4
L’approfondimento della struttura dell’indice de Le città invisibili assume il
valore di un’esemplificazione del rapporto ontologico-conoscitivo che si instaura tra
natura come unità trascendentalmente strutturata e natura come molteplicità dispersa.
La natura, sotto questa prospettiva, introduce al tema della visione: si cerca di
dimostrare l’essenza ricorsiva dei procedimenti visivi, ripetizione della dialettica
immanente alla natura. Il movimento della visione procede dagli oggetti irrelati alla rete
connettiva; se ne ricava l’impossibilità e insufficienza di ciascun tipo di esperienza.
La visione può tuttavia essere organizzata attraverso le “mappe”: si
approfondisce allora la possibilità dell’organizzazione del visibile, e del pensabile, in
mappe. Si pone il problema delle iper-mappe, relative alle iper-strutture: si cercherà di
dimostrare come questa sia un’esigenza radicalmente interdetta.
Dalle iper-mappe possiamo muovere alla teoria dei mondi possibili: i possibili
come traccia della fuga autotrascendentale delle iper-strutture.
La teoria dei mondi possibili si basa su funzioni semiotiche, le quali
soggiacciono alla dinamica stessa dei mondi possibili: fra queste funzioni, particolare
importanza va annessa, a nostro parere, all’abduzione, alla semiosi illimitata,
all’iconismo.
Un’esemplare espressione narrativa del problema delle mappe e dell’iper-
mappatura : Il Conte di Montecristo.
In questo racconto si introduce il tema dei paradossi temporali dei mondi
possibili; questa questione porta con sé quella relativa al valore etico della temporalità
peculiare ai mondi possibili.
In conclusione si è tentato di rileggere il rapporto tra olismo e riduzionismo,
ovvero tra molteplicità e rete trascendentale, come conseguenza, o riscrittura, del
paradosso sulla molteplicità formulato da Zenone d’Elea.
5
Riteniamo che Se una notte d’inverno un viaggiatore sia la più conseguente e
rigorosa modellizzazione letteraria del paradosso di Zenone. A proposito di quest’opera
abbiamo posto il problema della verità e della referenza indicizzata.
La posizione di questo problema ha richiesto l’introduzione dell’ulteriore
questione relativa ai paradossi della referenza indicizzata in spazi conoscitivi
ricorsivamente incassati. Da questo abbiamo preso le mosse per introdurre il tema del
rapporto tra referenza e metareferenza, particolarmente riguardo all’opera in questione.
6
INTRODUZIONE.
Abbiamo cercato, in questo lavoro, di sondare o, per usare un termine che
ricorrerà frequentemente in queste pagine, di mappare le direzioni secondo cui si
dispone il rapporto che unisce Italo Calvino alla riflessione filosofica. Il problema si
può affrontare da due prospettive non esclusive – anzi, per più versi, intrecciate: l’una
che ritrova nella coscienza filosofica di Calvino la presenza di elementi derivati, quasi
inequivocabilmente, da pensatori ben identificabili. In questo senso sono stati evocati i
nomi di Leonardo, Giordano Bruno, Wittgenstein, ma anche Anassimandro, Parmenide,
Husserl. L’altra direzione possibile è quella di ricercare in Calvino la presenza di una
vera e propria ontologia, strutturata attraverso l’autonoma riflessione su temi filosofici
fondamentali. Abbiamo tentato allora di “fare il punto” sulla determinazione che in
Calvino ricevono temi come la verità, il tempo, l’oggetto, la natura, la conoscenza.
Non abbiamo voluto scindere, in questa investigazione, l’interesse di Calvino
per la filosofia (o, meglio, per il “filosofico”) secondo aree precise – epistemologia,
etica, teoria della conoscenza, teoria estetica dell’opera letteraria -, bensì abbiamo
classificato l’intero corpus di riflessioni calviniane come ontologia. Abbiamo dunque
tentato, come Calvino avrebbe probabilmente ritenuto proficuo, una visione “olistica”
della speculazione dello scrittore ligure, ritenendo che l’universalità che un progetto
ontologico richiede includa conseguenze etiche, gnoseologiche, e, perché no, estetiche.
L’assunto da cui siamo partiti è stato dunque quello che, sotto la limpidezza
mercuriale riconosciuta allo stile di Calvino, e sotto il falso doppiofondo delle
“maschere semiotiche”, si agiti un turbinoso calderone di temi fondamentali, che
costituiscono il nucleo effettivo delle sue opere. In questi temi si esprime sia, come
detto, una visione del mondo coerente e, sicuramente, originale, sia, anche, una
revisione metaculturale delle teorie cardine e delle schematizzazioni concettuali che la
7
cultura occidentale ha consegnato all’uomo moderno per inquadrare il mondo
1
. Per
questo, per l’esigenza di ridescrivere criticamente questa concettualizzazione e per poter
eventualmente riattivare, in accordo alle linee guida della sua poetica del “possibile”, le
posizioni che essa ha escluso da sé (una per tutte, l’idea di universo di Bruno), la
“parola sul mondo” di cui Calvino si fa portatore è anche, spesso, e spesso in modo
indistricabile, “parola sulla parola sul mondo”.
Allo stesso tempo, sempre in accordo alla poetica di Calvino per cui le
posizioni non si escludono, ma si richiamano, in una tensione perennemente dialettica,
che è necessario lasciare aperta, non abbiamo ritenuto né giusto né utile abbandonare la
ricerca sulla “coscienza semiotica” che Calvino dissemina nelle opere che abbiamo
preso in considerazione (le opere, cioè, degli anni settanta e ottanta). Semplicemente,
abbiamo ritenuto che la riflessione semiotica, lungi dall’esaurirsi in se stessa, offrisse a
Calvino degli strumenti, delle suggestioni, particolarmente adatte a strutturare la
speculazione ontologica che accompagna la sua produzione. Si capisce allora perché i
rapporti di Calvino con la semiotica (particolarmente significativo è quello con la
semiotica di Peirce, ma abbiamo considerato le sue relazioni con Barthes, Quillian, e, in
generale, come già per la filosofia, con concetti semiotici generali, come ad esempio
l’abduzione, l’iconismo, la ricorsività
2
linguistica), siano chiamati, in questo lavoro,
1
Calvino vuole liberarsi della “scrittura” concettuale che si è sostituita alle “cose”, vuole imparare a
vedere con nuovi occhi: su questo punto torneremo più avanti. Per ora si consideri questo passaggio:
«Cosa leggi? – Niente. Mi sono abituato così bene a non leggere che non leggo neanche quello che mi
capita sotto gli occhi per caso. Non è facile: ci insegnano a leggere da bambini e per tutta la vita si resta
schiavi di tutta la roba scritta che ci buttano sotto gli occhi. Forse ho fatto un certo sforzo anch’io, i primi
tempi, per imparare a non leggere, ma adesso mi viene proprio naturale. Il segreto è non rifiutarsi di
guardare le parole scritte, anzi, bisogna guardarle intensamente fino a che scompaiono», I. CALVINO, Se
una notte d’inverno un viaggiatore, Milano, Mondadori, 1999, p. 55.
2
In questo lavoro useremo frequentemente il termine “ricorsività”; consapevoli del fatto che definire la
ricorsività implicherebbe, oltre ad un riferimento ai diversi ambiti a cui questo concetto si applica (ambito
linguistico, musicale, matematico, figurativo), una spiegazione del teorema di Incompletezza di Gödel, e,
dunque, una complessa discussione matematica, ogniqualvolta faremo riferimento al concetto di
ricorsività, lo faremo tenendo presente questa definizione: «Che cos’è la ricorsività? È […] l’annidarsi di
cose entro cose e le sue variazioni. […] Qualche volta la ricorsività apparentemente sfiora il paradosso.
Per esempio vi sono definizioni ricorsive. A prima vista una definizione del genere può dare
l’impressione che una cosa venga definita in termini di se stessa. Si avrebbe perciò una circolarità che
dovrebbe condurre a un regresso all’infinito, se non addirittura a un vero e proprio paradosso. Invece, una
8
“maschere”; essi sono ciò sotto cui vengono dissimulati problemi molto più generali.
Allo stesso modo, le frequenti inserzioni metatestuali sono solo il modo di testimoniare
e duplicare, attraverso l’apertura dell’opera, la disgregazione del mondo, il suo essere
scorporato, e, al contempo, la necessità di chiudere questa moltiplicazione in una forma,
peraltro mai definitiva, globale (è il paradosso di Fedora, di cui ci occuperemo più
avanti).
È chiaro, allora, che il termine “maschera” assume un valore nietzscheano,
indica ciò sotto cui necessariamente si dissimula qualcosa che non è direttamente
oggettivabile, qualcosa che elude la definizione. Il ricorso alla semiotica consente a
Calvino di collegare piani diversi, di sintetizzare la prospettiva ontologica, quella
narrativa e, ancora, quella metanarrativa. Ciò che sta dietro a questi tre piani è un’unica
figura, un’unità differita in tre figure. Nella sua interezza, questa unità non può essere
espressa, su di essa grava il peso dell’interdizione metalinguistica. Questa figura, che
condivide la natura del cristallo, va ricostruita attraverso la rappresentazione delle
numerose sue facce, lasciando che emerga come sfondo.
Il termine “sfondo” ci guida al riconoscimento dell’idea attorno cui questo
lavoro trova il suo centro di gravità: quella cioè del rapporto figura-sfondo, tema che
compare, nel ‘900, in diverse speculazioni, e in disparati campi disciplinari. Noi lo
abbiamo evocato a proposito dei disegni di Escher e del lavoro di Wittgenstein; se ne
legga un esempio in questo breve passo tratto da Se una notte d’inverno un viaggiatore:
«[…] Perciò questo senso di concretezza che tu hai colto dalle prime righe porta in sé
anche il senso della perdita, la vertigine della dissoluzione; […] pur compiacendoti della
definizione ricorsiva, se è formulata correttamente, non porta mai a un regresso all’infinito o a un
paradosso. Infatti, una definizione ricorsiva non definisce mai una cosa nei termini della cosa stessa, ma
sempre in termini di versioni più semplici della cosa stessa», D. R. HOFSTADTER, Gödel, Escher, Bach:
un’Eterna Ghirlanda Brillante, a cura di L. Trautteur, Milano, Adelphi, 1994, p. 137.
9
precisione di questa scrittura avvertivi a dir la verità che tutto ti sfuggiva tra le dita
[…]»
3
.
Riteniamo che Calvino colga in tutta la sua perspicuità e in tutte le sue
conseguenze teoriche questo tema e ne faccia, perlomeno relativamente alla produzione
di cui ci siamo occupati, il centro cui tutto può essere ricondotto. Vi è rapporto figura-
sfondo nella dialettica tra appercezione trascendentale della natura e visione sensibile
della natura stessa; vi è rapporto figura-sfondo tra opera e mondo; tra svolgimento
narrativo dell’opera (sempre tematico) e biforcazioni narrative possibili. Vi è rapporto
figura-sfondo tra la forma logica sovrapposta alla natura e la creatività aperta che ad
essa appartiene
4
; questo stesso rapporto, una volta trasferito nell’opera, assume la forma
di un’alternanza tra opera chiusa e aperta, cioè tra lo svolgimento che l’opera
necessariamente riceve e quell’insieme di spazi narrativi possibili che l’opera è
chiamata a rendere continuamente attuali.
Insomma, il rapporto figura-sfondo consente a Calvino di fornire un’immagine
ricorsiva, e questo è forse il tratto saliente della sua ontologia, della natura; di più, gli
consente di moltiplicare e duplicare questo rapporto in una serie di microcosmi
virtualmente indefinita, saldando dunque il cosmo in tutte le sue parti. In questo mondo
di rispecchiamenti “analogici”, come nell’universo di Bruno, tutto viene a trovarsi in
tutto. Questo è il motivo per cui è allo stesso tempo così facile, e così difficile parlare
dell’opera di Calvino: se è vero che tutto sfuma in tutto, che i salti di piano non sono
netti, così che, ottenuta la chiave d’accesso a uno di questi piani è possibile estenderla
agli altri, è molto difficile stabilire dove l’uno cominci e l’altro finisca, e, dunque,
identificare il punto in cui trovare l’accesso desiderato.
3
I. CALVINO, Se una notte d’inverno un viaggiatore, p. 41.
4
«La tettoia di lamiera risuonava come un tamburo sotto gli scrosci; l’anemometro vorticava;
quell’universo tutto schianti e sbalzi era traducibile in cifre da incolonnare nel mio registro; una calma
sovrana presiedeva alla trama dei cataclismi», I. CALVINO, Se una notte d’inverno un viaggiatore, p. 77.
10
Quello che si è cercato di fare è stato seguire Calvino in questa sua visione,
senza procedere per divisioni e per schemi, lasciando che continuamente affiorasse il
rapporto figura-sfondo fra le diverse componenti della sua opera; si è cercato pertanto di
alternare la testimonianza letteraria con la riflessione metaletteraria con cui Calvino
accompagnava le sue opere (fondamentali sono state le Lezioni americane), lasciando
che si influenzassero a vicenda. Non abbiamo tentato di isolare la “forma” dal
“contenuto” (ci sia perdonata la generalità dei termini), ma abbiamo lasciato che si
richiamassero, che l’uno prendesse il sopravvento sull’altro per esserne di nuovo
scavalcato
5
. L’unico criterio che abbiamo seguito è stato quello di delineare in primo
luogo una visione coerente dell’ontologia calviniana, mettendoci così in grado, in
seguito, considerare l’apparato formale che Calvino dispiega, non fine a se stesso, ma
necessario a tradurre linguisticamente quella precisa visione del mondo. D’altronde,
analizzare la struttura formale delle opere calviniane si è dimostrato impossibile senza
arricchire con questo la comprensione delle linee guida del suo progetto filosofico.
Concludendo, abbiamo la consapevolezza di aver limitato il numero dei
problemi, e, che, in accordo alle stesse idee di Calvino, ci accorgiamo che è impossibile
racchiudere una fonte di senso come può essere un corpus letterario all’interno di un
unico schema concettuale, senza che questa stessa fonte si ribelli e mostri la propria
eccedenza rispetto alla propria definizione. Riteniamo comunque che la lettura di
Calvino alla luce dei due concetti guida di ricorsività e di rapporto figura-sfondo sia
5
«Per di più, la sua traduzione orale il professor Uzzi-Tuzii l’aveva cominciata come se non fosse ben
sicuro di far stare le parole una con l’altra, ritornando su ogni periodo per ravviarne le spettinature
sintattiche, manipolando le frasi finché non si sgualcivano completamente, spiegazzandole,
cincischiandole, fermandosi su ogni vocabolo per illustrarne gli usi idiomatici e le connotazioni,
accompagnandosi con gesti avvolgenti come per invitare ad accontentarsi d’equivalenti approssimativi,
interrompendosi per enunciare regole grammaticali, derivazioni etimologiche, citazioni di classici. Ma
quando ti sei convinto che al professore la filologia e l’erudizione stanno più a cuore di ciò che la storia
racconta, t’accorgi che è vero il contrario: quell’involucro accademico serve solo per proteggere quanto il
racconto dice e non dice, un suo afflato interiore sempre lì lì per disperdersi al contatto dell’aria, l’eco
d’un sapere scomparso che si rivela nella penombra e nelle allusioni sottaciute», I. CALVINO, Se una notte
d’inverno un viaggiatore, p. 79.
11
sufficientemente ampia non solo da non escludere altre letture, ma anzi, da renderle
necessarie. Abbiamo insomma cercato di fornire, a nostra volta, una cornice critica
“aperta”, ritenendo fosse la cosa migliore da farsi di fronte ad una delle teorizzazioni
più rigorose della “metafisica del possibile”.
12
-PARTE PRIMA-
IL PROGETTO ONTOLOGICO DI ITALO CALVINO.
13
SEMANTICA DEI TITOLI.
Questo lavoro cerca, come detto, di sondare il rapporto che lega Italo Calvino alla
riflessione filosofica. Non sarà dunque qui in oggetto solamente la relazione
eventualmente intercorrente tra Calvino e una, o più, correnti filosofiche storicamente
individuate, ma si cercherà, piuttosto, di definire il problema se il gioco narrativo di
Calvino, la stessa forma che esso assume, celino o meno la presenza di un’autentica
speculazione ontologica.
Saranno prese in esame, ai fini di questo lavoro, alcune opere, composte tra il
1972 e il 1979, accompagnando comunque la lettura a quel prezioso supporto
(auto)critico, costituito dalle postume Lezioni americane. I testi chiamati in causa
saranno quindi principalmente Le città invisibili, Se una notte d’inverno un viaggiatore,
Il castello dei destini incrociati , ma si estenderà l’analisi anche a Palomar.
Ma, prima di addentrarci in quella che si definisce “analisi dell’opera”, sarà il
caso di soffermarci su una più superficiale “analisi del titolo”. Quel singolare limine che
il titolo di un’opera costituisce è infatti spesso considerato orpello inessenziale, come se
il particolare rispecchiamento tra micro e macrocosmo che esso rappresenta fosse
indifferente ai fini dell’opera. È invece finanche banale sottolineare come il titolo
indirizzi e influenzi costruttivamente l’intentio lectoris nei confronti dell’opera.
Il titolo rivela, nascondendolo, quel medesimo meccanismo soggiacente
all’opera; non è altro che la rivelazione differita di un segreto – il segreto dell’opera
stessa. E, al contempo, il titolo è sottoposto a questo stesso segreto, in un singolare
meccanismo coattivo.
Il primo accesso ad un’opera - e, dunque, anche a quelle in questione – sarà da
individuare proprio nel titolo. Analizzando e scomponendo i titoli che Calvino inventa
per le sue opere qui oggetto di interesse (ad esclusione di Palomar e delle Lezioni
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americane), otteniamo sei termini notevoli, raggruppabili in gruppi di due, più un
settimo termine isolato. I termini sono: città, castello, i due aggettivi invisibili e
incrociati, e notte e inverno; il termine isolato è viaggiatore. Trascuriamo, per ora, la
parola destini.
Possiamo grossolanamente caratterizzare, in primo tempo, la prima coppia
come costituita da indicatori spaziali, l’ultima come formata da indicatori temporali; in
entrambe si realizza un rapporto per cui un elemento contiene l’altro, o, comunque, ne è,
in qualche misura, “multiplo”. Il termine viaggiatore intrattiene relazioni sia col gruppo
città-castello che con quello notte-inverno, essendo evidentemente caratterizzato dal
connotato del movimento attraverso il tempo e lo spazio.
La presenza di questi termini richiede che si proceda ad individuare lo spazio
concettuale che essi proiettano. Prendendo le mosse dal binomio città-castello notiamo
subito che essi rimandano all’idea di uno spazio comune; di uno spazio comune
scandito secondo un ordine. Di più, questo ordine può essere considerato una vera e
propria struttura: città e castello sono dunque, prima di tutto, delle configurazioni
ordinate.
In quanto configurazioni, esse hanno un limite, sono uno spazio chiuso, sono
racchiuse da un recinto. Recinto che segna uno spazio che è anche spazio sacro;
temenos, allora, e siamo così rimandati alla leggendaria fondazione di Roma, alla Città
Proibita, e, perché no, al Castello di Kafka. Subito dunque un rimando ad immagini
archetipe, un’immersione nella cultura.
Alla città, e al castello, appartiene dunque la sacralità: sacralità che non è altro
che la scansione, secondo un ritmo, un ordine e in accordo ad un limite, di uno spazio. Il
che non è diverso dal dire che sacralità e cultura procedono di pari passo; la città è
dunque sacra epifania della cultura, evento, rivelazione, per il tramite di un ordine, del
sacro. E proprio questo la città sembra essere in massimo grado, un evento,
15
un’apparizione, un lembo di certezza strappato all’invisibile. La città e il castello sono
dunque i punti individuati in cui si articola il trascendente.
Al contrario, l’altra coppia di termini costituita dagli aggettivi invisibili-
incrociati, si pone sotto il segno del vago, dello sfumato, dell’indiscernibile. Se
passiamo in rassegna alcuni degli attributi concettuali assegnabili ai termini in oggetto,
vedremo emergere, in primo luogo, la figura dell’indistinzione. Di pari passo con
l’indistinzione, va la sottrazione, sottrazione di presenza, di caratterizzazione, di
individualizzazione. Tutti tratti, questi, attribuibili a ciò che è invisibile e/o incrociato.
Diremo quindi dell’invisibile, come dell’incrociato, che esso è dis-identificato: la dis-
identificazione, ecco una nuova categoria che assomma e completa le precedenti. Ciò
che è dis-identificato è strappato dalla configurazione stabile che lo rende percepibile
come unità: esso risulta destrutturato. L’invisibilità porta dunque con sé una frattura
della struttura, l’infrazione del limite, il valicamento del temenos; alligna in essa la
minaccia della desacralizzazione. Ciò che è infranto è esposto all’aperto, nessun recinto
lo chiude organizzandolo; alla chiusura della città e del castello, l’invisibilità e
l’incrocio sostituiscono l’aperto.
Ciò che è invisibile, o incrociato, è allora puramente possibile; è l’infinito della
possibilità opposto al concluso della città e del castello. L’incrocio, quell’incrocio a cui
si ferma Edipo, è ancora gravido di infinite possibilità: ma una volta accolto dalle mura
di Tebe, una sola sarà la strada di Edipo.
Infine, l’ultima coppia, la coppia notte-inverno, sembra procedere verso l’idea
del buio, della sottrazione di luce, di calore, di vita. Sembra far segno al pericolo, al
disordine, al caos. Un disordine, tuttavia, primigenio, proteiforme, che non ha
conosciuto l’ordine e la sua infrazione, come invece l’hanno conosciuto l’invisibile e
l’incrociato. L’inverno e la notte sono il sole nero, simbolo alchemico della materia, che
si installa nell’assenza provocata dall’inserzione dell’invisibile nell’ordine della città.
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Il viaggiatore, come detto, è colui che attraversa queste figure concettuali e le
connette, ne è il testimone; che sia il fenomenologo-Palomar-Calvino? Ne parleremo più
avanti.
Penso sia utile provvedere una semplice tabella a scopo esemplificativo, in cui
siano riassunti i caratteri elencati più sopra:
Città
Castello
Invisibili
Incrociati
Notte
Inverno
Viaggiatore
Spazio
comune
Ordine
Architettura
Struttura
Recinto
Temenos
Sacralità
Ritmo
Cultura
Evento
Limite
Ripetizione
Indistinzione
Sottrazione
Disidentificazione
Destrutturazione
Abolizione del
temenos
Apertura
Imprevisto
Buio
Pericolo
Sottrazione
Disordine
Movimento
attraverso il
tempo e lo
spazio.
Connettivo
tra la prima e
la terza
coppia.
Tabella 1.
Quello che ci interessa, a questo punto, è intersecare questi elementi, caso mai
dovessero provvedere delle aree semantiche coerenti, tali da gettare luce sulle
fondamenta su cui poggia l’universo di Calvino.
Provando ad unire tra loro in una serie i termini Castello-Invisibilità-Notte,
otteniamo un notevole risultato: entriamo nel campo semantico della magia, della fiaba.
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Questi elementi sono, per esempio, alla base del romanzo cavalleresco medievale, delle
grandi saghe, come della letteratura preromantica e romantica (si pensi, per fare un solo
nome, a Hoffmann). Ma esse rimandano a un altro, ben più importante caposaldo della
tradizione letteraria occidentale: la tradizione, cioè, del Rinascimento italiano, incarnata
esemplarmente dalla figure di Ariosto e Tasso. E questi ultimi sono sicuramente i
riferimenti a cui Calvino desiderava che pervenissimo. Abbiamo dunque un primo
appiglio: Calvino ha voluto metterci sulla strada della magia. Ma siccome ci lascia
intuire la presenza, dietro questo tema, del Rinascimento, il rebus sarà completato solo
se considereremo il rapporto che stringe magia e Rinascimento, o, meglio, se chiariremo
in quale misura il tema della magia rinascimentale poteva agire sul pensiero di Calvino.
Proseguendo nei nostri intrecci disponiamo quest’altra serie: Città-Castello-
Incroci. Possiamo notare che il castello, e la città, non sono altro che una razionale e
pianificata disposizione di incroci. Tradizionalmente, il maestro dell’incrocio è Dedalo,
l’artefice cioè del Labirinto per antonomasia. Calvino vuole allora che indugiamo presso
la figura del Labirinto. Abbiamo ottenuto allora un’ulteriore matrice culturale-
simbolica; ora gli arcani in nostro possesso sono due: la Magia e il Labirinto.
Siamo così indotti, tornando ai titoli, a considerare cosa significhi il legame tra
città e invisibilità e tra castello e destini incrociati, potendo contare ora sulle due figure
di nuova individuazione. Da quanto detto possiamo dedurre che città e castello sono sia
struttura che evento e che in essi si verifica, tramite la doppia attribuzione dei tratti di
invisibilità e di luogo di incrocio, un rapporto tra potenziale ed attuale. Senonchè, anche
il rapporto tra struttura ed evento, che finora abbiamo considerato come parte dello
stesso universo concettuale, può venire letto come legame tra potenziale, aperto, ed
eventualità concreta.