5
moltissimi e le correlazioni altrettanto evidenti: si comincia analizzando le
pressioni fortemente asimmetriche imposte dai parametri di Maastricht per poi
passare all’analisi sugli shock asimmetrici; si evidenzia l’incompatibilità insita
nelle tre principali caratteristiche dell’UME (che poi è il tema affrontato dalla
letteratura sulla cosiddetta “Unholy Trinity”) per approfondire il ruolo asimmetrico
della politica monetaria della Banca Centrale Europea; si analizzano i nuovi
meccanismi di trasmissione della politica monetaria rilevando come, più in
generale, tutto il modello classico Mundell-Fleming risulti alterato in presenza di
un’unione monetaria come quella europea.
Dopo aver affrontato tali problematiche, nel terzo capitolo si passa alla
rassegna di una serie di proposte per la convergenza futura e lo smoothing degli
effetti di spillover della politica monetaria e fiscale. Il risultato è che mentre il
mercato del lavoro europeo risulta notevolmente rigido a causa di diversità
troppo cristallizzate tra i diversi paesi membri, il welfare può ancora rivestire un
ruolo chiave nel tentativo di fluidificazione dei flussi della forza lavoro, mentre la
definizione del futuro assetto di politica fiscale dell’Unione può rivelarsi
altrettanto importante nella valutazione degli equilibri tra BCE e Stati membri e
nel proiettare un’immagine europea di equilibrio e armonia. Lo strumento fiscale,
d’altra parte, pur se compromesso da troppe previsioni limitative (l’EDP ad
esempio o il Patto di Stabilità e Crescita), resta uno dei pochi strumenti che i
singoli Stati membri potranno utilizzare per assorbire gli effetti di shock
asimmetrici o negative spillovers, oltre a manovre strategiche di lungo periodo
come l’approccio francese della competitive disinflation che però risulta uno
strumento adottabile solo in concomitanza con altre politiche di effetto a più
breve termine.
6
Nell’ultimo capitolo, si affronta il problema della globalizzazione dei
mercati (soprattutto quelli finanziari) concludendo che l’Unione non può
trascurare i processi di propagazione degli shock finanziari attraverso il sistema
bancario internazionale e, a riguardo, deve dotarsi di adeguati strumenti di
hedging dei rischi di cambio attraverso la definizione di un regime adatto nei
confronti di dollaro e yen, risultando altrimenti minacciata più che da tutti i fattori
endogeni analizzati, proprio dall’andamento economico dei suoi maggiori
partners internazionali.
Le conclusioni, infine, riportano i risultati raggiunti evidenziando in
particolare come la competitività dei processi e dei risultati macroeconomici
possa rivelarsi uno strumento dalle elevate potenzialità nella gestione del
progetto di allargamento dell’UME all’Est europeo e del collocamento dell’Unione
a fianco dei maggiori partners internazionali.
7
CAPITOLO 1
PROBLEMI E OBIETTIVI NELLA COSTRUZIONE
DELL’UNIONE MONETARIA EUROPEA
1.1 Analisi costi-benefici del modello di Maastricht
Il progetto di creazione di un’Unione monetaria tra i paesi europei risale
al Piano Werner1 (1970) che introduceva per la prima volta una visione politico-
economica comune: le monete dei singoli paesi dovevano essere rimpiazzate da
una unica moneta comunitaria; oltre alla completa liberalizzazione dei movimenti
di capitali e alla fissazione delle rispettive parità, si prevedeva la creazione di un
sistema di banche centrali dotato di sovranità monetaria, nonché la creazione di
un centro decisionale che, di fronte al Parlamento europeo, sarebbe stato
responsabile del coordinamento delle politiche economiche. Successivamente
furono proposti anche altri modelli (il Piano Mac Dougall ad esempio) che, nel
perseguire gli stessi obiettivi di integrazione monetaria, riconoscevano però ai
singoli governi maggiori disponibilità finanziarie e la garanzia di un più forte
coordinamento delle politiche economiche, specie in materia di bilancio.
Nel 1979 venne istituito l’EMS, il Sistema Monetario Europeo, che
mostrava a sua volta obiettivi molto ambiziosi come il raggiungimento di una
maggiore stabilità monetaria, il ritorno al pieno impiego e la riduzione delle
differenze regionali quale contributo alla risoluzione dei problemi di instabilità
all’interno della Comunità. Ma la debolezza dei meccanismi di coordinamento
8
monetario e finanziario provocarono lo sfaldamento del sistema nel settembre del
1992, a seguito anche della crisi finanziaria di quegli anni.
In concomitanza con l’EMS, nel 1986 venne firmato l’Atto Unico europeo
che avviò un programma teso al completo coordinamento del mercato europeo
per i beni, i servizi, i capitali e il lavoro.
La ripresa del processo di integrazione comunitaria dovuto all’Atto Unico
avvenne attraverso la costituzione, nel 1989, del Rapporto Delors che prospetta
ulteriori progressi verso l’UME e, soprattutto, la creazione un organo
sovranazionale, l’ESCB, l’European System of Central Banks, anche detto
Eurofed, al quale sarebbe demandato il compito di gestire la politica monetaria.
Inoltre, nel Rapposrto Delors si stabiliva il blocco dei tassi di cambio e
l’assunzione da parte dell’ESCB di tutte le responsabilità relative alll’avvio di una
fase di preparazione tecnica per l’avvento della moneta unica.
Nel dicembre del 19902, a Maastricht, i paesi europei aderirono
all’Unione Monetaria, ossia al coordinamento della politica monetaria a livello
comunitario, alla creazione di una futura Banca Centrale Europea e all’adozione
dell’Ecu (European Currency Unit) come moneta unica. Il risultato finale di
Maastricht sarebbe stato raggiunto attraverso una serie di tappe: un percorso di
tre fasi per il raggiungimento della convergenza, relativamente a cinque
parametri fondamentali ai quali si sarebbero dovuti allineare nel tempo i paesi
europei per poter accedere alla terza ed ultima fase del programma . I criteri di
Maastricht prevedono3 :
1) Un disavanzo pubblico non superiore al 3% del Pil.
2) Un indebitamento pubblico non più grande del 60% del Pil
3) Un saggio di aumento dei prezzi che non superi dell’1,5% il tasso medio fra i
paesi che hanno raggiunto il maggior controllo dell’inflazione.
9
4) Tassi d’interesse nominali a lungo termine che non superino di 2 punti
percentuali quelli medi prevalenti nei paesi che hanno ottenuto i migliori
risultati in termini di controllo dell’inflazione.
5) Il rispetto degli accordi di cambio dello SME per almeno due anni.
La prima fase del Trattato di Maastricht4 comincia appunto nel Luglio del
1990 e, sulla base dei suggerimenti del Rapposrto Delors, prevede la piena
liberalizzazione dei movimenti di capitali da realizzarsi entro il 1993, data di
chiusura del primo blocco di riforme tese al raggiungimento di un’Europa unita. Si
sanciva anche la riduzione dei tassi d’inflazione e d’interesse internazionali e
l’aumento della stabilità dei tassi di cambio infraeuropei; i governi dei singoli
paesi membri dovevano, inoltre, cominciare ad adeguare la loro legislazione ad
una visione più indipendente delle rispettive banche centrali. Tuttavia la
convergenza in tema di inflazione e tassi di cambio fece scarsi progressi e,
soprattutto, non vennero eliminate le cause alla base di tale andamento.
La seconda fase di Maastricht, iniziata nel Gennaio del 1994, ha dato
avvio alle operazioni preliminari per l’operatività della Banca Centrale Europea e
del SEBC, il Sistema Europeo delle Banche Centrali, ed ha creato l’IME, l’Istituto
Monetario Europeo, con lo scopo di rafforzare il coordinamento delle politiche
economiche e monetarie.
L’ultima fase, comincia il primo Gennaio 1999 ed ha affidato alla Banca
Centrale Europea, che ha preso il posto dell’IME, una gestione completamente
autonoma della politica monetaria, mentre il Consiglio Europeo si è affrettato a
fissare i tassi di conversione delle diverse valute dei paesi membri e i relativi tassi
di cambio con l’euro, facendosi anche autore del controllo dei criteri di
convergenza per l’ingresso dei paesi europei alla terza fase dell’unione. Rispetto
ai suoi predecessori, il Trattato di Maastricht pone maggior enfasi all’esigenza di
10
una politica convergente e della stabilità dei prezzi, soprattutto nella fase di
transizione verso la moneta unica, ma pone minor attenzione al controllo
centralizzato delle funzioni fiscali una volta raggiunta l’unificazione.
Dire se la creazione di un’area valutaria possa effettivamente portare
verso un maggior saggio di crescita i paesi dell’unione non è cosa semplice e
richiede che l’analisi sia condotta da più punti di vista essendo le variabili in gioco
veramente tante. Si sono così venute a formare due “correnti di pensiero”, gli
“euroscettici” e gli “euroentusiasti”5 : alla base di queste posizioni vi è un’analisi
approfondita sui vantaggi e gli svantaggi dell’adesione all’Unione Monetaria
Europea. Si tratta, in definitiva, di un’analisi Costi-Benefici dove, tra i potenziali
benefici vi è:
- l’eliminazione dei flussi di capitali per fini speculativi, grazie a tassi di
cambio irrevocabilmente fissati.
- Il risparmio delle riserve ufficiali di ciascun paese anche se in realtà questo
potrà avvenire solo quando tale irrevocabilità diverrà completamente
credibile, mentre all’inizio può comunque essere necessario tenere un certo
ammontare di riserve infraunione.
- La sollecitazione di un’integrazione delle politiche economiche, e non solo
monetarie, al fine di eliminare i problemi di free-riding.
- Il raggiungimento da parte di ogni paese dell’Unione di un peso
politico di maggior eco nel dibattito internazionale.
Altri autori aggiungono che6 il risparmio dei costi di conversione che,
secondo stime precise, ammontano allo 0,4% del PIL della Comunità Europea
nel suo complesso e che si rifletterebbero sul livello del commercio
internazionale; l’incoraggiamento degli investimenti tra i paesi della Comunità
Europea, non essendo più gli stessi frenati dall’incertezza sui tassi di cambio.
11
Analizzando la situazione di ogni singolo stato membro, poi, si può notare che
l’aumento di credibilità che si otterrebbe sui mercati internazionali porterebbe ad
una riduzione dei tassi d’interesse e del premio di rischio sui titoli del debito
pubblico. Inoltre, il contenimento del tasso d’inflazione si aggiungerebbe alla
diminuzione dei tassi d’interesse e agirebbe come secondo ingrediente
determinante per consentire la ripresa economica e assicurare la riduzione del
debito pubblico. Tra coloro che hanno evidenziato gli aspetti politici dell’accordo
di Maastricht, c’è chi sostiene7 che la riduzione dell’inflazione derivante dalla
sostituzione di tante banche controllate dai rispettivi governi con un’unica banca
centrale indipendente ridurrebbe in particolare i costi del “ciclo politico” e le
pressioni sulla spesa pubblica da parte dei sindacati. In aggiunta, potrebbe
aumentare la sincronizzazione del ciclo economico nel diversi paesi europei in
modo da accrescere l’autonomia dell’Europa dagli Stati Uniti. Tuttavia questo
vantaggio richiede un’armonizzazione delle politiche fiscali8 che in realtà è un
obiettivo non voluto in quanto l’unica arma contro la disoccupazione resta proprio
l’autonomia nella gestione delle politiche strutturali e di bilancio. Infine, ci si
chiede se può considerarsi tanto importante da rientrare nell’elenco dei vantaggi
dell’UME l’impossibilità di effettuare le cosiddette beggar-thy-neighbour-policies
ossia quelle manovre (come la svalutazione) tali da scaricare sui paesi vicini le
proprie difficoltà.
Dal punto di vista dei costi della convergenza, invece si rileva tra
l’altro9:
- la perdita di autonomia nella politica monetaria, con conseguente sottrazione
di un possibile strumento di policy come il tasso di cambio il che può far nascere
problemi di aggiustamento se salari, produttività e prezzi hanno trend differenti
nei diversi paesi.
12
- La nascita di obblighi nella gestione della politica fiscale: infatti la politica
fiscale è pienamente efficiente sotto tassi di cambio fissi e perfetta mobilità del
capitale, però questo è vero solo per un paese considerato isolatamente. La
politica fiscale di un paese che fa parte di un’unione può risultare in funzione
degli obiettivi dell’unione nel suo complesso.
- Il possibile aumento della disoccupazione. Infatti, se un paese dell’Unione ha
un basso tasso d’inflazione costringerà probabilmente gli altri membri ad
allinearsi, attraverso restrizioni che porteranno ad un aumento della
disoccupazione
- Il possibile deterioramento dei disequilibri già esistenti. Infatti, sapendo che la
mobilità del fattore lavoro a causa di diversi elementi come problemi di lingua,
costi di riallocazione ecc., è più bassa di quella del capitale, la possibilità di
trovare utilizzazioni più remunerative del capitale negli altri paesi dell’unione,
assieme alla scarsa mobilità internazionale del lavoro, possono aggravare i
problemi di sviluppo dei paesi meno efficienti dell’Unione. Il problema, in realtà,
sta nel verificare se i disturbi riguardanti i partners dell’unione monetaria possano
essere considerati shocks simmetrici o asimmetrici e quindi se si possa verificare
la ripercussione di tali squilibri su altri paesi; da valutare è anche la possibile
natura dei disturbi, perché disturbi permanenti possono, a lungo andare,
influenzare output e livello dei prezzi mentre disturbi di breve periodo non hanno
effetti di lungo termine sul livello della produzione. La correlazione tra i disturbi di
un paese e quelli di altro potrebbe così venire meno o, al contrario, essere molto
forte.
Altri sostengono che10 se già gli Stati Uniti non possono definirsi una
Optimum Currency Area, ancor meno lo è l’Europa dove la mobilità del fattore
lavoro è più bassa, il tasso di ridistribuzione fiscale minore e, soprattutto, le
13
asimmetrie strutturali dei diversi paesi sono molto incidenti, in quanto riguardano
il tasso strutturale di disoccupazione, la cultura, la lingua, il livello di competitività
ecc. Così se i paesi membri subiranno shocks più o meno forti che porteranno le
rispettive economie fuori allineamento avranno ben poche, se non nessuna,
politiche a loro disposizione per superare il momento di difficoltà economica.
Sicuramente, tra i costi maggiori dell’adesione non si possono trascurare
quelli derivanti dallo sforzo fiscale richiesto per il raggiungimento prima, e il
rispetto poi, dei criteri di Maastricht: si tratta delle cosiddette Politiche di Bilancio,
che sicuramente non facilitano la ripresa dell’attività economica ma che non
possono non essere applicate se non si vuole incorrere in sanzioni; il Patto di
Stabilità, allo stesso modo, rischia di instaurare un meccanismo di deflazione per
le economie europee che invece hanno bisogno di una fase di ripresa che rilanci
la crescita e riduca la disoccupazione. L’unico strumento rimasto a disposizione
dei singoli paesi per contrastare la fluttuazione del reddito e dell’occupazione è la
manovra sul bilancio pubblico ma si rivela uno strumento assai limitato per quei
paesi con elevato debito pubblico. Il fatto è che, in generale11, l’eliminazione di
meccanismi di riequilibrio può creare più problemi di quanti ne risolva. Contro il
fenomeno della disoccupazione, unico elemento che accomuna tutti i paesi
membri, occorrono energiche politiche keynesiane di controllo della domanda
globale, ma per poter fare tali manovre occorre il controllo dei movimenti di
capitale, ossia occorre fare un passo indietro e non un passo avanti nel processo
di unificazione economica europea. Inoltre, in presenza di cambi fissi un paese
importerebbe più inflazione dall’esterno ipotizzando che questa sia più alta di
quella del paese considerato: si genererebbe una tendenza inflazionistica12 che
potrebbe avere tre diverse conseguenze:
14
- l’assorbimento dei risparmi nazionali ed esteri a causa di una manovra
espansiva del governo nel tentativo di frenare tale tendenza,
- l’aumento dei tassi d’interesse relativi ad ogni debito addizionale concesso,
essendo impossibile l’intervento della Banca Centrale, volto a diminuire il valore
reale del debito, o la monetizzazione di tale sovereign default per effetto della
no-bail-out clause, potrebbe diventare necessario un salvataggio organizzato da
tutti i paesi membri per soccorrere il paese in difficoltà finanziaria.
Se poi diverso è il tasso di crescita di due paesi ad esempio, se i paesi
avessero monete diverse un deficit di bilancio si potrebbe frenare con una
manovra di politica economica restrittiva o con una svalutazione. Avendo però i
paesi una moneta comune viene a mancare il meccanismo di riequilibrio e il
paese in crescita dovrà ricorrere a una politica fiscale restrittiva che, per sua
natura, frena lo sviluppo economico. Determinante è, pure, l’aspetto legato alla
politica fiscale dato che parte dei costi di una politica fiscale espansiva vengono
scaricati sugli altri paesi dell’unione: infatti, se ad esempio la Banca Centrale
dell’unione attraverso una manovra di politica monetaria espansiva finanziata con
una maggiore offerta di moneta, cerchi di venire incontro alle esigenze di
finanziamento di un paese e aumenti l’offerta complessiva di moneta, la Banca
Centrale indirettamente finirà con alimentare ulteriormente l’inflazione negli altri
paesi. Inoltre, quando il processo d’integrazione avviene tra paesi con politiche
fiscali differenti, diviene sempre più difficile per i singoli governi imporre le tasse
perché i capitali tendono a trasferirsi rapidamente verso i cosiddetti “paradisi
fiscali” o dove la pressione fiscale è più bassa; il timore dell’indisciplina fiscale
induce a cercare di porre dei limiti alle manovre sul deficit di bilancio. Ma se si
impongono vincoli troppo stretti si può ricreare la situazione che già portò, in
passato, al fallimento del piano Delors: molti paesi, infatti, considerano come una
15
limitazione intollerabile alla loro sovranità l’introduzione di vincoli all’imposizione
fiscale e alla spesa pubblica.
Inoltre13, i governi nazionali troverebbero difficoltà ad eguagliare il tasso
d’inflazione europeo con il costo marginale della tassazione; se il tasso
d’inflazione perseguito dalla Banca Centrale Europea fosse inferiore a quello che
i paesi avessero scelto, sarebbe necessario un taglio alle le spese o un aumento
delle tasse con conseguente perdita di benessere. In aggiunta, dato lo stretto
legame che si verrà a creare fra le economie dei diversi paesi dell’unione, se uno
o più membri presentassero un debito pubblico insostenibile o comunque avanzi
primari consistenti, la fiducia internazionale nella valuta dell’unione potrebbe
venire meno con indesiderabili effetti negativi come, ad esempio, manovre
speculative contro l’euro o più semplicemente, un suo calo rispetto alle valute più
importanti.
Indispensabili nel processo di valutazione risultano però anche i dati
empirici relativi all’andamento delle variabili reali nelle singole economie europee,
al fine di vedere, al di là delle previsioni effettuate, gli effetti della creazione di
una vera unione monetaria tra i paesi europei.
1.2 L’andamento delle variabili reali in Europa
Gli eventi politici che hanno caratterizzato l’ultimo decennio sono stati
molti ed hanno influito sostanzialmente sulla grande manovra economica che ha
riguardato l’Europa a partire dalla ratifica del Trattato di Maastricht in poi.
All’instabilità di origine politica si è aggiunta la crisi finanziaria del 1992/1993
dovuta alla lunga recessione degli anni passati. La progressiva liberalizzazione
16
dei movimenti di capitale, poi, ha creato un ulteriore elemento di tensione sui
mercati finanziati, accentuando la possibilità di spostare velocemente grandi
masse di capitali da una piazza all’altra a seconda dell’andamento delle singole
economie e degli eventi politici che caratterizzavano i vari paesi dell’Unione
Europea. In questo quadro complessivo si è cercato di far convergere pian piano
i diversi paesi verso il raggiungimento dei livelli di inflazione, debito pubblico,
deficit e tassi d’interesse decisi a Maastricht, provocando così variazioni nelle
economie dei singoli paesi rispetto al proprio trend di ciclo economico.
Nel settembre 1997 la Conferenza di Roma dell’AISSEC (Italian
Association of the Study of Comparative Economic Systems) e dell’EACES
(European Association for Comparative Economic Studies) cercava di stabilire se
gli anni novanta vedevano un processo di convergenza dei diversi sistemi
economici soprattutto in vista del nuovo assetto politico-economico stabilito dalla
matematica di Maastricht14. Oggetto della Conferenza è stato lo studio delle
economie di due paesi-tipo, ossia il gruppo dei 10 paesi CEEC (Central and
Eastern European Countries) tra i quali Polonia, Ungheria, Romania, Bulgaria
ecc.. e i 15 paesi dell’Unione europea, durante un periodo che andata dai primi
anni novanta in poi. Lo scopo era, appunto, quello di vedere se ci si stava
allineando verso il sentiero della convergenza di tutta l’Europa dell’est e
dell’ovest, di rilevare gli andamenti necessariamente diversi tra i paesi UE e i 10
CEEC e, soprattutto, di cercare di trovare un metodo di misurazione valido di tale
convergenza (e/o divergenza).
Innanzi tutto, occorre rilevare che nel dibattito sulle caratteristiche della
convergenza e su tutti i possibili fattori che la influenzerebbero si sono analizzati
elementi molto diversi15 anche se si è raggiunto un risultato comune circa la
necessità di impiantare un sistema di vera e propria politica economica
17
ingegneristica. I diversi contributi evidenziavano che, in realtà, la convergenza
può verificarsi, nel migliore dei casi, solo parzialmente. Un altro dato comune è
l’idea che, in generale, il concetto di convergenza dovesse andare ben oltre i
criteri di Maastricht: da più parti, infatti, si parla appunto di “convergenza
sistemica”16 essendo questa considerata come una convergenza più forte, più
completa, che tocchi il quadro politico, istituzionale e strutturale di ogni paese e
che, quindi, apparterrebbe più ad aspetti qualitativi che quantitativi. L’analisi
svolta ha ad oggetto il cammino dei paesi CEEC verso la convergenza con i
paesi UE e giunge ad evidenziare una sorta di trade off tra convergenza reale e
convergenza nominale che porta a chiedersi se le politiche di convergenza
economica possano essere perseguite da tutti i paesi allo stesso modo e,
soprattutto, se sia veramente possibile per tutti i paesi raggiungere l’allineamento
economico auspicato con la creazione dell’UME. Un’avvertenza interessante
rilevata sempre alla Conferenza di Roma è quella che17 giunge allo stesso
risultato relativo all’impossibilità di una convergenza completa partendo però dal
fatto che il processo di unificazione determina la creazione di istituzioni
centralizzate18 che possono essere portate ad applicare identiche politiche in
diversi paesi, cosa che può essere determinante per il collasso delle singole
economie. In questa visione, l’economia richiede l’uso di differenti manovre di
politica economica poiché i paesi non solo non possono convergere quanto
addirittura registrare maggiore divergenza del normale.
Secondo la tesi della “convergenza sistemica”, è possibile misurare il
livello di convergenza tra i diversi paesi della futura “UME allargata” utilizzando
degli indicatori macroeconomici: basterebbe già comparare per un certo numero
di anni la performance di un paese rispetto a un set di valori obiettivo o
paragonare i valori più significativi di tali indici calcolati per tutti i paesi UE e
18
CEEC. Tali analisi potrebbero fornire valide informazioni sulla convergenza
statica tra questi paesi anche se, in realtà, la convergenza economica è un
processo dinamico e come tale va studiata. La misurazione della convergenza
dinamica dipende molto da come si interpreta la convergenza: se come variabile
chiave della convergenza si considera l’allineamento delle diverse economie
reali, allora si potrà misurare dal punto di vista econometrico l’indice di
convergenza “b”, che esprime l’avvicinamento dei livelli di convergenza in termini
di tassi di crescita e gettito procapite. Questa misurazione può utilizzare
validamente il modello proposto da Barro e Sala-i-Martin19:
(1) logY
i,T / Yi,0 = a + blogYi,0 + viT,0 con b = - (1-e-bT)
dove Y è il PIL pro capite, T il numero di anni in considerazione e b la velocità di
convergenza. Se invece si adotta la visione per la quale la convergenza si può
calcolare trovando e comparando m, il valore medio, e la deviazione standard s
di ciascuna variabile macroeconomica (nominale e reale) dei due paesi-tipo. In
questi casi, il grado di convergenza statica di una variabile economica è
determinata usando il coefficiente di variazione definito come “s/m”; però, per
ottenere la convergenza dinamica si dovranno registrare le variazioni annue del
valore medio m e del coefficiente di convergenza s/m per ciascuna variabile
economica dal 1990 in poi. Quindi, un coefficiente di variazione decrescente tra i
due paesi-tipo in considerazione, relativo al tasso d’inflazione ad esempio, può
essere interpretato come un segnale di convergenza dinamica nominale tra le
due aree.
Attraverso l’analisi della varianza, invece, si può trovare il significato
delle differenze tra i valori più significativi tra i paesi del modello. Se questo