II
filosofico, Ibsen, Maeterlinck, Wagner e successivamente Beckett in quello teatrale,
Proust in letteratura, solo per citarne alcuni) che culminerà nella scoperta, scientifica
questa volta, che classificherà il tempo come una forza esclusivamente relativa: sono
questi i risultati a cui approdò la teoria della relatività di Einstein.
Lo spazio interviene nella analisi, prima portando il suo contributo alla tematica
tempo (lo spazio assorbe gli eventi accaduti sul suo suolo, per riemetterli in un
successivo momento) poi aprendo due nuove possibilità di analisi nel teatro
dannunziano.
La prima possibilità entra nello specifico teatrale, considerando lo spazio che si
materializza sulla scena; molta importanza è stata data alle potenzialità espressive del
colore, a cui è stato dedicato un intero capitolo nel quale, ad una analisi degli effetti e
delle impressioni contenuti in potenza nei colori che emergono dalle opere dannunziane,
si associano riferimenti all’importanza che l’uso coloristico aveva in tutto il teatro
europeo di quegli anni (Appia, Ricciardi, Fortuny…).
L’altra possibilità data dall’analisi dello spazio, introduce alla struttura latente a
cui si accennava all’inizio e che serpeggia lungo tutto lo scritto, a volte emergendo in
maniera decisa, altre rimanendo sotterranea. E’ quella struttura che giustifica il
sottotitolo di Melograno infernale e che instaura un legame tra il tipo di spazio naturale,
che determina l’ambientazione, ed i personaggi che sono ad esso fortissimamente legati.
I personaggi protagonisti e spesso anche vittoriosi rivelano un profondo legame
con l’elemento terra o con la natura, là dove è meno dominata dalla forza logica,
geometrizzante dell’uomo. I giardini, le abitazioni sono il luogo della vita contingente,
dove le persone conducono un’esistenza normale, ma i deserti sitibondi, la selva
fittissima, la pianura libera e fitta di vegetazione sregolata, sono interdette ai personaggi
III
legati al tempo storico, contrariamente sono i luoghi dove gli eroi e le eroine
dannunziane prendono la loro forza a contatto con la forza più istintiva ed irrazionale
della natura.
E’ questo il perché di un sottotitolo, Il melograno infernale, che, se non
illuminato nel suo senso rischiava di passare inosservato nascondendo insieme a se
stesso il percorso latente della tesi. Il melograno è il frutto che ricorda a Persefone la
necessità di ritornare nel sotterraneo e che ricorda che per raggiungere le radici del
“puramente umano” è necessario uscire, talvolta, dal blu della vita per entrare nel nero
della natura:
“Quando tu coglierai il colchico in fiore sul molle prato
terrestre, presso la madre dal cerulo peplo… verrà ne’ tuoi
occhi immortali un improvviso tedio, il tedio verrà della luce:
ti tremerà il cuore, Persefone, l’anima grande, memore del
suo sogno profondo, o Persefone, priva del suo profondo
regno.”
1
1
G. D’Annunzio, Il fuoco, 1900, Mondadori, Milano,1996, p. 13.
1
I. IL MELOGRANO INFERNALE
…non esiste altro soggetto, sappiatelo bene:
l’antagonismo nell’uomo del sogno e delle
fatalità…
Stéphane Mallarmé
I.1. Spazio e tempo nella Città morta
I.1.1. Premessa
I romanzi Le vergini delle rocce, pubblicato dall’editore Treves nel 1896, e Il
fuoco, edito invece nel 1900, ma la cui redazione occupa almeno un lustro alle soglie
del ‘900, possono essere utilizzati all’interno del corpo di opere dannunziane, come
strumenti per accostarsi da una parte alla fabula, dall’altra all’interpretazione della
tragedia La città morta (1896).
Questo primo approccio intende essere il più possibile vicino al pensiero critico
dell’autore, in quanto, come primo mezzo di analisi, utilizza la narrativa stessa di
D’Annunzio.
La trama della Città morta ha analogie di intreccio molto forti con un racconto
nel racconto inserito nelle Vergini delle Rocce. Il protagonista Claudio Cantelmo si
trova nel palazzo dei Capece Montaga, dove il vecchio principe gli narra la vicenda di
2
due fratelli, Umbelino e Pantea Montaga, vittime di un ignoto sortilegio che stringe il
fratello in una cieca passione carnale per la sorella, prima candidamente amata; la
tentazione dell’incesto diviene per Umbelino talmente forte da spingerlo ad una estrema
decisione: uccidere Pantea al fine di disgiungere definitivamente il corpo di lei,
profanato dal pensiero impuro, dalla sua anima ancora immacolata. Una sera d’estate
mentre entrambi erano presso la fontana del giardino per rinfrescarsi, Umbelino piega la
sorella tra le acque e la affoga.
Compaiono dunque in questo racconto, non solo le linee dell’intreccio della
Città morta, ma anche uno degli elementi che diventerà protagonista nella tragedia:
l’acqua, intesa nel racconto solo nella sua valenza negativa di luogo di morte.
L’espandere questo nucleo di eventi, facendone il soggetto di un altro genere
letterario, la tragedia, ha permesso a D’Annunzio di nobilitarne la materia; infatti se nel
romanzo la vicenda era collocata in una dimensione storica ben precisa che la rendeva
una storia definitivamente chiusa nel limite temporale del suo svolgimento, destinata ad
eludere questo limite solo per il suo carattere aneddotico che poteva interessare i
lettori, nella tragedia, come sottolinea Barberi Squarotti, “la vicenda diventa un
esempio assoluto di passione e di purezza, e si carica altresì di tutte le possibili allusioni
al mito greco, […] alle funzioni rituali dell’acqua, della fonte, in opposizione all’arsura
dell’estate argolica[…]. La scelta del genere tragico, consente anzitutto la liberazione
dai condizionamenti di logicità, di continuità, di verosimiglianza, che ineriscono al
genere narrativo, mentre, al tempo stesso, la tragedia, per propria natura, attinge
l’assoluta esemplarità, sciolta da ogni legge di tempi e di luoghi.”
1
1
G. Barberi Squarotti, “Il drammaturgo”, in D’Annunzio a cinquant’anni dalla morte, Atti dell’ XI
Convegno internazionale di studi dannunziani, Pescara, 1989, vol. I, p.60.
3
Le intenzioni che stanno alla base della concezione della Città morta,
D’Annunzio le ha affidate al romanzo Il fuoco e alle parole del suo protagonista: Stelio
Effrena. Come premessa per le successive considerazioni, bisogna, subito ad apertura di
libro, soffermarsi sulla dedica “AL TEMPO E ALLA SPERANZA”
2
e sulle citazioni
riportate al di sotto: la prima appartiene ad Eraclito D’Efeso il cui pensiero percorre il
romanzo e, come vedremo, anche la tragedia, soprattutto per quanto riguarda il concetto
di fuoco e di eterno divenire, la seconda ad Eschilo D’Eleusi, il tragediografo, anch’esso
presocratico, la cui opera Agamennone, intesserà, insieme all’Antigone di Sofocle, il
contrappunto della Città morta. Già, dunque, dalla pagina dedicatoria, vengono
introdotti i termini della questione: il concetto di tempo, un richiamo analogico al fuoco,
elemento primordiale e origine di tutte le cose, la tragedia, attraverso il nome di uno dei
suoi massimi autori.
Nell’ ”Epifania del Fuoco”, parte prima del romanzo, i riferimenti alla tragedia
ruotano intorno alla dimensione spaziale e al suo prolungarsi fino a fondersi-
confondersi con gli elementi primordiali: fuoco, acqua:
Vide all’improvviso, con l’intensità delle visioni febrili, la terra arsa e fatale
dove egli voleva far vivere le anime della sua tragedia; ne sentì tutta la sete in sé. Vide
la fonte mitica che sola interrompeva l’arsura, e sul palpito delle polle il candore della
vergine che quivi doveva morire. […] Poi l’antica arsura del piano d’Argo si convertì
in fiamme; […] Il fuoco e l’acqua, i due elementi primordiali, passarono su tutte le
cose, cancellarono ogni segno, […] favellarono, ebbero un verbo, ebbero un
linguaggio […] per raccontare i miti innumerevoli ch’erano nati dalla loro eternità.
3
2
G. D’Annunzio, Il fuoco, 1900, Mondadori, Milano,1996.
3
G. D’Annunzio, Il fuoco cit., pp.101-102.
4
Anche se un discorso più esauriente sullo spazio verrà affrontato nel successivo
paragrafo, questo brano offre spunti per qualche considerazione che può essere
anticipata a questo punto. Innanzitutto il continuo riferimento al verbo vedere,
attribuisce al luogo dove sarà ambientata la tragedia, non solo il carattere di visione (la
visione a differenza della vista implica un potere che trascende quello umano, implica
un’entità divina), ma anche un’importanza che lo eleva al di là di semplice cornice della
vicenda. “La terra arsa e fatale” non sarà ambientazione, ma protagonista, come
vedremo, degli eventi. In questo spazio, D’Annunzio inserirà non dei personaggi, ma
delle anime; come “Anime elementari”(p.102), saranno poco dopo definite il fuoco e
l’acqua, anche perché “il Carro di Tespi, come la Barca d’Acheronte, è così lieve da non
poter sopportare se non il peso delle ombre o delle immagini umane.” (p.166) Giovanni
Getto in proposito scrive “[…] i personaggi risentono di quella crisi a cui sembrano
partecipare tutti i personaggi dello scrittore. Essi possono ben giustificare
quell’impressione di un ‘museo Grévin di tediosi fantasmi’ che lasciano in chi se li vede
davanti all’improvviso, nell’uscire dalla folla animata delle creature vive di Manzoni e
di Verga”
4
.
L’ultima frase, quella dove Stelio attribuisce al fuoco e all’acqua la parola “per
raccontare i miti innumerevoli ch’eran nati dalla loro eternità” costituisce un leitmotiv
che si ritrova almeno un’altra volta nel romanzo
5
, e sembra voler aumentare il
potenziale di eternità del mito attribuendone l’origine non all’uomo, entità transitoria,
ma a quegli elementi che dai Presocratici erano ritenuti come l’origine di tutto.
<<Col tempo>>; così si apre “L’impero del silenzio”, il secondo capitolo del
Fuoco, quello che introduce due nuove chiavi interpretative per la lettura della Città
4
Giovanni Getto, “La città morta”, in Lettere italiane, n°1, 1972, p.48.
5
La frase si ritrova a p.146 del Il fuoco, ed. cit.
5
morta: la scomparsa dell’errore del tempo e l’unità della vita. Nella mente di Stelio le
parole dette dai protagonisti della tragedia si frammistano alle immagini dell’Argolide e
a quelle di Cassandra, Antigone,
L’errore del tempo era scomparso; le lontananze dei secoli erano abolite.
L’antica anima tragica era presente nell’anima novella. Con la parola e con la musica
il poeta ricomponeva l’unità della vita ideale.(p.152)
E della presenza nei personaggi di forze antiche che trascendono il loro presente
contingente, D’Annunzio parla ancora qualche pagina più avanti:
E per mezzo della musica, della danza e del canto lirico creo intorno ai miei
eroi un’atmosfera ideale in cui vibra tutta la vita della Natura così che in ogni loro
atto sembrino convergere non soltanto le potenze dei loro destini prefissi ma pur
anche le più oscure volontà delle cose circostanti, delle anime elementari che vivono
nel gran cerchio tragico [sott. mia];
perché vorrei che, come le creature di Eschilo portano in loro qualcosa dei miti
naturali ond’escirono, le mie creature fossero sentite palpitare nel torrente delle
forze selvagge, dolorare al contatto della terra, accomunarsi con l’aria, con l’acqua,
col fuoco…nella lotta patetica contro il Fato che deve esser vinto [sott. mia], e la
Natura fosse intorno a loro quale fu veduta dagli antichissimi padri: l’attrice
appassionata di un eterno dramma. (p.167)
Brano che sembra condensare tutti i concetti precedenti: l’importanza data allo
spazio come prolungamento dei protagonisti, il dissolvimento del personaggio che
diviene una creatura sottoposta a poteri enormi che annullano la volontà, il legame con
6
l’acqua, con il fuoco; ma che va letta anche in rapporto all’affermazione sulla
scomparsa dell’errore del tempo. La realtà dei personaggi non è più da ricercarsi negli
eventi della loro vita quotidiana o nella loro evoluzione psichica, come nel dramma
borghese, ma essi sono divenuti come ricettacoli di forze eterne ( i destini prefissi, le
volontà delle cose circostanti, le anime elementari) che li proiettano in una dimensione
atemporale. Nella Città morta queste forze risalgono al presente contingente da un
remoto passato, quello della maledizione degli Atridi.
Anche la comunione dei personaggi con la Natura, rendendoli simili a questa, è
un modo per destoricizzarli, e la Città morta non è l’unica opera teatrale di D’Annunzio
a utilizzare questo espediente. Giovanni Getto ha notato come l’autore “nel comporre il
Sogno di un mattino di primavera, trovasse il suo momento di più fresca fantasia nella
trasfigurazione della protagonista in una creatura arborea”
6
e rileva come originale
l’intuizione “della persona umana, dei legami che oscuramente la prolungano nella vita
della natura”
7
.
Pur accerchiati da queste forze che sembrano impermeabili al volere umano, i
protagonisti possiedono ancora, secondo le parole di Stelio-D’Annunzio, il potere di
lottare contro il fato e di distruggerlo. I riferimenti a questa sconfitta si susseguono in
tutta la seconda parte del romanzo: “…l’Atto puro che il fine della tragedia nuova…
L’Atto puro [l’assassinio di Bianca Maria] segna la sconfitta dell’antico destino.
L’anima nuova rompe a un tratto il cerchio di ferro ond’è stretta…(p.171),e poche righe
dopo “Il Fato mostruoso è vinto, là, presso i sepolcri ove discese la stirpe di Atreo,
innanzi ai cadaveri stessi delle vittime (p.172), e oltre “… l’esploratore di sepolcri
[Leonardo] prese l’aspetto di un alto Eroe combattente contro l’antico Fato risorto dalle
6
Giovanni Getto, “La città morta” cit., p.49
7
G. Getto, ibidem.
7
ceneri stesse degli Atridi per contaminarlo e sopraffarlo.”(p.173) E altri esempi sono
nelle pagine seguenti.
L’importanza attribuita da D’Annunzio alla sconfitta del destino, è sottolineata
da due fatti: il primo è che l’autore ne fa il fine della tragedia nuova, il secondo è che
nel Fuoco il titolo della tragedia non è la Città morta, ma La vittoria dell’uomo
8
.
Tirando le fila di questo discorso (in questo breve paragrafo necessariamente
panoramico), D’Annunzio nell’ ”Epifania del fuoco” introduce lo spazio nel quale sarà
ambientata la tragedia e lo grava di riferimenti simbolici che ne fanno un luogo al di
fuori della realtà esistente, e di una temporalità specifica. Nell’ “Impero del silenzio”
entra in scena il tempo, privato, nei protagonisti, della sua dimensione di presente, di
contingenza, riempito da un’emersione di eventi eterni provenienti da un remotissimo
passato. E tra queste due dimensioni D’Annunzio insinua l’uomo e a lui affida il
compito della sconfitta dello spazio e del tempo
9
per mezzo della sconfitta dell’antico
destino.
La questione si dovrebbe chiarire nei prossimi paragrafi.
8
Cfr. Il fuoco cit., p.318.
9
Il tentativo di trascendere l’eterno divenire delle cose attraverso una volontà che riuscisse ad influire sul
passato è l’oggetto dell’Eterno Ritorno. Cfr. F. Nietzsche, “La visione e l’enigma” in Così parlo
Zarathustra, Mondadori, Milano,1992, n. ed. 1994.
8
I. 1. 2. Lo spazio
L’importanza data al concetto di spazio è, nel teatro degli ultimi decenni
dell’Ottocento, enorme, ma il modo di intenderlo è per ogni movimento culturale,
alquanto divergente.
Sembra di riuscire a cogliere un’evoluzione del concetto di spazio scenico che
da luogo neutro, nella pièce bien faite, dove la vicenda concentrava su di sé tutta
l’attenzione togliendola all’ambientazione, che poteva essere la più varia, diviene luogo
sempre più carico di valenze.
10
Nel teatro naturalista la scena deve riuscire a trasmettere allo spettatore
l’illusione di assistere ad una sequenza di vita quotidiana
11
; per rendere attuabile questa
immedesimazione il palcoscenico riproduce un ambiente chiuso, un salotto borghese
12
,
il quale offre possibilità di verosimiglianza maggiori rispetto ad un ambiente aperto; in
questo spazio una grande quantità di dettagli, ricavati dalla quotidianità, sono funzionali
alla vicenda, interagiscono con lei, per fornire una serie di informazioni sulla situazione
10
“Lo spazio chiuso dei drammi naturalisti è tuttavia diverso da quello, morfologicamente analogo, della
pièce bien faite e del dramma sintattico. In quel caso il luogo era un puro contenitore, sostanzialmente
neutro, quasi astratto nella sua dimensione di terreno di gioco per il rincorrersi delle situazioni; nel
dramma naturalista invece, lo spazio è fondamentale e assolutamente non neutro, perché è deputato a
fornire molte delle connotazioni sociali, storiche, geografiche e anche psicologiche della pièce.” Luigi
Allegri, La drammaturgia da Diderot a Beckett, Laterza, Roma-Bari, 1993, p. 77.
11
“In generale, il Naturalismo parte dal presupposto teorico che è necessario assottigliare il più possibile
– fino, tendenzialmente, a farlo sparire – il diaframma tra rappresentazione della realtà e realtà,
elaborando strumenti linguistici in grado di rimuovere prima di tutto ogni artificialità.” Ivi, p. 68.
12
“E’ col teatro naturalista, infatti, che si porta a compimento l’evoluzione della scena come spazio
mimetico, perfettamente sovrapponibile allo spazio rappresentato: dunque uno spazio chiuso, come
chiuso e perimetrato è il salotto borghese o comunque la stanza che fornisce per grandissima parte il
quadro d’azione di questa drammaturgia.” Ivi, p. 76 – 77.
9
sociale e anche psicologica dei protagonisti. Lo spazio cessa dunque di essere neutro,
ma coopera a rendere chiari e distinti i messaggi dell’opera.
13
Lo spazio sembra invece saltare nella concezione drammaturgica dei simbolisti
che rifiutano la scena come mimesi della realtà, e svuotandola di tutti quei dettagli
prosaici, ne vogliono fare il luogo del sogno. Svuotare il palcoscenico non ha come
conseguenza l’annullamento dello spazio teatrale; un nuovo mezzo intende ricrearlo, ma
in un modo totalmente diverso: la parola poetica.
14
Coerentemente con la volontà di creare un teatro del sogno, della visione, lo
spazio resta ad un livello anteriore alla materializzazione, è definito nei minimi
particolari, suggestivo, importantissimo, ma è tutto evocato nella parola
15
, solo
l’immaginazione dello spettatore potrà farlo sorgere.
16
Francesco Erspamer ha colto come anche in D’Annunzio (la sua analisi verte
sulla Città morta) lo spazio sembri fatto più per essere raccontato
17
che rappresentato e
avvertendo il regista e lo scenografo dice “…rinunciare all’apporto della fantasia dello
13
“ In Antoine il luogo scenico è l’ambiente dei personaggi, ha – come diceva Zola – la funzione delle
descrizioni nei romanzi, è un presupposto condizionante i personaggi e le loro azioni: e perciò deve essere
‘vero’, composto di dettagli autentici, con esattezza fotografica (non più storica, ma sociale) la falsità
della scena sarebbe falsità dei personaggi: si potrebbe dire che ora la realtà della scena è più in funzione
dei personaggi che degli spettatori.” Fabrizio Cruciani, Lo spazio del teatro, Laterza, Roma-Bari, 1992,
pp. 113 – 114.
14
“[…] il bersaglio primario non è tanto la letteratura drammatica del Naturalismo […] quanto la
condizione degradata, perché assolutamente povera di poesia e di mistero, cui la poetica naturalista ha
costretto la scena. […] Rifiuto del teatro – spettacolo a favore del teatro – scrittura, dunque, ; ma anche,
contemporaneamente, tensione verso la scena come luogo privilegiato di un assoluto possibile. La stessa
scrittura poetica dei simbolisti è del resto sempre uno spazio teatrale, luogo della visione […].” L. Allegri,
La drammaturgia da Diderot a Beckett, cit., p. 87.
15
Ne Il fuoco Stelio accusa Wagner di aver privato la parola di tutto il suo originario valore. Come ha
notato R. Tessari la resurrezione del Tragico mette tutta la sua speranza nelle potenzialità espressive della
parola. Cfr. R. Tessari, “Crudités archéologiques e spezie saporose.” In Gabriele D’Annunzio grandezza e
delirio nell’industria dello spettacolo, atti del convegno internazionale, Torino, 1988, Costa & Nolan,
Genova, 1989.
16
Per l’evoluzione del teatro di fine Ottocento cfr. L. Allegri, La drammaturgia da Diderot a Beckett cit.
17
In una lettera del 1891 P. Quillard scrive: “ La parola crea la scena e tutto il resto. […] Se parlo di un
‘palazzo meraviglioso’, supponiamo pure che per mezzo di complicati artifici più o meno bene si
rappresenti quanto di più magnifico la mente di uno scenografo può concepire, per nessuno l’effetto
prodotto dall’artificio sarà l’equivalente di ‘un palazzo meraviglioso’ nell’anima di ognuno le due parole
evocheranno un’immagine particolare e conosciuta, certo in contrasto con la grossolana rappresentazione
10
spettatore non è soltanto difficile, o impossibile; è addirittura sbagliato. In D’Annunzio
lo ‘spazio virtuale’ sopraffà lo ‘spazio in atto’ (i termini sono di Michel Corvin):
dunque il regista e lo scenografo non dovrebbero imporre al pubblico un paesaggio che
l’autore… ha voluto indeterminato,…molte delle battute [della Città morta]
apparirebbero ridondanti e inutili se il loro referente fosse ben evidente anche agli
spettatori”
18
.
Scorrendo la Città morta
19
ci si accorge infatti che la descrizione dei luoghi della
vicenda non è affidato solo alle didascalie, ma che i dialoghi tra i personaggi sono pieni
di riferimenti allo spazio; quello intorno a loro:
Bianca Maria: [descrive ad Anna ciò che vede guardando dalla loggia]… Il
lavoro ferve, nell’Agora. Ieri furono trovate cinque stele funerarie, indizii sicuri. Un
gran nuvolo di polvere si leva dal recinto. E’ una polvere rossastra; sembra che arda,
nel sole […]. Certo, Leonardo è la carponi, a frugare con le sue proprie
mani…(p.109)
E poco più avanti quando Leonardo trova le tombe degli Atridi:
Bianca Maria: ([...] guarda verso l’Agora, nel gran sole.) Sono saliti su la
muraglia…due, tre, quattro uomini su la muraglia… Gridano, gridano di gioia,
gridano verso di me, agitano le braccia… Guardate! Guardate![…] Leonardo! Vedo
Leonardo!… E’ là, è là… Lo vedo…[…](p.122)
scenica.” P. Quillard, “Dell’inutilità assoluta della messa in scena esatta”, in La melagrana spaccata, a
cura di Silvia Carandini Valerio Levi Editore, Roma, 1988, p. 75.
18
F. Erspamer, “La parola a teatro. Ritorno alla Città morta”, in La rivista di letteratura italiana III,
1985, pp. 90-91
11
Dove le continue ripetizioni, reiterando nella mente dello spettatore l’immagine,
lo convincono dell’effettivo svolgersi della scena, più che se fosse rappresentata. Altri
riferimenti sono allo spazio che rivedono nella propria memoria; significativi a questo
proposito sono i ricordi di Bianca Maria della vita in Sicilia:
Bianca Maria: […] A Siracusa camminavamo nei boschi d’aranci, vedendo fra i
tronchi splendere il mare: gli alberi avevano sui rami gli antichi frutti e i nuovi fiori; i
petali ci cadevano sul capo come una neve odorante; e noi mordevamo la polpa
succulenta come si morde il pane. (p.109)
Si può notare in questo passo e anche nel successivo attribuito ad Alessandro,
come gli spazi del ricordo si oppongano violentemente, per ricchezza di vegetazione,
colori, serenità quasi pastorale, alla desolazione della pianura di Argo. Alessandro e
Bianca Maria sono profondamente estranei a questa sterilità
20
, i loro pensieri evadono
sempre verso luoghi più umani, più verdi, dove la natura sembra offrire qualche
consolazione, e se il ricordo cade su momenti vissuti a Micene subito tutto si vela di
“un’apparenza funebre” di “un presentimento angoscioso”(p. 99)
Si noti la liricità di questo scambio di ricordi tra Alessandro e Bianca Maria:
Alessandro: […] Io navigava, per la prima volta, dalla Puglia verso le acque
della Grecia. Fu nel Golfo di Corinto, nella baia di Salona, all’ancoraggio di Itèa dove
io doveva approdare per salire a Delfo.
[…]
19
G. D’Annunzio, La città morta, in Tragedie, sogni e misteri, vol.I, Mondadori, Milano, 1968.
20
Per l’estraneità di Alessandro e Bianca Maria alla desolazione del luogo cfr. G. Getto, “La città morta”
cit., pp.81, 83, 93.
12
Bianca Maria: (come in sogno): Sàlona! Mi ricordo: una baia azzurra, tutta a
piccoli seni segreti come fondi di conchiglie, rosei come conchiglie, verso sera… Per
le montagne cavernose, tra i macigni, in qualche lembo di terriccio rosso,
ondeggiavano poche spighe magre, miste a cespugli di erbe aromatiche […]
Alessandro: Fu là, fu là. M’ero addormentato sul ponte, con la faccia rivolta
alle stelle, nella notte d’agosto. (pp. 140 - 141)
Questa non appartenenza allo spazio di Alessandro e Bianca Maria insinua in
essi un continuo desiderio di fuga; una fuga nella quale vorrebbero condurre anche gli
altri protagonisti, i quali sembrano però non poterli seguire per una intima analogia tra
loro e la terra sterile, morta.
Dice Alessandro all’amico Leonardo, vedendo l’angoscia che lo domina senza
tregua:
Alessandro: Perché non volesti ascoltarmi? Quando tu mi chiamasti, quando
io venni qui, già tu eri preso dalla cattiva febbre. Io presentii il pericolo…E volevo
stapparti all’idea fissa, volevo condurti altrove, interrompere l’atroce lavoro. Non ti
ricordi? Avremmo passata la primavera a Zacinto, sul mare, poco lontano… Ma la
tua ostinazione fu invincibile: la malìa t’aveva preso… Ora però bisogna partire senza
indugio, bisogna andare verso le acque, verso i boschi, verso le terre verdi…Bisogna
che tu ti lasci abbracciare da una bella terra verde, che tu dorma i tuoi sonni
affondato nell’erba [il corsivo è mio] […]. (p.164)
21
21
Sulla volontà di Alessandro di strappare Leonardo da Micene, si segnala questo passo della Città
Morta, cit., p. 120: “Alessandro[…] Io speravo ch’egli volesse venir meco: avrebbe ascoltato il canto
delle allodole e raccolto qualche fiore con quelle sue dita che non conoscono se non le pietre e la polvere
da troppo tempo. Ah, da troppo tempo egli si curva su la terra dura e grigia! Affascinato dai sepolcri egli
ha dimenticato la bellezza del cielo. Bisogna ch’io lo strappi finalmente al maleficio.”