II
Partiremo dal dire del senso comune per vedere se ed in che misura
esigeremo di una rilettura dei termini di riferimento nella problematica
trascendentale della conoscenza.
Noi tutti, nella vita di ogni giorno, ci serviamo delle parole soggetto e
oggetto rinviando a diversi orizzonti di riferimento semantico. Ma cosa
vuole intendere l’uomo del senso comune quando parla di soggetto e
oggetto? Riteniamo di primaria importanza misurarci con la prospettiva
condivisa intersoggettivamente per rilevare il punto in cui innestare lo
spostamento di riferimento in ambito trascendentale.
Secondo la coscienza ingenua, la medesima parola fenomeno, nell’uso
abituale, significa qualcosa che è percepito attraverso i sensi, ovvero un
oggetto esistente o un evento della realtà, le cui caratteristiche sono
presupposte come reali ed esistenti autonomamente. Così avviene
pressappoco alla vista di un albero, di un’altura o, in generale, di un
“fenomeno” della natura. Ci domandiamo in maniera semplice, senza
sbalordirci di fronte a quesiti apparentemente banali. È dietro questa
banalità del dato fenomenico che dobbiamo ricercare, per cogliere il
fondamento della filosofia trascendentale.
Scorgiamo qualcosa che è situata spazialmente fuori dalla fisicità che ci
costituisce come soggetti. Non ci chiediamo quale sia la natura, ossia
l’intrinseca costitutività di quel qualcosa che ci appare. Eppure se
dovessimo raccontare a qualche altro l’esperienza appena vissuta,
parleremmo della vista di un oggetto che ci preoccuperemmo di
determinare con più o meno acuta finezza descrittiva, predicandone il
maggior numero di qualità.
In che modo ci siamo serviti della parola oggetto? In che senso abbiamo
potuto parlare di un’esperienza che, nel racconto, diremmo appartenere ad
uno spazio diverso dal nostro occupato, ossia propriamente «esterno a
noi»? Cosa intendiamo dire con l’espressione “ho visto un oggetto”?
Cosa congiungiamo con l’atto del vedere e cosa distinguiamo nel termine
oggetto?
III
A tali domande non siamo certo abituati a rispondere nella vita di ogni
giorno e se qualcuno, con un gesto ostensivo, indicasse un albero che ci sta
di fronte e dicesse “Io so che questo è un albero” risponderemmo
ironicamente con Wittgenstein: «”Quest’uomo non è pazzo: stiamo solo
facendo filosofia”»
i
.
È proprio, dunque, dal punto di vista della filosofia (trascendentale) che
vogliamo addentrarci in una questione come quella del rapporto
trascendenza-immanenza, il quale apre, necessariamente, al coinvolgimento
di tutto il processo di costituzione della conoscenza. Cos’è mutato rispetto al
comportamento dell’“uomo comune”? Ci sentiamo di poter dire: abbiamo
semplicemente indossato i panni del filosofo, di colui che, muovendosi
all’interno di un territorio trascendentale, si chiede delle condizioni di
possibilità che legittimano, fondano e permettono la conoscenza.
Abbiamo mutato l’atteggiamento col quale ci accostiamo alla realtà.
Abbiamo acquisito un metodo per procedere nell’indagine: il metodo
trascendentale della filosofia critica. Beneke ci rassicura,
precisando:
Una filosofia sana non può e non deve affermare
nient’altro e avere altra certezza che la ragione universale-
umana. […] La relazione fondamentale della metafisica, ad
es., la relazione del nostro rappresentare con l’essere, si
trova chiusa nel viluppo appena descritto, anche nell’uomo
non colto; al filosofo è dato il compito di liberarla da
questo viluppo e di presentarla con chiarezza e rigore in
tutte le relazioni, senza apportare il benché minimo
cambiamento, rispetto alla convinzione data indelebilmente
a tutti gli uomini alla stessa maniera
ii
.
i
L. Wittgenstein, Della certezza, Einaudi, Torino 1999, § 467, p. 75.
ii
F. E. Beneke, Kant und die philosophische Aufgabe unserer Zeit, tr. it. a cura di R.
Pettoello, Cuem, Milano 1997, p. 51.
IV
Su questo livello possiamo continuare a chiedere: come è da considerare,
pertanto, quella frattura che cogliamo tra l’io percipiente e l’elemento
percepito? Cosa significa quella distanza che coinvolge il nostro essere
impegnato nello svolgimento di una conoscenza rispetto all’esteriorità di un
mondo da conoscere?
Anche Kant ha ammesso questo genere di espressioni afferenti al significato
“popolare” delle parole oggetto, soggetto, realtà e, con fenomeno ha inteso
gli oggetti reali che ci si presentano in una maniera determinata. Egli non ha
impresso a questi concetti un nuovo significato intrinseco, ma li ha soltanto
modificati attraverso la dottrina dello spazio e del tempo.
Con essa entriamo a pieno titolo nel campo del trascendentale e ci
misuriamo con l’effetto prodotto nella significazione di soggetto e oggetto.
La dottrina dell’idealità trascendentale e della realtà empirica delle
forme pure a priori dell’intuizione, rispettivamente del senso esterno
(spazio) e del senso interno (tempo) permette di fondare su nuove basi non
solo il campo della conoscenza, ma anche e soprattutto quello
dell’esperienza in generale. Riflettere sull’importanza e la fondamentalità
dell’apriorismo nella costituzione del conoscere scientifico, espresso nella
forma del giudizio sintetico a priori, rappresenta il filo conduttore di una
ricerca che si propone di stabilire i «confini e i limiti» della ragione teoretica
e di fare assurgere al livello dell’oggettività ciò che si pone come
conoscere dell’esperienza possibile in generale.
Ciò che i concetti di soggetto e oggetto (e contestualmente quelli di
fenomeno, cosa, ecc.) assumono, è semplicemente un mutato orizzonte di
collocazione che deriva loro mediatamente, agendo sulla struttura
trascendentale della conoscenza in generale.
Il punto di svolta è segnato dal differente approccio gnoseologico apportato
dalla rivoluzione copernicana dell’oggettualità: con essa si scopre una terra
nuova, rimasta inindagata fino a quel momento dalla storia del pensiero.
Essa segna il passaggio ad un’inversione nella modalità di considerazione
dell’oggetto di conoscenza.
V
Scrive Kant, nell’Introduzione alla Critica della ragione pura:
Ich nenne alle Erkenntnis transzendental, die sich nicht so
wohl mit Gegenständen, sonder mit unserer Erkenntnisart
von Gegenständen, so fern diese a priori möglich sein soll,
überhaupt beschäftigt. Ein System solcher Begriffe würde
Transzendental-Philosophie heißen
iii
.
Con la filosofia trascendentale entriamo in un nuovo modo di considerare la
conoscenza ed i suoi oggetti. « […] Trascendentale è l’indagine di ciò che,
da parte nostra, rende possibile l’oggetto. Potremmo dire che la filosofia
trascendentale resta anche nel nuovo [critico] significato indagine
dell’essere dell’oggetto; ma nella concezione critica l’essere dell’oggetto
consiste nel suo apparire: filosofia trascendentale diventa quindi l’indagine
delle condizioni alle quali può apparire all’uomo un oggetto; indagine del
nostro modo di conoscere […] in quanto costituisce l’oggetto stesso: in
quanto dà all’oggetto la sua oggettività e quindi fonda la conoscenza a
priori»
iv
.
Conformemente a ciò, nella nostra trattazione, e subordinatamente al tema
della relazione trascendenza-immanenza, ci chiediamo (perché è necessario
chiederlo): come è possibile la conoscenza? Come può il soggetto essere
soggetto di conoscenza e l’oggetto oggetto di conoscenza? Qual è la cifra
comune che permette lo stabilirsi di un nesso di carattere conoscitivo tra
questi estremi? Come è possibile ridurre la lontananza ontologica tra essi?
O meglio: cosa diventa, in un’operazione trascendentale del conoscere, la
trascendenza ontologica? Abbiamo aperto le porte della fortezza per far
sì che penetri il “cavallo di Troia della cosa in sé”; ed ora come spieghiamo
questo fatto?
iii
I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, hrsg. von W. Weischedel, Suhrkamp, Frankfurt 1968,
Bde. III-IV; (d’ora in poi KrV).
iv
S. Vanni Rovighi, Introduzione allo studio di Kant, La Scuola, Brescia 1968, p. 119-120.
VI
Possiamo restare indifferenti di fronte ad esso? Bisogna recuperare una
dimensione immanente che l’inseità della cosa avrebbe mandato in
frantumi, oppure se fissiamo bene i presupposti di un discorso
trascendentale possiamo rileggere il problema con gli occhi vigili
dell’oggettività del conoscere che rimane illesa dal fattore cosa in sè?
Cercheremo di percorrere l’arduo cammino della filosofia kantiana, con
l’intento di rispondere a tali quesiti che costituiscono l’esplicitazione e
l’analisi del materiale sotteso alla tematica di ampio respiro della
trascendenza e dell’immanenza. Per far ciò ci serviremo della produzione
critica di Kant e del supporto di tutta una letteratura critica, che ha avuto il
merito di scavare negli antri riposti e spesso così nidificati della Critica da
impedirne, per tanto tempo, un corretto intendimento, e da aver, per di più,
dato spazio al sorgere della filosofia idealista tedesca, il cui esito Kant
stesso aveva cercato di combattere preliminarmente dedicandosi a fondo
alla confutazione dell’idealismo “spiritualistico” e dogmatico, non evitato,
negli sviluppi dell’Ottocento filosofico.
Ci domandiamo con Beneke: «Come è stato possibile che dall’idealismo
critico si generasse da noi [nella Germania dell’Ottocento] un idealismo
dogmatico? […] Oppure il germe della rovina, a causa del quale Kant, già
nel corso della sua vita, dovette assistere impotente all’affermarsi proprio
del contrario di ciò che egli considerava il massimo risultato della sua teoria
della conoscenza, e l’unico ammissibile, si trova già tutto o in parte nel
sistema da lui stesso elaborato?»
v
Per questa via intraprenderemo il cammino che, attraverso il metodo
trascendentale, ci condurrà a comprendere la validità oggettiva del
conoscere, il quale si costituisce a partire dal formalismo a priori
immanente al soggetto trascendentale, e l’esito di una filosofia, come è
quella kantiana, che combatte il soggettivismo e si afferma come pensiero
dell’oggettività, pur passando necessariamente per la forma
rappresentativa di conoscenza.
v
F. E. Beneke, op. cit., p. 33.
VII
Valuteremo,inoltre, se ed in che misura è possibile ripensare la
trascendenza, e su che piano è concesso affermare con Rickert: «Das
Transzendente ist tot, es lebe das Transzendente!»
vi
vi
H. Rickert, Der Gegenstand der Erkenntnis, J. B. C. Mohr, Tübingen 1928
6
, p. 131.