, come più volte enfaticamente sottolineato dagli stessi membri
dell’amministrazione americana, rappresentava infatti il primo
obbiettivo strategico da raggiungere; in modo “da conquistare ex post-
scrive Fracassi-,con la forza travolgente delle immagini, il consenso e
la ragione che erano mancati alla vigilia”
11
Non stupisce, quindi, che all’interno di un conflitto programmato in
funzione della sua rappresentazione mediatica, e per questo
10
S. Gorman, Reuters, febbraio 2003, citato in R. Reale, op cit. p.51.
11
C.Fracassi., Bugie di guerra. L’informazione come arma strategica, Milano, Mursia, 2003, p.14.
10
caratterizzato da ingenti sforzi comunicativi, inediti in quanto a
dimensioni e durata dell’apparato propagandistico messo in campo, la
presenza delle Tv arabe sia stata definita dal presidente della
Commissione Federale per le Comunicazioni degli Stati Uniti, Reed
Hunt, come un vera e propria “forza geopolitica”
12
.
L’esplosione delle emittenti satellitari in lingua araba è stata l’altra
grande novità che ha caratterizzato la copertura mediatica del secondo
conflitto iracheno. Una novità non di poco conto, che con la rottura
del monopolio occidentale delle informazioni, ha messo in moto una
vera e propria rivoluzione nel sistema della comunicazione globale,
destinata a produrre conseguenze profonde nel mondo arabo, un’area
in cui la libertà d’informazione è sempre stata fortemente limitata o
addirittura assente.
Una delle cause principali del terremoto in atto nel sistema
informativo arabo, un contesto mediatico tradizionalmente
caratterizzato dal servilismo e dal conformismo, in cui la maggior
parte dei grandi media è controllata, direttamente o indirettamente, dai
poteri politici, è da imputare sicuramente allo strepitoso successo di Al
Jazeera, la tv satellitare in onda 24 ore su 24 che ha conquistato fama
planetaria con la spregiudicata messa in onda dei messaggi di Osama
Bin Laden dopo i tragici attentati dell’11 settembre 2001.
Nata nel 1996 a Doha, grazie ai finanziamenti dello sceicco Hamad
Khalifa al-Thani, l'emiro del Qatar, oggi può contare su un pubblico
di circa 45 milioni di abbonati distribuiti nei paesi del Medio Oriente e
nelle comunità arabe sparse ovunque nel mondo.
Nei giorni seguenti all’attacco angloamericano, Google e Lycos, i
maggiori motori di ricerca su Internet, affermatosi come mezzo di
comunicazione ormai maturo, pienamente funzionale alla febbrile
ricerca di informazione e di aggiornamento in una situazione di crisi
quale il contesto bellico iracheno, hanno registrato che Al Jazeera è
stato il termine più comune ricercato dai navigatori, tre volte più
frequente della parola “sesso”.
13
12
R. Hunt, “Television war vs. Television Peace”, Broadcasting & Cable, 14 aprile 2003
13
“al Jazeera Tops Net Search Requests”, Associated Press, 11 aprile 2003
11
Contemporaneamente il sito di Al Jazeera, dove erano disponibili le
immagini della guerra che i network americani avevano deciso di
censurare, è stato fatto oggetto di massicci attacchi da parte di alcuni
hacker, che hanno reso irraggiungibile per un lungo periodo sia la
versione araba che quella inglese.
L’approccio aggressivo orientato al sensazionalismo e alla ricerca
ossessiva dello scoop, che contraddistingue le nuove tv arabe, Al
Jazeera in testa, è stato spesso etichettato dai media occidentali come
fiancheggiatore dell’estremismo e del fondamentalismo islamico.
Il comportamento dell’emittente qatariota in particolare, ha scatenato
roventi polemiche da parte del governo americano. La Casa Bianca
ha stigmatizzato più volte l’antiamericanismo, a suo giudizio,
imperante nel network arabo, accusato di essere il megafono di Al
Qaeda, e ha più volte esercitato la sua pressione diplomatica nei
confronti dell’emiro del Qatar, affinché la riportasse a più miti
consigli.
PRIMA DI INIZIARE
Uno degli obbiettivi che questo lavoro si propone di raggiungere, è
quello di analizzare come i media occidentali hanno inquadrato il
terremoto in atto nel mondo dell’informazione araba; un cambiamento
che a parere di Roberto Reale, “provocherà conseguenze profonde
negli anni che seguiranno questa guerra”
14
. Come case study verrà
preso in considerazione il ruolo svolto da Al Jazeera, in virtù della sua
posizione di leadership e di fattore di rottura all’interno del mondo
dell’informazione araba.
Il primo capitolo affronta l’evoluzione della stampa da un punto di
vista storico. Verranno prese in considerazione le principali tappe che
hanno accompagnato lo sviluppo della carta stampata all’interno del
più ampio sistema dei mezzi di comunicazione di massa. Si partirà
14
R. Reale., op cit. p.86
12
dagli anni trenta del diciannovesimo secolo, con la nascita della Penny
Press , indicata da molti studiosi come la fase iniziale e costitutiva del
giornalismo moderno , per arrivare alla Babele della comunicazione
dei giorni nostri, in cui pochi grandi gruppi editoriali controllano la
maggior parte del flusso comunicativo globale. In questo nuovo
contesto mass-mediatico, caratterizzato dalla commistione di formati e
generi diversi , il giornalismo, citando le parole di Reeves, “sta
diventando una parte sempre più piccola di qualcosa sempre più
grande: la fornitura di ogni genere di informazioni e intrattenimento
ai consumatori paganti”
15
.
Nel secondo capitolo, verrà introdotto un tema purtroppo tristemente
attuale in questo scorcio di inizio secolo: l’informazione in tempo di
guerra. Recita un famoso detto: “la prima vittima della guerra è la
verità”. Sembra che la prima persona che abbia pronunciato questa
frase sia stato il Senatore americano Hiram Warren Johnson, in un
discorso tenuto al Senato nel 1917, alla vigilia dell’ingresso degli Stati
Uniti nella prima guerra mondiale.
Nel suo celebre studio sulla “Grande Guerra”, il politologo Harold
Lasswel
16
individuò alcuni temi ricorrenti nella propaganda di tutte le
nazioni belligeranti, incentrati sulla contrapposizione tra “amici” e
“nemici”, tra forze del bene e forze del male. All’interno di questo
sistema di classificazione il nemico assume le sembianze del male
assoluto da estirpare, diviene il responsabile di tutte le sofferenze e di
tutte le ingiustizie dell’umanità e per questo deve essere annientato.
Il racconto della guerra che oggi ci viene riproposto a quasi un secolo
di distanza, dimostra come questi temi siano presenti non solo nella
propaganda, ma nel contesto informativo in generale. Basta rileggere i
servizi giornalistici o i discorsi del presidente americano Bush sulla
seconda guerra del Golfo per ritrovarli tutti, insieme a un linguaggio
non troppo dissimile dalla retorica politica classica.
“Naturalmente la gente comune non vuole la guerra: né in Russia, né
in Inghilterra, né in Germania. Questo è comprensibile. Ma, dopotutto,
sono i governanti del paese che determinano la politica, ed è sempre
15
R. Reeves, What the people know, Cambridge (Mass), Haward University Press, 1998.
16
H.Lasswell, Propaganda Technique in the World War,Knopf, New York, 1927
13
facile trascinare con sé il popolo, sia che si tratti di una democrazia, o
di una dittatura fascista, o di un parlamento, o di una dittatura
comunista. Che abbia voce o no, il popolo può essere sempre portato
al volere dei capi. È facile. Tutto quello che dovete fare è dir loro che
sono attaccati, e denunciare i pacifisti per mancanza di patriottismo, in
quanto espongono il paese al pericolo. Funziona allo stesso modo in
tutti i paesi.”
17
A parlare in questo modo non è un cinico esperto di
pubbliche relazioni assunto dalla amministrazione Bush per
convincere l’opinione pubblica sulla necessità di intraprendere la
“guerra al terrorismo” contro “gli stati canaglia”. Si tratta di un
discorso pronunciato dal gerarca nazista Hermann Goering durante il
processo di Norimberga, ma la somiglianza con le argomentazioni
presentate in seguito agli attacchi dell’11 settembre da autorevoli
commentatori cosi come da molti membri del Governo Usa sono
imbarazzanti. Il 6 dicembre 2001, il procuratore generale John
Ashcroft, l’equivalente statunitense del nostro ministro della Giustizia,
in risposta alle polemiche sulle restrizioni delle libertà civili in seguito
all’approvazione del Patriot Act, in una deposizione davanti al
Congresso definì “i nostri oppositori” come “coloro che spaventano
gli amanti della pace con lo spettro della perdita di libertà; il mio
messaggio è questo: i vostri metodi aiutano soltanto i terroristi,
corrodono l’unità nazionale e indeboliscono la nostra risolutezza.
Offrono cartucce ai nostri nemici e scoraggiano gli amici
dell’America. In questo modo la gente di buona volontà viene
incoraggiata a restare in silenzio di fronte al Male”
18
.
“L’essenziale della dominazione politica- scrisse il sociologo francese
Patrick Champagne- consiste in meccanismi essenzialmente di ordine
simbolico, poiché l’azione politica più importante è nascosta e
consiste soprattutto nell’imposizione di sistemi di classificazione del
mondo sociale”
19
.
17
Dichiarazione del gerarca nazista Hermann Goering al processo di Norimberga
18
Deposizione del Procuratore generale John Ashcroft , Senate Committee on Judiciary, 6 dicembre 2001, citata in
S.Rampton., J. Stauber., op. cit. p.135.
19
P. Champagne, Faire l’opinion,Editions de Minuit, Paris, 1990, p.15
14
All’interno del corpo sociale, ai tempi di Goering come ai giorni
nostri, le situazioni di crisi permettono ai governi di creare, come
scrive Tonello, “una scala di lealtà che premia il patriota e il buon
cittadino, mentre punisce chi si dichiara neutrale e agisce con violenza
contro chi viene considerato, a torto o a ragione, un traditore.[..] Dalla
fine dell’Ottocento in poi, lo strumento con cui la verità patriottica è
stata fatta arrivare nei villaggi più remoti dei paesi in guerra sono stati
ovviamente i mass media”
20
.
“Mai come durante lo stato di guerra- scrive Isnenghi- v’è
scollamento tra la realtà e la sua riproduzione ideologica di massa.
Tutto nell’informazione di guerra congiura ad affidarle intenzioni e
scopi che prescindono dai fatti”
21
.
I mezzi di informazione, nonostante la loro funzione di cronaca, sono
stati spesso usati nella storia come strumenti di propaganda. In tempo
di guerra la distinzione tra notizia giornalistica e propaganda diventa
assai sottile. “La guerra- scrive ancora Tonello- consacra una tale
superiorità del campo politico su quello giornalistico che discutere
dell’autonomia di quest’ultimo non ha alcun senso. Quando il governo
chiama all’azione, i giornalisti rispondono più prontamente e con
maggiore entusiasmo delle reclute”
22
.
“I mass Media- scriveva nel 1991 Rossella Savarese a proposito della
prima guerra del Golfo- influenzano l’opinione pubblica perché non
sono considerati strumenti di propaganda anche se essi impiegano di
fatto codici non verbali per stabilire priorità qualitative e scale di
valori, come la misura dei titoli e la collocazione degli articoli,
elementi che non vengono percepiti come messaggi persuasori.[..] La
propaganda infatti non è altro che questo: prendere posizione a favore
o contro qualcosa attribuendo alla propria scelta valori positivi in
opposizione a quelli di un avversario vero o supposto. Il linguaggio
che essa impiega può essere terribilmente informativo”
23
.
20
F. Tonello, op. cit. p.226.
21
M. Isnenghi, Intellettuali militanti e intellettuali funzionari,Torino, Einaudi, 1979, p. 200
22
F. Tonello, op. cit. p.226.
23
R. Savarese, “Pagine armate”, in Galassia dell’informazione, n 6-7-8 giugno-agosto 1991, pp. 47-61.
15
Stabilire se queste riflessioni siano ancora valide a 13 anni di distanza,
nell’era di Internet e della comunicazione satellitare, sarà il compito
del terzo capitolo, che prende in considerazione la narrazione
mediatica dei due conflitti iracheni da parte dei media occidentali.
Cosa è cambiato e cosa è rimasto immutato nello scenario mediatico
rispetto all’operazione “Tempesta nel deserto”? .
Il quarto e ultimo capitolo, si occuperà infine del ruolo assunto dai
mezzi di informazione arabi e in particolare della rete satellitare Al
Jazeera nella rappresentazione mediatica di questa guerra. Verranno
analizzate le implicazioni, i fattori positivi e le eventuali
problematiche che a giudizio dei nostri commentatori, comporta la
diffusione di un punto di vista arabo autonomo e relativamente
omogeneo all’interno di un Mediascape non più interamente dominato
dal monopolio occidentale dell’informazione.
In una guerra in cui i nostri mezzi di informazione sono stati
sistematicamente inondati come non mai da un vero e proprio diluvio
di notizie false, frutto di un copione mediatico sapientemente
preparato da tempo a tavolino grazie a una massiccia campagna di
pubbliche relazioni magistralmente orchestrata al servizio dei governi
americano e britannico, con la cruda forza delle immagini, le emittenti
arabe hanno clamorosamente smentito le ottimistiche interpretazioni
della “guerra umanitaria e democratica” suggerite dai dipendenti del
Pentagono agli acritici mass media della “coalizione”. Come
sottolinea Roberto Reale, “questo tipo di testimonianza ha cambiato le
cose anche a casa nostra. Per la prima volta negli ultimi anni, le
cosiddette “bombe intelligenti”, gli “effetti collaterali”, sono
progressivamente usciti di scena. Se queste espressioni asettiche,
queste forme di ipocrisia sono state finalmente rimosse dal
vocabolario di molti commentatori, il merito è proprio dei tanti filmati
girati sul campo di battaglia”
24
.
Questa volta la CNN, il leader mondiale dell’informazione ai tempi
della prima guerra del Golfo, così come gli altri mezzi di informazione
e le agenzie di stampa di tutto il mondo hanno dovuto attingere dalle
24
R. Reale., op cit. p.84
16
informazioni provenienti da Al Jazeera e dagli altri network arabi che
con la loro documentazione filmata hanno mostrato per la prima volta
ai poco avvezzi spettatori occidentali il vero tragico volto della guerra.
17
CAPITOLO I
L’INDUSTRIA DELL’INFORMAZIONE
1.1 La penny press e il concetto moderno di notizia
New York, 8 settembre 1833. Benjamin Henry Day, un oscuro
giornalista di provincia, fonda The Sun , il primo quotidiano
americano in vendita a un penny.
Il sottotitolo del giornale recita It shines for all “splende per tutti”, e
come illustrato nell’editoriale di presentazione mira a “ presentare al
pubblico ad un prezzo accessibile a tutti, tutte le notizie del giorno e
allo stesso tempo offrirsi come mezzo vantaggioso per le inserzioni
pubblicitarie
1
”.Il successo è clamoroso: in pochi mesi raggiunge la
piu’ ampia diffusione mai registrata da qualsiasi giornale in città:
8000 copie in sei mesi, 15000 in due anni.
Sulla scia del Sun nascono altri due Penny Papers di New York,
l’Evening Transcript e, il 6 maggio 1835, il New York Herald di
James Gordon Bennet. Nel giugno del 1835 la diffusione complessiva
di questi tre giornali si attesta sulle 44000 copie; appena due anni
prima gli undici quotidiani cittadini vendevano in totale appena
26500 copie
2
. Fra il 1830 e il 1840, grazie anche all’incremento della
popolazione da 13 a 17 milioni di abitanti, le testate passarono da 65 a
138, per una diffusione complessiva che passò da 78000 a 300000
copie al giorno.
3
Nel mondo del giornalismo statunitense è in atto una vera e propria
rivoluzione che cambierà radicalmente il modo di concepire
l’informazione, inizia l’era della stampa di massa.
1
G. Gozzini,Storia del giornalismo, Bruno Mondatori, Milano, 2000, p.118
2
M.schudson, La scoperta della notizia.Storia sociale della stampa americana, Napoli,Liguori,1987., p. 28
3
A. Papuzzi, Professione giornalista, Roma, Donzelli,1998, p 7
18
Prima dell’avvento della penny press i giornali erano espressione di
gruppi politici e commerciali., si rivolgevano ad un pubblico molto
ristretto, prevalentemente personaggi politici e uomini d’affari.
Il quotidiano tipo era composto da quattro pagine, la prima e l’ultima
riservate esclusivamente alle inserzioni pubblicitarie.Nelle due pagine
interne solitamente trovavano spazio editoriali dedicati alla politica
interna e notizie relative al movimento merci delle navi in arrivo al
porto. Costava sei cent a copia, circa il 10% del salario medio di un
operaio, e veniva venduto in abbonamento postale.
Le tirature erano molto basse, anche i giornali più prestigiosi
superavano raramente le duemila copie.
I nuovi quotidiani da un penny, venduti dagli “strilloni” agli angoli
delle strade, mirano a conquistare una nuova categoria di lettori, i ceti
emergenti protagonisti del cambiamento sociale in atto nel paese, la
nascente classe media urbana simbolo della svolta Jacksoniana degli
anni trenta.
In questi anni, grazie all’introduzione del suffragio universale
maschile e della istruzione pubblica aperta a tutti , la stampa cessa di
essere un prodotto riservato esclusivamente alla ristretta cerchia delle
èlites sociali , estendendo il proprio raggio d’interesse a tutta la
popolazione.
Tra i cambiamenti che contraddistinguono il nuovo corso della penny
press rispetto ai giornali tradizionali, oltre alla drastica riduzione di
prezzo e al mutamento dei titoli delle testate, due in particolare
meritano di essere sottolineati. Il primo riguarda la trattazione della
pubblicità: da semplice servizio rivolto ai lettori, l’inserzione
pubblicitaria si estende a qualsiasi genere di prodotto, diventando una
delle maggiori fonti di guadagno dei quotidiani.Attorno agli annunci
cresce un enorme volume di affari: nel 1841 Voney Palmer, un
commerciante di carbone, fonda la prima agenzia pubblicitaria
statunitense e avvia la pratica di comprare in blocco gli spazi
pubblicitari per poi rivenderli agli inserzionisti, garantendo un introito
fisso ai giornali.Alla fine del decennio Palmer ha aperto filiali in molte
città degli States e può vantare l’esclusiva su più di mille periodici.
19