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pinione pubblica a portare ad una svolta epocale dello scenario
politico. La riforma elettorale, approvata in Italia nel 1993 e in
Giappone nel 1995 e condotta su iniziativa di un gruppo di ri-
formisti appartenenti a diversi schieramenti, quindi, ha rappresen-
tato una vittoria per tutti i partiti dell’opposizione, che non a-
vrebbero potuto veder concretizzato un progetto simile se non
attraverso l’accordo con la maggioranza. Infatti, come sostiene
Pio D’Emilia, “la riforma è passata quando si è realizzato un compromes-
so accettabile tra necessità di cambiamento, percepita erga omnes, e soddisfa-
cente garanzia di rielezione, elemento questo fondamentale per ottenere il con-
senso dei politici in carica”.
1
In Giappone, l’opposizione ha tuttavia contribuito al perdura-
re di questa situazione di immutabilità. Non sono mai stati fatti
tentativi seri di cooperazione a livello nazionale, o accordi che
consentissero la formazione di una coalizione di tutti i partiti
dell’opposizione, portandoli a condurre battaglie isolate e per
questo poco efficaci. In realtà, i diversi elementi del variegato pa-
norama politico giapponese, desiderosi di salire al potere, hanno
preferito assumere il ruolo di partner di coalizione del partito Li-
beral Democratico. Basti pensare all’attuale partner di governo, il
Nuovo Kōmeitō, che nonostante le profonde divergenze ideolo-
1
Pio D’Emilia, “Prove Tecniche di Coalizione: Italia e Giappone verso il
Bipolarismo”, Atti del XXV Convegno A.I.Stu.Gia, 2001, pp. 223-255. p.
231.
VII
giche con il LDP, continua ad assicurargli la maggioranza di go-
verno, o al partito Socialista che, dopo una breve esperienza di
associazione al governo, ha riconsegnato il potere nelle mani del
suo storico rivale.
Tuttavia il parallelismo con l’esperienza italiana, ed in partico-
lare la vittoria della coalizione dell’Ulivo di Prodi nel 1996, ha su-
scitato forti entusiasmi nell’allora Presidente del partito Democra-
tico Kan Naoto, che ha creato un apposito gruppo di studio,
l’Uribu Benkyō Kai (ウリブ 勉強会). Nell’ottobre del 1997,
l’allora Presidente del Consiglio Prodi si è recato in Giappone, in-
vitato a dare il suo contributo ad un gruppo che entusia-
sticamente voleva progettare un modello di coalizione sul model-
lo Ulivo che calzasse a pennello con l’opposizione. In occasione
della sua visita, il Presidente del Minshutō, ha affermato: “Quello
che più ci interessa è la capacità di aggregazione che l’Ulivo è riu-
scito ad esprimere. In Giappone, abbiamo una legge elettorale
molto simile a quella italiana, ma siamo ancora molto lontani
dall’idea di creare un’alleanza elettorale e soprattutto trasformarla
poi in un’alleanza di governo.”
2
Questo lavoro è scaturito proprio dall’idea di esaminare questo
progetto. Nonostante il suo successivo abbandono per le difficol-
tà riscontrate a causa dell’estrema frammentazione dell’opposi-
2
Il Manifesto, 24 ottobre 1997.
VIII
zione (soprattutto nell’intercettare il voto del partito Comunista
Giapponese), sono venute alla luce interessanti problematiche che
verranno analizzate nel corso dei capitoli.
Partendo da una panoramica ampia dell’evoluzione dei partiti
prima della Seconda Guerra Mondiale e del tentativo, frustrato
dagli ultranazionalisti, di innestare il parlamentarismo nel gioco
della democrazia, nel primo capitolo sono state analizzate le vi-
cende e gli attori politici che favorirono la nascita del Primo Si-
stema dei Partiti, conosciuto anche come “Sistema del ’55”. Dopo
un lungo periodo caratterizzato da un’estrema instabilità, si passò
ad una fase in cui anche le vicende internazionali giocarono il loro
importante ruolo. Infatti, le Autorità di Occupazione avviarono
una serie di riforme atte a riportare lo stato giapponese in una si-
tuazione di sicurezza economica e stabilità socio-politica. Inoltre,
secondo un progetto che manifesta ancor oggi le sue conseguen-
ze, strinsero legami con i conservatori, ponendo le basi di
quell’alleanza nippo-americana che è attualmente in vigore. Furo-
no proprio i conservatori a beneficiare della forte ripresa econo-
mica post-bellica, e, legando strettamente le loro sorti a quelle
dell’economia, posero molta enfasi sullo sviluppo, incontrando le
aspettative del popolo giapponese. I partiti di sinistra, invece, ba-
sarono molto del loro consenso sulle politiche sociali. Ad esem-
pio, il partito Socialista, che dal 1949 visse fasi alterne, era stretta-
IX
mente legato alla confederazione sindacale della Sōhyō, i cui iscritti
rappresentavano una buona fetta del suo elettorato. Se fino al
1959, tuttavia, lo scenario politico giapponese mostrò buone spe-
ranze di porre le basi di un sistema bipartitico, i partiti dell’oppo-
sizione che avrebbero potuto pesare sull’ago della bilancia del po-
tere non ricevettero abbastanza consensi, anche a causa delle vi-
cissitudini e degli scandali che attraversarono.
Il secondo capitolo, che completa la prima parte, descrive le
ragioni principali che stanno dietro al fallimento dei partiti
dell’opposizione. Dall’osservazione di sondaggi condotti dai prin-
cipali quotidiani giapponesi dell’epoca, si evince che l’immagine di
questi partiti non riuscì a far presa sull’opinione pubblica, a causa
della loro incapacità di assumersi responsabilità di governo e
quindi di proporsi come valida alternativa alla dominazione del
partito Liberal Democratico. Per capire meglio per quale motivo
partiti dell’opposizione come il partito Socialista, il partito Comu-
nista ed il Kōmeitō, nonostante la lunga esperienza, non riescano ad
assumere le redini del comando, ho preferito descriverne in det-
taglio le vicende storiche, che contribuiscono a chiarire le ragioni
del successo o dell’insuccesso di una formazione.
La seconda parte è interamente dedicata all’analisi della coope-
razione elettorale, in ordine cronologico e attraverso grafici
sull’andamento dei voti dei partiti. Questo esame è necessario per
X
comprendere le difficoltà riscontrate dai partiti dell’opposizione
nel mettere in atto cooperazioni a livello nazionale. Il terzo capi-
tolo, infatti, dimostra che a livello locale si sono sempre registrate
forti spinte alla cooperazione. Ad esempio, Socialisti e Comunisti,
nelle elezioni nazionali, spesso si focalizzavano sulla politica este-
ra o su questioni ideologiche che allontanavano i due partiti, ma la
cooperazione nelle elezioni per i governatori poteva ignorare i
conflitti di partito a livello nazionale, concentrando la campagna
su questioni e interessi locali. Questi tentativi di mettere in atto al-
leanze formali a livello locale coinvolsero anche membri del parti-
to Liberal Democratico. Infatti, spesso e soprattutto in presenza
di un candidato ainori (相乗り)
3
, il partito Socialista ha appoggia-
to la candidatura di personaggi che concorrevano sotto la bandie-
ra Liberal Democratica, ma che avevano comunque stretto alle-
anze trasversali, recandogli così un beneficio sostanziale. L’analisi
della cooperazione elettorale tra i partiti procede attraverso la di-
samina delle elezioni del 1971 e del 1980.
Il riallineamento del sostegno elettorale, infatti, aveva incorag-
giato la cooperazione. All’inizio degli anni ’70, ci fu una crescita
del potere elettorale della Sinistra – in particolare dei Comunisti –
e la collaborazione con questi crebbe soprattutto in relazione a
3
Le caratteristiche e le funzioni del candidato ainori sono descritte a pag.
149.
XI
questa svolta; nella seconda metà degli anni ’70, anche i partiti di
Centro avanzarono in campo elettorale, e anche le cooperazioni
centrist-oriented aumentarono la loro importanza. Tuttavia, anche gli
accordi con i partiti di Centro non ebbero buon fine, poiché molti
non erano del tutto convinti che una coalizione di governo
dell’opposizione fosse il miglior percorso per ottenere il potere
politico.
Tuttavia i progetti di cooperazione furono ripresi in vista della
doppia elezione del 1980, in occasione della quale si registrò un
picco nel numero di accordi di cooperazione formale. La più im-
portante tra le svariate ragioni che provocarono questa crescita fu
la firma di una dichiarazione di politica comune e di cooperazione
tra Socialisti e Kōmeitō.
Questa trasformazione rinvigorì la stagnante situazione in cui
versavano i progetti di cooperazione tra partito Socialista e Cen-
tro, che erano rimasti in sospeso dagli anni ’70.
In questa doppia elezione, tuttavia, il LDP assestò un duro
colpo ai partiti dell’opposizione e anche gli estesi sforzi da parte
dei partiti produssero risultati contradditori. La cooperazione, in-
fatti, divenne più difficile a causa della crescente riluttanza da par-
te del CGP a sostenere una parte dei costi della cooperazione e-
lettorale con i Socialisti. I partiti di Centro abbandonarono così il
programma di resistenza, avvicinandosi al LDP.
XII
Le motivazioni di questa sconfitta furono il disaccordo che
vessava l’opposizione e l’alta affluenza alle urne che andò a tutto
vantaggio del LDP. La doppia elezione e la simpatia accordata al
LDP in questo caso (anche a causa della scomparsa del Primo
Ministro Ōhira Masayoshi durante la campagna elettorale, contri-
buì ad aumentare la percentuale dei votanti conservatori. Tutta-
via, l’elezione diede un nuovo vigore a due tendenze comparse al-
la fine degli anni ’70: il movimento verso gli accordi di coopera-
zione a base sindacale (più che partitica) e l’allontanamento dei
Centristi dal partito Socialista in favore del LDP, ma in generale,
l’esperienza dell’elezione del 1980 rese i leader di partito molto
più cauti nei confronti della cooperazione elettorale.
Nella terza parte sono esposte le vicende più recenti che han-
no portato alla prima vera svolta verso il bipolarismo. Il quarto
capitolo illustra il processo politico che ha condotto all’approva-
zione della riforma elettorale del 1995. Di solito, nel panorama
politico di una nazione, i ‘perdenti’ sono coloro che insistono per
il varo delle riforme e, di conseguenza, anche coloro che non so-
no in grado di realizzarle. In Giappone, invece, furono proprio
alcuni membri di una potente fazione all’interno del LDP (quella
Tanaka-Takeshita di cui faceva parte anche Ozawa Ichirō) a rea-
lizzare nel giro di pochi mesi il progetto di riforma elettorale. Va
detto, tuttavia, che l’intento del LDP è stato quello di mettere in
XIII
funzione i collegi uninominali, col fine di acquisire più seggi, ma
non di attuare una riforma che si trasformasse in un veicolo per il
sistema bipartitico. Tuttavia, non avrebbe potuto fare altrimenti,
perché a causa di una serie di scandali che videro coinvolti illustri
esponenti Liberal Democratici, l’opinione pubblica, opportuna-
mente imbeccata da opposizione e mass-media, perorava un
cambiamento che avrebbe diminuito il peso del denaro nella poli-
tica. Va detto che senza l’astuzia di un personaggio come Ozawa
Ichirō, che aveva stretto legami trasversali con molti leader politi-
ci, questo cambiamento epocale probabilmente non avrebbe avu-
to luogo.
Infatti, nel quinto e ultimo capitolo, mi è sembrato doveroso,
al fine di fornire un’immagine più chiara della situazione attuale,
tracciare un quadro delle personalità politiche che in questo mo-
mento hanno il prestigio e l’influenza necessaria per mettere fi-
nalmente in pratica il tanto atteso sistema bipartitico per la piena
realizzazione della democrazia.
1
1. LA NASCITA DEL SISTEMA MONOPARTITICO
1.1 Il movimento dei partiti nell’era prebellica
Il movimento dei partiti in Giappone fu un prodotto ibrido,
nato dall’unione di forze indigene tradizionali e dei molteplici
stimoli provenienti dall’Occidente. Ciascun principio e ideologia
su cui si basavano i partiti moderni derivava in larga parte dal
mondo occidentale, ma la loro struttura organizzativa e il modo
di operare riflettevano pesantemente lo scenario giapponese, sia
passato che presente. L’idea di creare partiti politici su modello
dell’Occidente si concretizzò per la prima volta intorno al 1872,
quasi vent’anni prima che fosse creato un vero governo parla-
mentare. Così i partiti giapponesi, per un lungo periodo, anche se
saltuariamente, operarono al di fuori di un contesto istituzionale.
Questo è solo uno degli esempi del curioso impatto che ebbe la
politica occidentale sullo scenario giapponese. Questo “prestito”,
talvolta troppo entusiastico e approssimativo, degli ultimi trend
Occidentali in fatto di costituzionalismo, parlamento e partiti, ri-
sultò un elemento troppo estraneo alla società giapponese e diffi-
cilmente comprensibile, anche a causa della sorprendente rapidità
con cui fu assimilato. Ciò incise inevitabilmente su molti aspetti
2
delle nuove forze che si stavano creando, sulla loro ragion
d’essere, sulla loro immagine nella mente dei giapponesi e sul loro
modus operandi, e furono prese in prestito tanto le istituzioni, quan-
to le idee. Gli ideali di libertà, di progresso, di competizione poli-
tica e di sistema maggioritario, sebbene con enfasi e approcci dif-
ferenti, vennero attinti da personaggi come John Stuart Mill, Jean-
Jacques Rousseau, Edmund Burke e Johann Kaspar Bluntschli. Si
assistette, quindi, durante il primo periodo, all’utilizzo dell’idea
dei partiti come potenti strumenti di pacifica opposizione (in un
periodo in cui la resistenza al militarismo stava diventando sem-
pre più difficile) e alla nascita del principio del liberalismo, en-
trambi derivati dall’esperienza occidentale. Il grande problema
storico della politica giapponese moderna nasce dalla profonda
separazione tra le istituzioni politiche formali portate dall’Occi-
dente, insieme al bagaglio di idee che le accompagnavano, e le
strutture sociali, profondamente radicate in seno alla società
Giapponese, anche loro con un cospicuo bagaglio di ideali. Gli
schieramenti più nuovi furono senza dubbio influenzati ed attratti
da questo diffuso Occidentalismo, ma tale curiosità era accompa-
gnata da principi autoctoni molto saldi, che gli permisero di indi-
viduare le differenze fondamentali tra le loro convinzioni e i pre-
stiti d’oltremare, come ad esempio la Dieta Nazionale e i partiti
politici. Pertanto, in questa fase, queste due istituzioni rimasero
3
qualcosa di sostanzialmente estraneo al popolo giapponese, ma,
col passare del tempo, è innegabile che le abitudini indigene fos-
sero penetrate in vari modi in queste istituzioni, recando effetti-
vamente il loro contributo: l’allontanamento del popolo dalla po-
litica. I partiti, infatti, erano essenzialmente società di tipo elitario,
organizzazioni di mutua assistenza tra i politici sotto forma di
club esclusivi, rivelandosi più residui del Giappone “feudale” che
innovazioni della modernità occidentale.
1
Un’istituzione come la Dieta, derivante dall’esperienza Occi-
dentale, presupponeva dei principi, senza i quali non c’è parla-
mento democratico che possa funzionare e che risultarono, se
non estranei, del tutto opposti rispetto alle abitudini giapponesi: il
dibattito diretto, la capacità di comunicazione con l’opposizione,
la necessità di proteggere le minoranze e di riconoscere, dove ne-
cessario, le decisioni della maggioranza. Tuttavia, in Giappone, i
principi storici delle organizzazioni e il processo decisionale erano
differenti: non c’era dibattito diretto, ma negoziati indiretti; nes-
suna comunicazione con l’opposizione, ma distacco o diverbi; la
partecipazione al processo decisionale era riservata a gruppi circo-
1
R. Scalapino, J. Masumi, Parties and Politics in Contemporary Japan,
University of California Press, Berkeley and Los Angeles, 1962 p.5
4
scritti e non era affatto necessario un consenso trasversale. Col-
mare queste differenze, o trovare il modo di armonizzarle, rap-
presentò una grande sfida anche a livello ideologico. Per com-
prendere meglio la difficoltà nell’applicare in Giappone i principi
del liberalismo bisogna chiarirne gli obiettivi: il liberalismo enfa-
tizza la dignità innata dell’individuo e considera prioritario il suo
totale sviluppo, sottolinea l’importanza dei diritti delle minoranze
e della competizione politica, in quanto elementi essenziali per la
libertà e la civiltà di una nazione. Ora, tutti questi obiettivi devo-
no essere confrontati con i bisogni immediati e la natura stessa
della società giapponese, una società che manca di individualismo,
educata al consenso e all’unità e che stava affrontando gravi pro-
blemi di arretratezza e di pressione internazionale. Con tali pre-
supposti, il nazionalismo era l’ideologia di più logica applicazione,
che poteva indurre al sacrificio pubblico e stimolare un rapido e
controllato cambiamento delle masse, a tutto vantaggio di una
piccola e coesa elite, che percepiva questo processo di controllo
sociale quasi come una necessità impellente. È naturale, quindi,
che in tali circostanze, il liberalismo dell’epoca Meiji avesse un
forte aroma nazionalistico e non del tutto coerente con il credo
occidentale, sebbene il successivo e più maturo liberalismo delle
ere Taishō e Shōwa spesso cercasse di onorare la libertà e la di-
gnità dell’individuo innalzando il vessillo socialista e democratico
5
in maniera diversa. L’ideologia politica del Giappone moderno è
derivata in larga misura dall’Occidente e ancora non si è risanata
la discrepanza ideologica con la forma che assunse all’interno del-
la società nipponica.
L’evoluzione dei partiti in Giappone nel periodo precedente al
1945 si può dividere in tre fasi: il primo periodo, come sappiamo,
vide i partiti nascere come strumenti di protesta nei confronti del
nuovo governo Meiji, sotto lo sguardo ostile di un gran numero
di funzionari, di alto e di basso grado. I partiti, d’altro canto, era-
no, nella migliore delle ipotesi, ancora immaturi e inadatti alla so-
cietà giapponese nel suo stadio di sviluppo; nella peggiore delle
ipotesi, erano di natura sovversiva e tesi al rovesciamento del po-
tere. In questo periodo, in cui il governo e i partiti erano spesso in
disaccordo e le tecniche di pacifica opposizione non si erano an-
cora del tutto sviluppate, le violenze e le repressioni si moltiplica-
rono con un ritmo crescente. I partiti popolari e gli elementi a lo-
ro associati peroravano a gran voce la causa del parlamentarismo,
ma di frequente si sentivano obbligati ad andare oltre gli strumen-
ti legali. A causa di ciò, le iniziative per la sicurezza pubblica ed
altre forme di repressione sociale erano, dopo tutto, giustificabili.
Inoltre, fintanto che i partiti si rifiutavano di scendere a patti col
governo, l’oligarchia non aveva alternative, eccetto quella della
corruzione, al fine di attuare un controllo anche sul parlamento.