5
clientelismo, l’emigrazione o gli aggregati sociali (le indagini su
dati previdenziali e altri dati statistici). Oltre alla complessità
tematica, si è cercato di tenere presente l’esigenza di ricostruire un
percorso cronologico, che serva da quadro di riferimento per tutte
le indagini sugli specifici temi. Il periodo scelto va dal 1980 al
1992 appunto per cercare di fornire un quadro compiuto e
descriverlo nel migliore dei modi, senza però tralasciare i fenomeni
che hanno prodotto risultati rilevanti anche dopo tale data.
Il lavoro, quindi, inizia a narrare i fatti accaduti partendo dalla
situazione dell’emergenza immediatamente creatasi dopo il sisma,
parlando dei problemi relativi ai soccorsi, riportando le
testimonianze dei sopravvissuti e dei primi volontari, ricostruendo
le iniziative statali per affrontare l’emergenza. Si prosegue
cercando di fornire il quadro legislativo che accompagnò tutta la
fase della ricostruzione; per comprendere poi a fondo l’evoluzione
subita dalle zone terremotate si fa ricorso all’analisi di alcuni dati
statistici indicativi su popolazione, emigrazione, lavoro, previdenza
e comportamento elettorale. Segue quindi l’approccio problematico
al tema, con la messa in evidenza di alcune peculiarità (il ruolo
delle banche, di alcuni politici e dei tecnici amministratori) e di
altri casi legati alla ricostruzione ( appalti, scandali giornalistici). In
conclusione si prendono in considerazione i fattori che costituirono
una svolta per il processo di ricostruzione ( lavoro della
commissione parlamentare d’inchiesta, nuove leggi, cambio della
gestione politico-amministrativa).
Nella ricostruzione degli eventi è emersa una frattura nel modo di
guardare alle conseguenze del terremoto: una impostazione
dall’alto, istituzionale, statale, che badava a progettava in grande e
realizzava solo parzialmente, producendo un caos legislativo e
gestionale solo con l’obiettivo di accontentare tutti. L’altro sguardo
è quello dei terremotati, degli amministratori locali e delle
popolazioni, che subivano la progettazione dall’alto di disegni a
volte irreali e scarsamente adatti ai bisogni del territorio. L’intento
6
era quello di dare più dignità a questo punto di vista, che non ha
avuto nel corso del tempo molti interpreti. Spero di esserci riuscito.
Tra le premesse ho ritenuto utile considerare gli effetti di questo
evento sul quadro più generale di assistenza al Mezzogiorno. Ne
sono usciti risultati interessanti. Ad esempio, la predisposizione di
interventi per creare sviluppo di tipo industriale in una zona di
montagna ha consentito di percepire una persistenza di vecchi
modelli di intervento, che hanno permesso a grandi famiglie
imprenditoriali settentrionali di sfruttare l’assistenza dello stato,
fornita attraverso ingenti incentivi pubblici, per insediare
stabilimenti nel Sud a partire dal secondo dopoguerra. Nella crisi
che agli inizi degli anni Ottanta attraversava la politica per il
Mezzogiorno, quindi, il terremoto ha fornito il pretesto per
perpetuare la straordinarietà, senza risolvere, però, i problemi
esistenti. Nel lavoro ho cercato anche di ricostruire i legami tra
gruppi di potere politico (il cosiddetto “partito unico della spesa
pubblica”) e imprenditorialità dipendente dall’assistenza statale,
che si sono dimostrati la spiegazione di tanti provvedimenti
legislativi, adottati ai margini della legalità e sulla pelle dei
lavoratori e delle popolazioni terremotate.
Tali considerazioni hanno permesso di accertare come l’intervento
straordinario si potesse sostituire interamente all’ordinario nel
Mezzogiorno: prima del 1980 questo era possibile grazie alla Cassa
per il Mezzogiorno, che attraverso i suoi canali inglobava la quasi
totalità della spesa pubblica per il Sud; questa impronta venne usata
pari pari per l’intervento d’emergenza nel terremoto dell’Irpinia, e
spiega il motivo per il quale tutti intendevano rientrare tra i
beneficiari di quei soldi, allargando al di fuori del reale bisogno la
platea degli aventi diritto e penalizzando i veri terremotati. Quindi,
l’immagine di una realtà che aveva abusato della magnanimità del
Parlamento nell’elargire fondi pubblici è falsa perché il terremoto
non ha favorito né solo l’Irpinia, né solo Napoli, ma tutti coloro, tra
i quali molti imprenditori del Nord, che hanno colto l’occasione
offertagli. Inoltre la destinazione di fondi straordinari al Sud
7
permetteva, come è stato in tutto il secondo dopoguerra, di
destinare ad altre zone d’Italia i fondi ordinari.
Il mancato decollo delle aree depresse colpite dal terremoto si
inserisce quindi in un discorso più vasto sulle politiche di sviluppo
per il Mezzogiorno, che agli inizi degli anni Ottanta era al centro di
vivaci dibattiti: da un lato c’era chi individuava alcune microaree
meridionali in cui si erano instaurate piccole e medie industrie che
dimostravano la presenza di dinamismo imprenditoriale e localismi
autopropulsivi, frutto dell’intervento straordinario (il cosiddetto
sviluppo a pelle di leopardo). Dall’altro lato c’era chi individuava
un Mezzogiorno dipendente da interventi esterni e che intravedeva
ancora una omogeneità di fondo di sottosviluppo in tutto il
Meridione. L’antitesi era quindi tra chi osteggiava l’assistenza
proponendo modelli imprenditoriali di libera concorrenza e chi non
vedeva alternative all’assistenza statale per innescare i meccanismi
di sviluppo. La situazione così schematizzata non considera tutta
una serie di situazioni intermedie; anche chi parlava di dipendenza
non poteva negare l’esistenza di un compromesso sempre più forte
tra classe imprenditoriale settentrionale e ceti emergenti del
Meridione. Inoltre, altre chiavi di lettura erano l’esistenza di forti
fattori condizionanti quali la criminalità e l’inefficienza dei servizi
pubblici e c’era anche chi proponeva nuove forme di assistenza
basate sull’infrastrutturazione piuttosto che sull’industria.
Tra le cause di arretratezza si era palesata, quindi, la scarsa
presenza di imprenditori locali capaci di guidare lo sviluppo, unita
alla mancanza della propensione all’internazionalizzazione e
all’innovazione tecnologica che hanno reso sfavorevoli le
condizioni di investimento in queste zone. Nel corso degli anni,
nella società meridionale si è, quindi, formata una classe di
imprenditori che, grazie all’alta burocrazia, agli appalti e alle
forniture pubbliche e al connubio con la borghesia professionale e
intellettuale, oltre che ai legami politici, hanno acquisito ruoli di
guida negli ambiti decisionali.
8
Come vedremo, verso la fine degli anni Ottanta il sistema della
spesa pubblica andò in crisi, e il flusso verso le zone terremotate
s’interruppe, anche a causa di polemiche giornalistiche
(L’Irpiniagate) e della pressione di nuovi movimenti politici ( la
Lega Lombarda e le altre leghe). Anche la ricostruzione post-
terremoto conobbe i cambiamenti repentini che all’inizio degli anni
Novanta avvennero in Italia, e il mutamento coinvolgeva
direttamente i metodi e le forme di intervento per la stessa
ricostruzione e pose la necessità di rielaborare le modalità di
intervento cambiando le responsabilità di Regioni, Province e
Comuni, visto che anche l’avvicinarsi dell’ingresso nell’Unione
Europea esigeva dei cambiamenti di paradigma. Infatti, il vincolo
posto dall’Europa, all’interno delle politiche di coesione ( cioè il
sostegno ad aree depresse del contesto europeo), era quello di
creare dinamiche economiche non assistite ma volte a sviluppare
progettualità nel rispetto di regole rigorose. Alcuni governi, nel
corso degli anni ’90, introdussero i contratti d’area e i patti
territoriali in armonia con questo tipo di politiche comunitarie. Il
dibattito sul Mezzogiorno si è fatto, inoltre, ancora più ricco di
spunti con l’avvento della globalizzazione e con la creazione di
nuove regole sul mercato mondiale.
Tra gli altri elementi peculiari individuati c’è la forte importanza,
per le zone terremotate, del ricorso alla Pubblica Amministrazione
e all’impiego statale per sopperire alla mancanza d’occupazione.
Questa caratteristica, preesistente al terremoto, ha mantenuto le sue
forme e il suo stretto collegamento con la pratica clientelare, di cui
è figlia questa anomalia. Anche le ingerenze dirette tra sfera
pubblica e interessi privati è stata analizzata in tutte le sue
manifestazioni, cercando di capire i percorsi specifici di influenza
di singoli personaggi che, in ambiti decisionali pubblici,
perpetravano interessi privati. Anche i meccanismi politici si sono
modificati a causa del terremoto e molti protagonisti della vita
politica irpina assunsero ruoli di importanza nazionale in questi
9
anni e negli anni seguenti, con le relative conseguenze ( non solo
positive).
Tra gli elementi di ovvio condizionamento del lavoro c’è da
considerare il diretto coinvolgimento dello scrivente nei fatti
trattati, che sicuramente ha condizionato in qualche modo le analisi
e i giudizi. Del resto, tutti i giudizi storici, o quelli come il mio che
hanno pretesa di esserlo, e in particolare quelli contemporanei,
sono soggetti a condizionamenti che ne intaccano l’imparzialità.
Spero di essere riuscito a limitare al massimo i giudizi di parte.
Mi auguro che questo lavoro offra uno stimolo importante a
considerare la realtà esistente in Irpinia oggi alla luce di tutti i
fenomeni di cui ho parlato, perché l’analisi storica dell’esistente è
sicuramente la migliore premessa all’azione sul territorio e
all’ottimale realizzazione di interventi proficui.
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CAPITOLO 1
Il terremoto e l’emergenza
1) La sera del 23 novembre 1980; l’Irpinia prima del
terremoto.
Nei racconti sentiti molte volte e da tante voci diverse, comprese le fonti
scritte che hanno narrato di quella sera di novembre che sconvolse la vita di
molte persone, c’è un elemento ricorrente, un elemento climatico. Tutti i
racconti descrivono la giornata del 23 novembre, una domenica, facendo
riferimento alla mitezza dell’aria novembrina, un’eccezione concessa di
rado in una zona di montagna come l’Irpinia. Quella calma dell’aria veniva
sovente associata, in questi racconti, ad un presagio di sventura, un ribollire
delle viscere della terra che nascondevano qualcosa. La forza con cui la terra
tremò alle 19 e 34 del 23 novembre 1980 fece sì che quel presagio di
sventura si tramutasse in realtà. La scossa raggiunse un’ intensità tra il
decimo e l’undicesimo grado della scala Mercalli, i morti furono 2.735, i
feriti 8.850 e circa 400.000 i senzatetto.
L’Irpinia è una zona in cui i terremoti nella storia si sono susseguiti con
scansione cronologica fatalmente puntuale. Nel Novecento erano già stati
due i terremoti, uno nel 1930 e l’altro nel 1962. Nessuno di questi, però,
aveva assunto le dimensioni con cui si presentò nel 1980. Il danno fu
ampliato dalle condizioni fatiscenti delle abitazioni, case in pietra nei centri
abitati e abitazioni rurali alquanto povere per gli alloggi dei contadini.
Partendo da questi presupposti, ci possiamo rendere conto di come siano
stati deboli e di facciata i provvedimenti che lo stato repubblicano ha messo
a punto per queste zone e per tutto il Mezzogiorno in tutti gli anni che
anticiparono il 1980. L’alto pericolo sismico e due terremoti a distanza di
poco più di trent’anni non avevano permesso all’Irpinia e alla Basilicata del
Nord di avere diritto a provvedimenti tali da rendere le case adatte a
resistere ai terremoti.
11
Oltre ad essere soggetta a fenomeni sismici, l’Irpinia era una delle zone
arretrate del Mezzogiorno in cui erano dominanti l’agricoltura e
l’allevamento. Di tutti i fondi per lo sviluppo industriale che erano stati
sborsati copiosamente dalla Cassa per il Mezzogiorno, in queste terre erano
arrivate soltanto le briciole, e tutte le iniziative di sviluppo passavano
attraverso le lotte di potere che coinvolgevano i rappresentanti locali nelle
istituzioni nazionali e regionali. Le scadenze elettorali erano l’occasione per
promettere nuove strade e nuovi insediamenti industriali, e prevedevano la
distribuzione di appalti e posti di lavoro a chi aveva assicurato l’elezione del
politico di turno. In questo schema, che qui è per forza di cose ridotto
semplificazione, rientravano anche la concessione dei contributi
previdenziali, i posti di lavoro presso gli enti pubblici, la sanità e altro
ancora.
Tutto era gestito attraverso un’organizzazione piramidale che partiva dai
politici di riferimento nazionale e dai rispettivi partiti, passava attraverso
galoppini, amministratori locali e grandi elettori e arrivava all’elettorato di
massa
1
. Se capovolgiamo l’angolo di osservazione e guardiamo la realtà
attraverso gli occhi della gente delle classi sociali più povere, vedremo che
la condotta di vita era all’insegna della sussistenza ed era grande la
lontananza dai meccanismi di decisione politica e amministrativa, anche se
in occasione delle scadenze elettorali arrivava il referente di partito o chi
poteva elargire il “favore” a indicare il nome da scrivere o il simbolo su cui
“tracciare la croce”. Nel caso in cui le famiglie della povera gente avevano
un figlio in attesa di occupazione, la scelta ricadeva nell’emigrazione o nel
pellegrinaggio dal potente di turno attraverso la catena delle conoscenze.
Il quadro sin qui definito, però, non ha solo aspetti negativi; secondo
un’analisi condotta dall’illustre studioso meridionalista Manlio Rossi Doria
e da un gruppo di studiosi e tecnici del Centro per le ricerche economico–
agrarie di Portici dell’Università di Napoli, i soldi degli emigranti e le
pensioni sociali avevano favorito in queste zone lo sviluppo dell’agricoltura,
1
L. Graziano, Clientelismo e mutamento politico, Franco Angeli editore, Milano 1990, pag.
313.
12
di attività terziarie e anche di piccole industrie sommerse
2
. Inoltre, in questi
studi veniva evidenziato che, sempre in queste zone, vi era la minore
estensione di terre incolte e abbandonate rispetto a qualsiasi altra zona
collinare e montana d’Italia e d’Europa
3
. Questi dati, se presi con la giusta
considerazione, sarebbero stati molto utili per effettuare la programmazione
degli interventi post-terremoto, sia in fase d’emergenza che in fase di
ricostruzione. Infatti, anche le conseguenze del terremoto nelle zone rurali
furono diverse, rispetto alla situazione nei centri abitati. La perdita dei capi
bovini fu appena del 5% e su 10 mila case rurali quelle da ricostruire
interamente erano circa mille
4
.
Una panoramica chiara sulla situazione dell’Irpinia prima del sisma è
delineata in questo articolo scritto due giorni dopo il sisma dall’allora
segretario regionale del Pci, Antonio Bassolino, oggi presidente della
Regione Campania.
Irpinia: una provincia di 420 mila abitanti, con 120
comuni colpiti sparsi su un immenso territorio. Molti di essi distano ore
da Avellino, la città capoluogo. E’ una terra singolare, bella, ricca di un
verde rigoglioso nelle zone che confinano con Napoli e con Salerno, ma
aspra e stretta tra le montagne nelle parti più interne, ai limiti con la
Lucania e con la Puglia. L’Irpinia è ancora oggi la provincia più povera
d’Italia, malgrado la Fiat di Grottaminarda e altre piccole e medie
fabbriche insediate attorno alla città. Il reddito pro-capite è il più basso
del paese; un terzo di quello di chi vive a Torino o a Milano. Chi non
conosce i piccoli comuni di collina e di montagna, la fatica e l’ostinata
sofferenza del contadino nel trasformare la terra e renderla produttiva,
non conosce una delle anime dell’Italia. In Irpinia, come in Lucania o in
Calabria, anche le parole hanno un loro suono, un diverso significato.
Cosa vuol dire crisi per il contadino o per il giovane delle aree interne?
Vuol dire che la crisi attuale fa tanto più male perché acutizza una crisi
antica. Dall’inizio del secolo una popolazione pari all’attuale provincia di
2
Università di Napoli, Centro di specializzazione e ricerche economiche–agrarie di Portici,
Situazione, problemi e prospettive dell’area più colpita dal terremoto del 23/11/1980,
Einaudi, Torino, 1981 ( a cura di Manlio Rossi Doria).
3
Ivi.
4
G. Russo - C. Stajano, Terremoto, Garzanti, Milano, 1981.
13
Avellino è stata espulsa fuori dai suoi contrafforti montuosi, dalle sue
valli, dalle sue pianure. Un’altra provincia, fatta di braccianti e di
contadini poveri, “trapiantata” e frantumata in modi diversi e lontani.
Un’emigrazione biblica che ha disperso e ucciso un patrimonio di cultura,
di idee, di civiltà, di storie costruite da intere generazioni di uomini e di
donne.
Io sono napoletano, ma in Irpinia ho speso cinque anni della mia milizia
politica, girando, giorno per giorno, per i tanti comuni e la miriade di
frazioni, per cittadine, che già nei secoli scorsi erano, con i loro licei,
piccole “capitali” di cultura, orgogliose della loro identità e civiltà tanto
da far fiorire una ricca letteratura di storie locali. Ho visto la tensione
culturale e la passione politica che anima la patria di Francesco De
Sanctis e di Guido Dorso. Una provincia colta e povera, da sempre
abbandonata dalle classi dominanti, vista come una colonia, “una riserva
indiana”, al più un’area da assistere. Da sempre – perché non dirlo? –
ignorata dai potenti mezzi d’informazione usi a raccontare gli intrighi di
vertice, le cronache dei “palazzi” anziché le vicende vere di uomini in
carme ed ossa.
Alle nefandezze e all’ignominia dei governanti si sono aggiunte, a cicli
terribili, le ingiurie della natura. Il terremoto del 1930, quello del 1962, la
terribile nevicata di qualche anno fa che per giorni interminabili isolò i
comuni, troncò l’esistenza di vecchi e contadini. Adesso, questo
catastrofico terremoto, che non ha purtroppo termini di confronto con il
passato. In alcuni comuni la furia della natura si è abbattuta sulle baracche
costruite dopo il 1930. E’ una sciagura che lascia atterriti
5
.
5
L’Unità, 25 novembre 1980, articolo di Antonio Bassolino, “Il grido di una terra povera,
colta, ingannata”, pag. 2.
14
2) Racconti, testimonianze e interviste sul 23 novembre
Molti e vari sono i frammenti sparsi che contribuiscono a ricostruire il
mosaico di impressioni e ricordi riguardo i 90 secondi di terrore che
sconvolsero l’Irpinia e ampie zone della Basilicata fino ad arrivare a Napoli
e Salerno. La cronaca del terremoto è fatta dei racconti di chi quei minuti li
ha vissuti, tra lamenti di moribondi, muri che crollavano, polvere e buio. I
morti, i feriti e le persone intrappolate sotto le macerie erano il segno
tangibile e senza appello della ferocia del sisma. Il dopo terremoto, quello
raccontato da varie fonti, giornalistiche e non, è fatto di tanti drammi, alcuni
più simbolici, altri più nascosti. Il crollo dell’ospedale di S. Angelo dei
Lombardi, aperto da appena un anno, la Chiesa di Balvano che crolla
imprigionando decine e decine di fedeli in preghiera, le palazzine della
speculazione edilizia che si sbriciolano in un batter d’occhio, il crollo della
torre con l’orologio, simbolo della città di Avellino, le visite di Pertini e di
papa Woityla, sono tutte immagini usate per narrare la violenza con cui si
era manifestato il terremoto.
Ho cercato di selezionare dei racconti che potessero chiarire alcuni aspetti
della sera del 23 novembre; ne escono comunque pochi scorci, data la
vastità dell’area colpita e il numero di persone coinvolte.
2.1) Una casalinga
Quella domenica sera ero in casa, accanto al camino, e lavoravo
all’uncinetto. La casa dove vivevo con due figli, un ragazzo di 15,
Gianfranco e una ragazza di 13 anni, Teresa, era una costruzione abbastanza
precaria, costruita molti anni prima e situata nella parte centrale di Teora. Il
pomeriggio lo avevo passato in campagna. Nel tardo pomeriggio ero andata
a richiamare Teresa in piazza per riportala a casa, visto che aveva da fare i
compiti e tardava a rientrare. Era una cosa che non avevo mai fatto prima.
Però un’amica di Teresa la venne a chiamare nuovamente e lei uscì per
un’altra passeggiata per le vie del paese.
15
A un certo punto iniziò a tremare la terra: tentai di scappare, ma rimasi
imprigionata nel crollo delle mura e di quei secondi ricordo solo il buio.
Fortunatamente un vicino di casa riuscì a liberarmi dalla morsa delle pietre e
raggiunsi gli altri sopravvissuti nella piazza di Teora, dove fui anche
medicata per la vistosa ferita alla fronte che avevo riportato. Intanto
incontrai mio figlio, che era rimasto illeso. Il mattino seguente mi
incamminai verso casa, alla ricerca di Teresa, ma il parroco mi fermò
chiedendomi dove stessi andando. Gli risposi che andavo a cercare mia
figlia. Mi rispose che era inutile perché Teresa era morta, schiacciata dal
crollo di un balcone lungo il corso, nei pressi del forno. Fui trasportata
all’ospedale di Oliveto Citra per ulteriori medicazioni, ma volevo tornare a
Teora per poter vedere il corpo di mia figlia. Dopo pochi giorni giunse mio
genero, che viveva con mia figlia e un bimbo di sei mesi in Svizzera, e con
lui partii alla volta della Svizzera dove trascorsi circa un mese e dove mi
prestarono altre cure per la ferita che mi aveva aperto la fronte. Ma la ferita
più grave era un’altra, era la perdita di mia figlia. Nel mese di gennaio,
tornata a Teora, andai a cercare il posto dove era stata seppellita Teresa. Era
all’esterno del cimitero, poiché i cadaveri erano stati distribuiti tra l’interno
e l’esterno. Ricordo quel giorno di gennaio, sotto la neve, in cui con pochi
operai demmo una sepoltura degna al corpo di Teresa
6
.
6
Testimonianza di Giovanna Ciccone, 68 anni, casalinga di Teora (Av).
16
2.2) Un medico
Ero uscito dal bar dove una ventina di persone stava guardando alla TV
l’incontro Juventus-Inter. Un attimo dopo il bar non c’era più. Ho lavorato
tutta la notte, via un ferito, via un altro, il mio primo intervento è stato un
mio caro amico, Antonio De Rogatis, ho tentato la respirazione bocca a
bocca, ho fatto tutto quello che si poteva fare; ma era stato colpito
violentemente alla testa, capiva che era la fine.
Medicavo dove potevo, sui pullmann, nelle macchine, al campo sportivo. Si
trattava soprattutto di fermare le emorragie. Ma è vero che i feriti gravi
erano pochi.
7
2.3) Un volontario
Appena iniziarono a giungere le prime notizie e si era capito che Teora era
tra i paesi colpiti, subito organizzammo il viaggio per cercare di andare a
rendersi conto di persona della situazione, visto che a Teora avevamo casa e
parenti. Il viaggio, all’alba del 24 novembre, si dimostrò agevole sino a
Conza della Campania, dove nella strada che conduceva verso gli altri paesi
dell’Alta Irpinia, seguendo a ritroso il corso del fiume Ofanto, aveva ceduto
parzialmente un ponte. Il terreno era sfalsato e si poteva superare l’ostacolo
solo con le automobili facendole passare lentamente su due assi di legno.
L’arrivo a Teora si dimostrò più scioccante del previsto: lasciata
l’autovettura all’inizio del paese si trovava quasi subito lo spiazzo di largo
Tarantino colmo di gente, davanti la Chiesa di San Vito. Oltre ai teoresi
sopravvissuti vi erano pochissime altre persone, quasi tutti teoresi che
abitavano non troppo lontano ed erano accorsi per cercare i parenti e dare
una mano. Solo una pattuglia dell’esercito arrivò ben presto, perché capitata
per caso sui luoghi dl disastro, ma i mezzi in loro possesso non
permettevano di risolvere i problemi e iniziare a scavare per tentare di
salvare chi era rimasto intrappolato tra le macerie. Le strade che facevano da
assi portanti del paese erano impraticabili perché coperte di macerie, e solo
7
Racconto del medico condotto di Teora , il dottor Gaetano Vitale. Tratto da “Il Corriere
della Sera”, 29 novembre 1980, articolo di Ettore Mo, pag. 3.
17
con estrema cautela si poteva cercare di attraversarle; la parte superiore del
paese, dove tra l’altro abitavano i nostri parenti, era quella ridotta peggio: la
notizia della morte di tre cari fu la prima che ricevemmo arrivati nei pressi
delle abitazioni a noi note, abitazioni scomparse che avevano lasciato
spazio solo a macerie. Con l’aiuto di pochi altri riuscimmo a trasportare il
cadavere di zia Caterina nella verso la parte più alta di Teora, la zona del
Calvario, dove si radunavano i cadaveri che era più difficile portare nella
cappella di San Vito, dove invece venivano raccolti gli altri cadaveri. Qui
toccò al parroco, nei giorni seguenti, procedere tra le lacrime alla triste
cerimonia del riconoscimento delle vittime. Poi, nella giornata del 24
prendemmo con noi Nonna Pasqualina e tornammo a Foggia.
Nel giro di qualche giorno riuscimmo ad ottenere dalla parrocchia un
pulmino per portare soccorso alle zone terremotate e, con l’aiuto di altri
volontari, tutti più grandi di me (all’epoca avevo 19 anni), partimmo alla
volta di Teora, dove installammo alcune tende e una cucina da campo.
Quello che ricordo di quei giorni sono tanti frammenti, quasi tutti
drammatici; per esempio il forte odore di disinfettante, misto alla puzza dei
cadaveri ancora presente; le file lunghissime davanti all’unico telefono
installato con qualche difficoltà alcuni giorni dopo il sisma e posto vicino
alle tende, nel campo sportivo, in cui si alternavano per telefonare i
terremotati, gli emigrati che prestavano soccorso, i volontari e i militari.
Ricordo che nei giorni trascorsi a Teora parlai pochissimo, intontito dalla
situazione surreale ma allo stesso tempo tragica; cercai di concentrare le
energie nel lavoro manuale che era necessario. Ricordo i tanti volontari che
lavoravano senza sosta e senza dubbio il loro aiuto fu importante, anche se
in qualche occasione scoordinato. Tra le forze dello Stato i più efficienti
erano i Vigili del Fuoco, dotati di uomini preparati e mezzi sufficienti,
mentre l’esercito e altri a volte non avevano né pale, né picconi, né altri
strumenti per scavare tra le macerie. Fu un esperienza che rimarrà marcata a
fuoco nella memoria
8
.
8
Testimonianza rilasciata da Luigi Chirico, originario di Teora, all’epoca del terremoto
residente a Foggia e studente al primo anno di Ingegneria presso l’Università di Bari.
18
2.4) Un giornalista
In quel periodo ero il responsabile di un settimanale, “Cronache di Potenza”,
che è uscito per diversi anni. Domenica 23 novembre ero in redazione, in un
piccolo appartamento di Porta Salza. Tutto ha cominciato a ballare; non
avevo ancora realizzato che potesse trattarsi del terremoto fino a quando una
gigantografia di Mirò, posta sulla parete di fronte a me, piombò sul
pavimento. Non ebbi il tempo di pensare, così mi catapultai giù per le scale
in pietra, ripide, difficilissime da praticare. Le strette pareti sembra
volessero schiacciarmi. Ero terrorizzato. Aprii la porta d’ingresso, di fronte
a me la chiesa di Santa Lucia e una macchina, una Giulia color verde,
parcheggiata proprio davanti al suo ingresso. La scena fu allucinante. Il
palazzo di rimpetto la chiesa venne giù con un frastuono inverosimile e
sommerse letteralmente una macchina. Incredibilmente si accesero i fari
della vettura e io pensai che all’interno ci potesse essere qualcuno. Rimasi
impietrito. Deglutii a fatica. Alcune pietre catapultarono sulle mie scarpe:
istintivamente rientrai e chiusi la porta, mi feci il segno della croce e rimasi
immobile per qualche istante. Fu un’eternità. Non so perché ebbi la brillante
idea di risalire “semplicemente” per prendere l’autoradio e spegnere le
luci…in quei momenti il cervello è completamente in tilt! Respirai
profondamente, riacquistai lucidità e corsi a verificare le condizioni dei miei
cari. Ero angosciato dal pensiero di quello che avrei potuto trovare. C’erano
tutti, grazie al cielo. Mancava all’appello mio figlio più grande, il quale era
scappato via per trovare rifugio sotto un arco sicuro. Dovevo portare al
sicuro la mia famiglia e così trovammo ricovero nella casa di campagna di
un amico. A quel punto sentii il dovere di andare in Rai, attaccarmi al
telefono, impugnare il microfono della radio e comunicare all’Italia il
terribile evento. Lavorai tutta la notte al ritmo delle scosse di assestamento.
La stanza da cui trasmettevo era senza finestre. Se durante la scossa si fosse
bloccata la porta non avrei avuto via d’uscita, ma cercavo di non pensarci.
Il lavoro fatto in radio si è rivelato prezioso, fondamentale: fummo gli unici
ad avere garanzia della funzionalità delle linee telefoniche e per questo
fungemmo da ponte tra tutte le zone colpite in regione e gli aiuti provenienti