4
dell’isolamento”
4
. Secondo questa interpretazione, ogni bene
selezionato da questo enorme sistema edificato per portare denaro
diventa anche un’arma perfetta per il “consolidamento costante delle
condizioni d’isolamento delle folle solitarie”
5
.
Una società capitalistica, per Susan Sontag, esige una cultura
basata sulle immagini. “Ha bisogno di fornire quantità enormi di
svago per stimolare gli acquisti e anestetizzare le ferite di classe, di
razza e di sesso”
6
. Inoltre “ha bisogno di raccogliere quantità
illimitate d’informazioni, per meglio sfruttare le risorse naturali,
aumentare la produttività, mantenere l’ordine, fare la guerra e dar
lavoro ai burocrati”
7
. La duplice capacità dell’immagine
cinematografica di soggettivare o oggettivare la realtà è la risposta
ideale a queste esigenze ed un modo perfetto di rafforzarle. Le
immagini cinematografiche “definiscono la realtà delle due maniere
indispensabili al funzionamento di una società industriale avanzata:
come spettacolo (per le masse) e come oggetto di sorveglianza (per i
governanti). La produzione di immagini fornisce inoltre un’ideologia
dominante”
8
. La totale libertà di consumare una vasta pluralità di
immagini e di beni di consumo donati dall’assetto produttivo
dominante viene identificata come la libertà con la L maiuscola. “Il
restringere la libera scelta politica al libero consumo economico
esige che la produzione e il consumo di immagini siano illimitati”
9
.
Alain Badiou nel suo articolo Il cinema come falso movimento
scrive che nei confronti non solo degli oggetti e delle situazioni del
quotidiano, ma anche in quelli delle altre arti che l’hanno preceduto
(la letteratura, la musica, la pittura, la fotografia), il cinema opera una
trasformazione. Il film nel suo svolgersi svela la presenza di altre
forme espressive ma le inserisce nel suo movimento generale
4
ibidem.
5
ibidem
6
S. Sontag, Sulla fotografia, Giulio Einaudi Editore, Torino 1978, pag.154
7
ibidem
8
ibidem
9
ibidem
5
annullandole come elementi isolati e autosufficienti. “E’ impossibile
pensare al cinema al di fuori di una sorta di spazio generale in cui si
evidenzia la sua connessione con le altre arti. E’ la settima arte in un
senso del tutto particolare (…) opera su di loro, a partire, tramite un
movimento che le sottrae a loro stesse”
10
.
Secondo David Harvey, nel secondo dopoguerra, la grande
forza esercitata dalla fascinazione cinematografica del movimento,
dello scorrere della vita, del montaggio della realtà, è stata
tenacemente tenuta sotto controllo dalle grosse majors, produttrici di
spettacolo: anche se falsato, niente è più aleatorio e catalizzante del
flusso della vita che scorre. “Il cinema ha forse la maggiore capacità
di gestire in modi interessanti i temi interconnessi di spazio e tempo.
L’uso seriale delle immagini e la capacità di muoversi avanti e
indietro nello spazio e nel tempo, lo liberano da molti dei normali
vincoli, anche se, in ultima analisi, si tratta di uno spettacolo
proiettato all’interno di uno spazio chiuso su uno schermo senza
profondità”
11
.
In verità, come affermato anche da Bruno Cartosio, gli anni
’50, per il cinema mainstream statunitense, non sono solo gli anni
dello smercio a livello mondiale del suo prodotto patinato ma anche
il decennio che lancerà Hollywood in una crisi profonda legata alla
diffusione di quei beni di consumo che tanto l’industria
cinematografica va pubblicizzando, in primis l’automobile
12
.
Per fronteggiare la crisi le major iniziano a vendere i diritti di
trasmissione dei loro film alla televisione, altra stella nascente.
Secondo Franco La Polla la concorrenza della televisione è
fondamentale “non soltanto per quel che riguarda il fenomeno in sé,
ma anche per i massicci acquisti che questa fa, togliendo a
Hollywood, per così dire, la sua continuità autonoma, la gestione
della sua storia attraverso i suoi prodotti”
13
.
10
A. Badiou, Il cinema come falso movimento, www. kainos.it
11
D. Harvey, La crisi della modernità, il Saggiatore, Milano 1993, pag. 375
12
cfr. B. Cartosio, op. cit.
13
F. La Polla, Il nuovo cinema americano 1967-75, Lindau, Torino 2002, pag. 21
6
L’assetto produttivo subisce una lieve rivoluzione, una piccola
fetta dei registi si sottrae alle grosse case produttrici e inizia ad
autoprodursi. Roger Corman è senz’altro un pioniere in questo senso,
fondando nel 1953 la Roger Corman Production inizia una carriera
che in vent’anni lo porterà a produrre e a dirigere quasi sessanta
pellicole, tutte caratterizzate da una misera economia, girate in pochi
giorni e su scenari spesso riutilizzati in diversi film.
Sulla scia dell’interesse per il genere fantascientifico, legato ai
fumetti popolari del dopoguerra come Flash Gordon o Buck Rogers, e
alla psicosi della Guerra Fredda che genera per tutte il decennio
pellicole incentrate sulla paura del disastro nucleare o da un’invasione
aliena che lascia sottintendere facilmente una smisurata paura
nazionale per un’invasione comunista (fra tutti The Invasion of the
Body Snatchers) e, sul finire degli anni ’50, per la riuscita
Rivoluzione Cubana, Corman dirige film low-budget destinati a
divenire dei classici del genere: Not of this Earth (1956) e It
Conquered the World (sempre del 1956). Come scrive anche
Giuseppe Turroni, sono film caratterizzati fortemente da effetti
speciali artigianali molto ingegnosi: mostri di cartapesta, turbinii
sonori, astronavi che svolazzano, legate ad un filo, fra gli alberi.
Corman diviene fondamentale anche per i suoi film incentrati sulle
nuove mode giovanili, come i rock’n’ roll movies ( Rock All Night ,
Teenage Doll e Carnival Rock, tutti del 1957, ) e gli horror movies,
pellicole dove il ‘mostro’ diviene sinonimo di ‘diverso’, staccato dalle
norme sociali (A Bucket of Blood, 1959)
14
. I giovani si rispecchiano in
questi film poiché sono alla ricerca di un loro cinema, di un cinema
diverso. I piccoli studi sono quelli che possono permettersi i maggiori
rischi per quanto riguarda le varie forme di rappresentazione e
possono evitare la censura poiché tali film (definiti exploitation films)
circolano in circuiti alternativi: drive-in, cinema di periferia, cinema
di mezzanotte.
14
cfr. G. Turroni, Roger Corman, Castoro, Firenze 1976; E. Martini (a cura di), Corman 1-2,
Bergamo Film Meeting, Bergamo 1992
7
In L’incredibile storia del cinema spazzatura Jonathan Ross è
molto esplicito nel definire qual è l’obbiettivo di queste pellicole: “i
film exploitation cercano di catturare l’attenzione del pubblico
offrendo qualcosa non disponibile altrove, film che danno
soddisfazione ai nostri più bassi istinti, suscitano la nostra curiosità,
ci vendono in maniera oscena il lato più oscuro della vita, ma lo
fanno in modo accorto e con un’unica ragione: guadagnare”
15
.
Di un parere analogo Greg Merritt, il quale, nel suo Celluloid
Mavericks, sostiene che gli exploitation films diffondono temi come
la sessualità e la criminalità, attirando un pubblico giovanile
galvanizzato da tutto ciò che trascende l’estetico ed il morale. Il
nuovo pubblico è desideroso di venire assorbito dal brutto, dallo
scandaloso, da forti cariche di erotismo e ribellismo e gli exploitation
diffondono a macchia d’olio su tutto il territorio nazionale ciò che il
codice Hays ha vietato per quasi venticinque anni, poiché, non
avendo più il controllo totale sulla distribuzione viene a mancare la
potentissima arma economica della censura
16
.
Merritt spiega anche che Hollywood non ci mette molto tempo
a seguire la strada delle piccole case di produzione indipendenti e
inizia a sfornare film che il pubblico giovanile mostra di gradire. Dal
film noir e dal western ha origine il genere dei film realisti sulla
gioventù ribelle: The Wild One (1954) di Laszlo Benedek e Rebel
whitout a Cause (1955) di Nicholas Ray.
A differenza dei gangsters, la cui violenza è un riflesso della
violenza della società, la violenza di questi giovani è una ribellione
contro la noia, la monotonia, il conformismo, il determinismo della
vita adulta. Questi giovani vengono presentati nel loro tentativo di
affermare il bisogno di stabilire delle convenzioni diverse, e,
soprattutto, nel loro visibile ribrezzo verso la mediocrità della vita
borghese. Nel segno dell’eroismo popolare queste pellicole puntano
15
J. Ross, L’incredibile storia del cinema spazzatura, Ubulibri, Milano 1996, pag. 63
16
cfr. G. Merritt, Celluloid Mavericks, A History of American Independent Film, Thunder’s Press,
New York 2000
8
debolmente il dito contro il malessere della società post-bellica,
avviata sulla strada del benessere ma priva di un’identità. Sono film
nei quali la compiacenza nei confronti dei nuovi fermenti
generazionali è confinata alla superficialità. Si tratta dei soliti
espedienti commerciali e non prese di posizioni solidali nei confronti
nei nuovi fenomeni di ribellismo e di emancipazione giovanile.
Controllando e dosando ottimamente gli ingredienti della
rappresentazione, le grosse case produttrici di Hollywood si mettono
al sicuro da ogni eventuale rischio facendo in modo che il pubblico
giovane apprezzi la parte eversiva di questi film senza rendersi conto
di quanto in realtà siano reazionari e compiacenti verso gli
atteggiamenti più moderati e controllabili della gioventù americana
17
.
Il cinema mainstream ha quindi operato puntando su una
razionalizzazione e su una riorganizzazione delle nuove strutture
piuttosto che a una loro effettiva messa in discussione, adeguandosi
superficialmente ai mutati standard di consumo di spettacolo e
assumendo di nuovo, dopo la breve crisi, l’ormai consolidata e
decisiva funzione di riuscire a fare, del cinema commerciale, il
medium d’avanguardia dei processi di rappresentazione del mondo e
riuscendo ancora ad ancorarsi alle rive del Capitale, per restare, come
afferma anche Guy Debord, lo stabile metodo organizzativo più forte
per il consumo di spettacolo
18
.
Greg Merrit, nel già citato Celluloid Mavericks, spiega che
questa funzione del cinema si rivelerà vincente poichè la maggioranza
dei ribelli senza causa e dei giovani perduti rappresentati dal cinema
commerciale, sono proprio i figli della borghesia per bene, di
quell’establishment che beneficia maggiormente del boom
economico
19
.
17
ibidem.
18
cfr. G.. Debord, op. cit.
19
cfr. G. Merritt, op. cit.
9
2. Beat e filmmakers indipendenti contro il decennio atomico
L’idillio della pace e della crescita economica si accompagna a
forti preoccupazioni di politica internazionale legate alla Guerra
Fredda, che si inasprisce particolarmente durante la Guerra di Corea
tra il 1951 e il 1953. Sul fronte interno sono sempre maggiori le
preoccupazioni suscitate dai problemi delle discriminazioni etniche
(specialmente in un Sud ancora legato a vecchi schemi culturali
patriarcali e razzisti) e della delinquenza giovanile.
20
.
Secondo Ben Cook uno degli aspetti giovanili più nel mirino
dei censori è la nascita di quella che lui chiama una ‘sottocultura’, poi
divenuta negli anni ’60, come vedremo, vera e propria controcultura.
Questa sottocultura (composta da una ristretta cerchia di intellettuali )
si autodefinisce la Beat Generation. I beat (nel senso di battuti,
sconfitti e di beati proprio attraverso la marginalità) si appropriano di
tutto ciò che riconoscono come rilevante per la propria
sopravvivenza, di forme di espressione rifiutate dalla società
americana, che le bandisce come forme di violenza, perversione,
immoralità. Scrive Allen Ginsberg in una lirica dedicata alla patria:
“America when will we end the human war?/ Go fuck yourself with
your atom bomb/ America I used to be a communist when I was a
kid/I’m sorry/ I smoke marijuana every chance I get”
21
. Come
vediamo, al modello di vita consumistico, fatto da rifugi antiatomici
costruiti sotto la cucina, i beat contrappongono provocatoriamente,
nelle loro poesie e nelle altre loro rappresentazioni artistiche,
l’individualismo anarchico e pacifista, la libertà sessuale, l’alcool e le
droghe come strumenti liberatori
22
.
In accordo con Tommaso Pisanti possiamo affermare che per
rispondere ai messaggi edificanti del governo Eisenhower “intervenne
20
cfr. B. Cartosio, op. cit.
21
A. Ginsberg, America, in Jukebox all’idrogeno, Ugo Guanda Editore, Parma 1992, pag. 157
22
cfr. B. Cook, The Beat Generation, Screbners, New York 1971; L. Ferlinghetti, Questi sono i
miei fiumi, Newton Compton Editori, Roma 1996; J. Kerouac, Sulla strada, Arnoldo Mondadori
Editore, Milano 1989; E. Bevilacqua, Guida alla Beat Generation, Theoria Edizioni, Roma 1994;
E. Bevilacqua (a cura di), Beati&Battuti, Giulio Einaudi Editore, Torino 1996
10
il furore beat con i suoi gridanti rifiuti, con l’irrequieta ricerca di
nuove autenticità al di là delle lustre apparenze del benessere,
dell’ottimismo facile, del conformistico buonsenso”
23
.
La controcultura non compare quindi magicamente sul finire
degli anni ’60 quando le lotte studentesche stanno dilagando per tutto
il mondo occidentale, ma le sue origini risalgono, come abbiamo
visto, al periodo postbellico, e la sua funzione politica, sociale e
culturale va cercata nei primi reading di poesia che i beat fanno nei
locali di New York e di San Francisco. Gli anni ’50 sono, secondo
Mario Maffi, “gli anni dello sconforto, del malessere, della sickness
profonda e inafferrabile , dell’incertezza e della paura. E i beats le
sensibilissime antenne di questa realtà”
24
.
I beats e quei giovani che li prendono a modello
comportamentale e ideologico, rappresenteranno un nuovo stile di
vita, una vitale autodifesa contro la burocrazia, il materialismo, la
competizione, l’alienazione e la violenza, tutti valori che si erano
ormai consolidati e fagocitati nella bulimica società americana del
“benessere”, una società che, nella visione collettiva di quella che
Cook nomina ‘sottocultura’, avrebbe permesso un’eventuale
distruzione nucleare, l’inquinamento e la disintegrazione del pianeta,
l’annientamento psichico dovuto ad un’alienazione da beni di
consumo, l’abbattimento morale di ogni nuova abitudine culturale
25
.
È più facile capire il senso di un cinema veramente
indipendente in un contesto segnato da un simile sistema. Come
afferma Lino Miccichè “lungo gli anni ’50 cominciò a prendere
corpo un’ideologia della rottura che intendeva promuovere sia nuovi
assetti strutturali del cinema, sia un nuovo atteggiamento proprio nei
confronti del cinema come mezzo espressivo”
26
.
23
T. Pisanti, Storia della letteratura Americana, Newton Compton Editori, Roma 1994, pag. 82
24
M. Maffi, La cultura underground, Vol.1 Dai beats agli yippies, Edizioni Laterza, Bari 1972,
pag. 3
25
cfr. B. Cook, op. cit.
26
L. Miccichè, Il nuovo cinema degli anni ’60, Eri, Torino 1972, pag. 67
11
Parker Tyler, nel suo libro Underground Film (un’ acuta analisi
sul cinema sperimentale americano), afferma che oltre al continuo
incalzare di problemi sociali e politici e agli esempi offerti dalla Beat
Generation per quanto riguarda la libertà della parola e dell’azione,
numerosi avvenimenti artistici contribuiscono alla nascita di una
cinematografia veramente indipendente in America: l’esempio
dell’action painting in pittura, l’influenza della nouvelle vague
francese e del free cinema dell’Inghilterra proletaria.
Nel secondo dopoguerra le pellicole a 8 e 16 mm, alla portata di tutti,
favoriscono la nascita di un vero e proprio movimento d’avanguardia,
il movimento, politicizzato, narcisista, modernista, prende spunto
dall’avanguardia surrealista e dadaista, al concetto di film come veri e
propri quadri in movimento
27
.
Tyler sostiene, inoltre, che per i filmmakers (registi socialmente
impegnati che operano con mezzi ridotti al di fuori delle strutture
controllate dalle majors) della nuova tendenza, l’improvvisazione è
un elemento quasi obbligato. La povertà economica costringe a girare
in poco tempo e la ristrettezza del tempo porta questi nuovi registi a
indirizzarsi verso il reale, verso la rappresentazione del quotidiano,
verso l’improvvisazione della vita
28
.
Abbiamo detto come gli studios Hollywoodiani, oltre a creare
un prodotto, ne controllino anche lo sfruttamento commerciale,
decidendo in che modo e in quale luogo il grosso pubblico può
consumare tale prodotto. E’ questo il motivo per cui gli indipendenti
fin dal loro esordio saranno costretti a cercare sedi alternative per
raggiungere il loro pubblico. Come ci ricorda Richard Pena vengono
creati “circoli cinematografici (…) per proiettare film stranieri, in
particolare sovietici. Questi circoli avevano un certo orientamento
politico, ed erano sempre collegati, anche se in modo informale, con i
27
cfr. P. Tyler, Underground Film: A Critical History, Da Capo Press, New York 1995
28
ibidem
12
sindacati (le cui sale erano usate spesso per la rappresentazione), o
con altri gruppi politici”
29
.
New York assume un’importanza fondamentale: la metropoli
grigia, lontana dal sole californiano, lontana da Hollywood e dalle
major. Jonas Mekas afferma che “New York si è sempre contrapposta
a Hollywood, geograficamente e ideologicamente. I migliori film
tradizionali vengono sempre da grandi produzioni hollywoodiane e
hanno poco a che fare con gli indipendenti, essi sono piuttosto opera
di cineasti isolati della East Coast, o da autori direttamente
influenzati dal clima cinematografico della East Coast”
30
.
La più importante rivista per la diffusione di questi film
d’avanguardia è la newyorkese Cinema 16 di Amos Vogel. Oltre a
sezioni inerenti alla produzione del cinema classico muto, compaiono
fra le sue pagine, articoli sul cinema d’avanguardia europeo e
sovietico, sui documentari e sui nuovi fermenti cinematografici che
stanno provando a farsi largo. Ma è Film Culture, fondata da Jonas
Mekas nel 1955 a diventare il periodico non ufficiale del movimento.
Film Culture grazie al luogo reale del Charles Theater di New York
da uno spazio alternativo a tutti quei giovani filmmakers che vengono
rifiutati dai circuiti commerciali e inoltre diventa la base di
quell’organizzazione che accetterà ogni film, lasciando la libertà ai
registi di decidere i costi del noleggio e della vendita.
L’organizazione, abbozzata nel 1958 (dopo che Cinema 16 rifiuta di
distribuire Anticipation of Night di Stan Brakhage) diviene ufficiale il
18 gennaio 1962, prende il nome di Filmakers’ Cooperative con
l’obbiettivo di divenire una solido aggancio per le più elementari
rivendicazioni di indipendenza produttiva e ideologica che i giovani
registi vanno chiedendo
31
.
29
R. Pena, Profilo storico del cinema indipendente in AA.VV, Off Hollywood, Marsilio Editori,
Venezia 1991, pag. 87
30
J. Mekas, Il nuovo cinema americano: clima e tendenze, www.fortunecity.com
31
cfr. P. Tyler, op. cit.; A. Apra (a cura di), New American Cinema, Ubulibri, Milano 1986; J.
Mitry, Storia del cinema sperimentale, Gabriele Mazzotta Editore, Milano 1971
13
Abbiamo visto come la prima espressione di denuncia
esistenziale lanciata contro il sistema capitalistico americano arrivi
dall’urlo dei beat, dalla loro affermazione di non comunicazione con
il potere, nel loro totale abbandono dei canoni e delle norme borghesi,
nel loro rifiuto di ogni controllo intellettuale. Mario Maffi afferma
che negli anni che chiudono i ‘50 e aprono i ‘60, “la Beat Generation
si riconobbe al di fuori delle soffitte dei poeti; la poesia toccò i non-
poeti, cessando finalmente di essere un’esperienza individuale e
personale, per diventare un linguaggio collettivo”
32
. Inoltre Maffi
sostiene che in campo cinematografico questo linguaggio si fa sentire
con la rappresentazione di quella stessa ricerca espressiva già
pubblicizzata dai beat, nel rifiuto della morale borghese e dei codici
formali dell’intreccio narrativo. I film vengono creati durante le
riprese, senza sceneggiature prefissate, nella continua ricerca dettata
dall’improvvisazione
33
.
Fra i primi film a seguire questa rivolta cinematografica
troviamo Pull My Daisy (1958) di Alfred Leslie e Robert Frank, una
libera improvvisazione su uno sketch scritto da Jack Kerouac che
vede la partecipazione di Gregory Corso, Allen Ginsberg, David
Amram, Peter Orlovsky, Lerry Rivers. La trama, se di trama
possiamo parlare, narrà la vicenda di un tossicodipendente, Milo
(interpretato dal pittore e musicista Lerry Rivers) che la moglie vuole
convertire ai valori della classe media per mezzo della redenzione
spirituale. La donna invita a casa un giovane vescovo e la sua
composta famiglia perché provino a parlare a suo marito per
convincerlo della bontà della sua tesi moralistica. Ma di contro il
marito invita i suoi allucinati amici poeti e nella casa inizia il caos,
scoppia la battaglia fra l’immoralità fanciullesca dei beat contro
l’impassibile apatia del prete e dei suoi famigliari. La pellicola è
girata muta ed è la voce di Kerouac, fuoricampo, a doppiare tutti i
32
M. Maffi, op. cit., pag. 11
33
cfr. M, Maffi, La cultura underground, Vol. 2 Rock, poesia, cinema, teatro Edizioni Laterza,
Bari 1972
14
personaggi, commentando liberamente le loro azioni, sparando a zero
sull’istituzione familiare borghese e la sua moralità.
Pull my Daisy è, nell’analisi fatta da Mekas, “il ritratto della
condizione più intima di un’intera generazione. Potrebbe quasi essere
considerato un film beat, è l’unico vero film beat, se mai ce ne fosse
uno, intendendo per beat l’espressione del rifiuto inconscio e
spontaneo della nuova generazione nei confronti della classe media
degli uomini d’affari”
34
.
I beat hanno sempre affermato l’espansione della visione in
termini di coscienza. Nel saggio Cinema e Beat Generation: il dirito
della storicizzazione Franco La Polla sostiene che “Il punto di vista
può anche essere limitato, ma soltanto nel senso che esso può
coincidere con quello di un personaggio specifico nel momento in cui
la sua mente si sta espandendo oltre i limiti della visione del mondo
stabilita dalla cultura dominante, e dunque essa trascende la
soggettività della visione”
35
.
Pull My Daisy va nella stessa direzione del nuovo cinema
sperimentale per quello che riguarda il rapporto fra l’immobilità e il
movimento in un’operazione critica nei confronti del cinema
commerciale. Una delle differenze fondamentali fra il cinema di
Hollywood e queste opere cinematografiche underground è che le
pellicole hollywoodiane considerano l’esperienza in termini di
conflitti esteriori, nei film d’avanguardia, al contrario, il vero dramma
è interiore. Nei film commerciali i personaggi, gli eroi, affrontano una
serie di ostacoli materiali, di oppositori e reagiscono con delle azioni
concrete. I film sperimentali svelano che i momenti primari della vita
non implicano generalmente azioni esterne ma atti interiori di
conoscenza.
Intanto il cinema underground inizia ad avere numerosi seguaci
anche sulla west-coast, fra tutti Ron Rice che a San Francisco,
34
J. Mekas, Il cinema della nuova generazione, in P. Bertotto (a cura. di), Il grande occhio del
cinema, Lindau, Torino 1992 pp. 162-163
35
F. La Polla, L’età dell’occhio. Il cinema e la cultura americana, Lindau, Torino 1998, pag. 188
15
insieme all’attore Taylor Mead realizza The Flower Thief (1960), uno
dei più importanti film sotterranei che si rifà chiaramente al manifesto
esistenziale e poetico lanciato dalla Beat Generation. Come dice
Mekas: “The Flower Thief di R.Rice è uno degli esempi più riusciti
del cinema post-Pull my Daisy. Il film è stato girato nella massima
libertà creativa, nell’assoluto non rispetto dell’uso professionale
della cinepresa, della storia, dei personaggi tradizionali. Fonde e
combina insieme il cinema spontaneo di Pull my Daisy, la libertà
delle immagini di Brakhage, la ‘sporcizia’ dell’acting painting, il
teatro degli happening (Kaprow) e il senso dell’umorismo di Zen.
L’immaginazione non ha legami, libera i sensi; in questo film non c’è
nulla di forzato. Riscopre la poesia e la visione dell’irrazionale, del
nonsense, dell’assurdo…una poesia che va al di là di qualsiasi
razionalità, negli stessi luoghi di Zéro de Conduite, di Fireworks, di
Desistfilm. Ciò nonostante è un film che affonda le sue radici nella
realtà (…) è un ‘cinema realistico’ teso fino al punto di esplodere. In
un certo senso, non deve ‘inventare’: rivolge la cinepresa su se stesso
e sulle persone vicine per esplodere in giochi pirotecnici, senza
lasciare più spazio alla fantasia”
36
. Alla base della poetica di Rice,
secondo Angelo Leonardi, sta un ben conscio richiamo alle teorie di
Dziga-Vertov e del suo cineocchio che egli applica in modo completo
in Senseless (1962) ultimo suo film prima della scomparsa prematura,
un film-cronaca altamente visionario e slegato su un viaggio in
Messico
37
.
Ma dobbiamo fare un passo indietro, precisamente al 28
settembre 1960, quando su invito di Lewis Allen e Jonas Mekas, un
gruppo di 23 cineasti si riunisce per discutere una strategia artistica
comune da portare avanti. Scrive Leonardi che questi filmmaker si
pongono come obbiettivo la creazione di un cinema davvero
personale, che si opponga al cinema come industria.
36
J. Mekas, Note sul nuovo cinema americano, in P. Bertotto (a cura di), op. cit., pag. 175
37
cfr. A. Leonardi, Occhio mio dio. Il New American Cinema, Feltrinelli, Milano 1971