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parte, in un futuro molto lontano, carico di ombre e minacce, ma
anche di speranza.
David è una macchina: gli hanno dato l’imprinting per amare, ma
non per sognare. Il sogno è ciò che distingue umani e robot,
sogno come desiderio, tensione, ma anche come ciò che ci visita
nel sonno. David cerca la sua mamma fino alla fine del mondo
perché la ama e, soprattutto, perché vuole essere amato. Solo
quando lei gli sussurrerà: “ti voglio tanto bene”, lui potrà
addormentarsi per la prima volta e sognare. Soltanto nell’attimo
della completezza d’amore, anche se appena per un giorno come
capita a lui, diventiamo esseri umani “veri”. Ma David (la
macchina), così come Pinocchio (la marionetta di legno) e come
tutti i “bambini veri”, capisce che ci sono dei sentimenti, come
l’amore, che sono collegati a delle azioni da compiere, che si
chiamano “doveri”. David “deve” amare il figlio reale (Martin)
dei suoi genitori adottivi; Pinocchio “deve” andare a scuola…e i
bambini in “carne ed ossa”? Anch’essi sono costretti a lottare per
essere amati, per diventare dei “bambini veri”. L’invidia di
David nei confronti di Martin sembra riprendere il motivo
tradizionale della competizione fraterna (tutte le attenzioni della
madre sono rivolte a Martin). David, ritenuto pericoloso, viene
abbandonato in un bosco, in compagnia del suo orsacchiotto
meccanico (il “Grillo parlante”). David vede in Martin ciò che
egli vorrebbe essere, ma non per questo lo odia! Il suo odio
piuttosto sembra rivolto contro se stesso, contro quell’insieme di
“circuiti elettronici” di cui è fatto, che lo differenziano da un
3
bambino in “carne ed ossa”! Quando David, nell’azienda della
Cybertronics, si troverà faccia a faccia con un altro robot-David,
in tutto identico a sé, si avventerà contro di lui, liberando tutto il
suo odio: David distrugge, così, una parte di sé, rinnegandola;
non vuole riconoscersi in quella fredda macchina che lo guarda
con occhi fissi e spenti…egli è diverso, è un bambino vero, “è
unico”!
Ogni bambino vuole sentirsi speciale, ogni bambino vuole
l’amore esclusivo della madre, ogni bambino vuole essere amato:
è questa una “realtà” che vale sempre! Ne deriva che la paura di
“perdersi nel bosco”, elemento caratteristico di molte “fiabe”
tradizionali, è una paura universale. Bruno Bettelheim è stato
uno dei più ferventi sostenitori del valore delle fiabe tradizionali,
che nel loro materiale fantastico racchiudono la saggezza e
l’inventiva dei popoli e per questo non devono essere
considerate sorpassate! Non condivido, tuttavia, la critica che
l’autore avanza nei confronti delle fiabe moderne, che risentono
dell’influenza del cinema e degli audiovisivi, visti come
strampalati strumenti di trasfigurazione dell’incontaminabile
messaggio morale contenuto nelle fiabe di un tempo. Fermo
restando che esistono paure e desideri universali del bambino,
bisogna pur riconoscere che essi non rimangono cristallizzati
nelle polverose pagine di un libro e che, nel tempo, possono
esprimersi con modalità e circostanze diverse. Certo, la nuova
letteratura per l’infanzia ha modificato profondamente
4
l’immaginario infantile, ma non solo in termini di arricchimento
e di maggiore informazione.
Come raccontare una storia che possa soddisfare le esigenze di
un pubblico tanto mutato? E soprattutto quale è oggi la funzione
della fiaba in ambito psicoterapeutico e come questa si è evoluta
nel tempo?
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I PARTE
VIVERE LA DIVERSITA’
6
CAP. I
LA RICERCA DEL SE’
La fiaba tra fantasia e realtà
Non capita spesso di sognare…almeno non in questo mondo…
“C’era una volta…” racconta una fiaba, sospendendo il tempo in
una dimensione metastorica, in cui i fatti narrati non sono
accaduti soltanto in passato, ma accadono ancora e
continueranno a prodursi.
La determinazione spaziale in genere manca, ma, anche laddove
è in qualche modo presente, indica in definitiva un unico luogo,
contemporaneamente lontano e vicino. La fiaba, non per questo,
va intesa come una fuga dal mondo reale o rifugio in un mondo
immaginario: l’atemporalità e l’aspazialità che la caratterizzano,
invece, rendono sempre più sottile il limite di demarcazione tra
queste due dimensioni. La fiaba è un po’ un anello di
congiunzione tra fantasia e realtà: permette di visitare “paesaggi
sconosciuti”, di vedere ciò che prima era “invisibile”, di svelare
7
“verità nascoste” e farne tesoro nell’affrontare, in modo più
consapevole, il mondo reale!
Mi piace pensare alla fiaba come a un wormhole: una sorta di
tunnel nello spazio-tempo (la cui esistenza fu ipotizzata da
Albert Einstein), che può metterci in comunicazione con il
passato o con zone remote dell’universo, o addirittura con altri
universi paralleli in maniera istantanea. Non esistono barriere
che possano fermare lo scorrere veloce della fantasia! Julius
Verne già prediceva un secolo fa: “Tutto ciò che l’uomo è capace
d’immaginare, altri uomini saranno capaci di realizzarlo”!
Eppure, oggi, in una società moderna e tecnologica, dove
dilagano degrado, malessere e insofferenza e nello stesso tempo
un diffuso benessere materiale, si tende sempre meno a “sognare
in grande”. Ben pochi, ormai, si preoccupano dei problemi di
fondo che riguardano la formazione dell’infanzia; del resto la
maggioranza dei bambini va a scuola, sta quieta davanti alla
televisione. Perché proprio i bambini, allora, dovrebbero
“sognare in grande”? “In fondo nulla di preoccupante minaccia il
loro futuro, salvo la prospettiva di viverlo da funzionali
ingranaggi di una macchina guidata da pochissimi”2.
Non capita spesso di sognare…almeno non in questo mondo…
2
Marcello Argilli, Ci sarà una volta, La Nuova Italia, I ed.: aprile 1995.
8
Le paure e i desideri universali del bambino: la lotta per la
conquista dell’identità.
I bambini non sanno sognare perché non sono liberi di sognare: i
loro desideri sono condizionati dalla società, imposti dal mercato
o addirittura predeterminati ancora prima della loro nascita da
genitori che pretendono, narcisisticamente, che il figlio diventi
ciò che essi non sono riusciti ad essere e riesca ad ogni costo
laddove essi hanno fallito! Una sorta di egoistica rivincita nei
confronti della vita, questa, che può avere conseguenze
estremamente negative sulla crescita del bambino. Il timore di
fallire, di deludere le aspettative degli adulti (e dei genitori in
particolare), la paura di perdere la loro stima, e soprattutto il loro
affetto, sono paure universali, legate al desiderio universale del
bambino di essere amato e protetto. Molti genitori credono, in
maniera a volte consapevole a volte no, di poter manipolare la
vita del figlio-burattino, di accudirlo e di “lavorarlo”, proprio
come Geppetto faceva con Pinocchio, sicuro che questi fosse un
oggetto fra i tanti nella sua bottega di artigiano! I genitori, come
Geppetto, restano molto sorpresi quando l’ “oggetto” prende la
parola e fa sentire per la prima volta la sua vocina! Il bambino,
come Pinocchio, è alla ricerca della propria identità: il suo
desiderio è di diventare un “bambino vero”! Un desiderio
universale: lo stesso di David, protagonista del film A.I., e di
9
D.A.R.Y.L.3 (“data analyzing robot youth lifeform”), protagonista
del film di Simon Wincer che, anticipando l’intuizione di
Spielberg, propone il tema del “dramma interiore” del bambino-
robot. Entrambi non riescono ad accettare la loro identità e
lottano per ottenere l’amore della madre.
La madre di Daryl si lamenta della perfezione del suo bambino:
Daryl è il primo della classe, è dotato di un’intelligenza
straordinaria, è sempre buono con tutti, non dice mai una brutta
parola (sembrerebbe il sogno di qualsiasi madre) ma Daryl è
anche un bambino che non scoppia mai in lacrime, né in
un’esplosione di gioia! Egli è diverso dai suoi coetanei: non
chiede mai aiuto, sembra conoscere già ogni cosa! E’ “umano” il
senso di vuoto e di inutilità che prova la madre, essendo stata
deprivata del suo ruolo e ferita nel suo bisogno narcisistico di
dover essere importante. La donna vorrebbe poter qualche volta
rimproverare il figlio, insegnargli il modo in cui comportarsi,
aiutarlo a crescere e correggere i suoi errori! Ma Daryl è una
macchina e una macchina non sbaglia mai! L’unico “difetto” che
rende la macchina imperfetta e, quindi, in qualche modo umana,
è la capacità di soffrire!
Alla domanda: “che ‘cosa’ sono?” , posta da Daryl al suo
“creatore”, egli stesso non sa rispondere…Daryl soffre…:
qualcosa, forse, comincia a cambiare!
3
D.A.R.Y.L.: USA 1986; durata: 96 min.; regia: Simon Wincer; titolo originale:
D.A.R.Y.L.; sceneggiatura: David Ambrose, Jeffrey Ellis, Allan Scott; fotografia: Frank
Watts; musica: Marvin Hamlisch; distribuzione: Paramount Pictures; cast: Marybeth Hurt,
Michael Mckean, Barret Oliver, Kathryn Walzer, Colleen Camp, Josef Sommer, Steve
Ryan.
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La storia di Daryl, così come quella di David, pone l’attenzione
su un punto di focale importanza: la sofferenza causata dalla
percezione della “diversità” è paradossalmente l’elemento che
accomuna i bambini e i robot, così come le divinità e i comuni
mortali, gli alieni (come E.T.) e i terrestri, i ricchi e i poveri, i
supereroi buoni e gli antieroi cattivi, le streghe e le fate, un
pezzo di legno come Pinocchio e un bambino vero! La
percezione della diversità, talvolta, si lega alla sensazione di
essere indegno dell’amore dei genitori. Di qui la paura di essere
abbandonato. Questa paura comprende l’angoscia che gli altri
siano preferiti e possano anche essere preferibili: è questa
l’origine della rivalità fraterna! Rivalità che Spielberg in A.I. ha
dimostrato essere possibile anche tra un robot e un bambino in
“carne ed ossa”.
Questo tipo di sofferenza, come spiegato dalla Melanine Klein,
si accompagna spesso ad una fuga mentale in un altrove, in un
luogo immaginario, dove il bambino si sente persona-altra,
diversa dal proprio sé. La perdita dell’identificazione4, che è un
4
Identificazione (R.D. Hinshelwood, Dizionario di psicoanalisi Kleiniana, Raffaello
Cortina Editore, I ed.: 1990, trad: Marcella Magnino): “l’identificazione riguarda il mettersi
in relazione con un oggetto sulla base della percezione delle sue similarità con l’Io.
Tuttavia, si tratta di un fenomeno complesso che assume parecchie forme. Il semplice
riconoscimento di una similarità con qualche altro oggetto esterno, di cui il soggetto
riconosce l’esistenza separata, è il risultato di un processo sofisticato. Al livello primitivo
della fantasia, gli oggetti che sono simili vengono considerati come equivalenti, e questa
forma onnipotente di fantasia genera una confusione tra il Sé e l’oggetto. Gli oggetti interni
sono fantasie, ma inizialmente le fantasie sono onnipotenti, cosicché tramite le fantasie
coinvolte nell’identificazione l’oggetto è realmente il Sé. Su questa base avvengono
cambiamenti reali nella personalità, che possono essere osservati oggettivamente. Si tratta
di processi molto primitivi che si presentano assai presto nel corso dello sviluppo quando
v’è scarsa distinzione tra attività di fantasia e realtà. La fantasia è la realtà, e costruisce la
realtà del mondo interno proprio a partire da queste forme primitive di identificazioni
introiettive e proiettive”.
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po’ una mappa di orientamento per il bambino, fa sì che questi si
senta perseguitato, perché la vastità dei compiti da affrontare è
enorme. E’ a questo punto che diventa necessario l’intervento
dell’analista: in questa crisi evolutiva, in questa trasformazione
dell’esperienza emotiva in allucinosi. La trasformazione in
allucinosi è quella in cui, come sottolinea Bion, l’esperienza
emotiva non può essere ritrovata, poiché è stata dispersa in un
tempo e in uno spazio molto ampio. E’ l’analista che pone il
contenitore, accettando le allucinosi. Il riconoscimento e
l’accesso alle allucinosi sono resi possibili dal racconto di una
storia. Con la visualizzazione del luogo immaginario queste
emozioni vengono trasposte in un altrove, dove possono essere
pensate (cioè espresse in parole sotto forma di storia). La storia
non va intesa come un banale racconto; essa, come scrive Dina
Vallino, rappresenta la “casa delle cose inventate, immaginate,
che hanno diritto ad abitare da qualche parte”. Senza i
personaggi immaginari che il bambino crea con l’analista, il
bambino non sa pensarsi. Il vero protagonista è il bambino, che
collabora con l’analista, che è lì per custodire il significato della
storia, la sua continuità, la sua coerenza. Bion ha chiarito come il
compito dell’analista sia quello di mantenere un pensiero
vivente, di strappare le emozioni dal congelamento. La mente del
bambino risulta appiattita per il venir meno della funzione di
reverie materna. La reverie5 è la funzione della “madre-
5
Reverie (R.D. Hinshelwood, Dizionario di psicoanalisi Kleiniana, Raffaello Cortina
Editore, I ed.: 1990, trad.: Marcella Magnino): “questo termine fu introdotto da Bion (1962)
12
contenitore”, è la capacità di accogliere le sensazioni del
neonato, le proiezioni dei suoi bisogni, dando loro un significato.
“Dove c’è un bambino, lì ci sono delle cure materne che lo
tengono in vita” (Donald Winnicott)6. Ciò che l’autore intende
per “cure materne” può essere riassunto dal concetto di
“holding”, che rappresenta la capacità della madre di rispondere
empaticamente ai bisogni del bambino. Capacità, questa, che ha
inizio con la gravidanza e si estingue a mano a mano che il
bambino diventa indipendente. Nei primissimi stadi di vita,
l’holding funge da “pelle psichica” del bambino, consentendo il
divenire del sé. La relazione con l’analista offre al bambino una
holding rassicurante. Winnicott usa il termine di “regressione”
per descrivere il processo che si ha quando il falso sé
progressivamente si dissolve, per lasciare il posto ad una nuova
relazione. La paura “da ricostruire” è la paura di perdere una
coesione interna (in realtà mai raggiunta); una paura che non è
stato possibile assumere come esperienza perché non esisteva
ancora (all’epoca del fallimento ambientale) una struttura
sufficientemente evoluta per poterla vivere. La possibilità di
esprimere, nella relazione terapeutica, una buona e rassicurante
per indicare quello stato mentale di cui il bambino ha bisogno. E’ necessario che la mente
della madre si trovi in uno stato di calma recettività, per accogliere i sentimenti del lattante
e dare a essi un significato. L’idea è che il lattante, attraverso l’identificazione proiettiva,
introduce nella mente materna uno stato di angoscia e di terrore cui non è in grado di dare
un senso e che viene avvertito come intollerabile (specialmente la paura della morte). La
reverie materna è quel processo per cui si dà un senso a queste sensazioni del lattante ed è
nota come ‘funzione alfa’. Tramite l’introiezione di una madre recettiva e in grado di
capire, il lattante può iniziare a sviluppare una propria capacità di riflettere sui suoi stati
mentali”.
6
Donald Winnicott, Gioco e realtà, Armando Editore, Roma, 1997.
13
relazione, permette la ricostruzione di un’esperienza “mai
vissuta”, di “un dolore abortito”.
In caso di psicosi infantile, il bambino stesso, privato
dell’holding materna, diventa il contenitore, non il contenuto! La
funzione di reverie svolta dall’analista non si configura come
una pretesa che il bambino impari a pensare interiorizzando il
pensiero dell’adulto. Questi non deve sollevare il pensiero del
bambino al proprio, ma abbassarsi alla reverie del bambino, per
facilitarla e farla sviluppare.
Psicosi infantili
Quando si affronta il tema delle psicosi infantili, non ci si può
non soffermare sul problema delle definizioni nosografiche e
delle classificazioni. Il rischio è quello di un’eccessiva
semplificazione. Il passaggio dalla “crisi della ragione” alla
“complessità della ragione” ha mostrato come la ragione possa
articolarsi in molteplici forme e quanto sia adattabile alle infinite
pieghe della realtà! Un contributo a questa consapevolezza è
stato portato, indubbiamente, dalla serie di ricerche che vanno
dalla sociologia di Morin alla psicologia di Piaget,
all’epistemologia di Kuhn e Feyerabend alla fisica di Prigogine e
Stengers, allo studio sull’intelligenza artificiale di Hofstadter al
pensiero di Varala, e che sono state indicate come “sfida della
complessità”. Esse hanno mostrato, infatti, che la scienza
14
contemporanea ha definitivamente abbandonato l’ideale
cartesiano dell’onniscienza o della scienza perfetta, basata su un
luogo di osservazione fondamentale, privilegiato, oggettivo e ha
ormai riconosciuto la molteplicità irriducibile di punti di vista
diversi, senza rinunciare all’esigenza di una “trans-spezione”
delle diverse logiche.
Kuhn ci impone di volare in alto e guardare la nostra comunità
scientifica dal di fuori, con uno sguardo disincantato e armato
con gli occhiali della storia.
Lo studio clinico delle psicosi può essere fatto risalire a De
Sanctis che, nel 1905 e successivamente nel 1925, introduce la
definizione di “demenza precocissima”; denominazione questa in
cui è evidente il riferimento alla demenza precoce di Kraepelin.
Nel 1930 Litz descrive un quadro clinico analogo a quello del De
Sanctis che denomina, seguendo in questo caso Bleuler,
“schizofrenia infantile”.
In precedenza era stato descritto da Haller, nel 1909, un tipo di
demenza a eziologia chiaramente organica (degenerazione
lipidica delle cellule), ancor oggi definita come “demenza di
Heller”.
Un momento particolarmente significativo per l’evoluzione della
nosografia relativa alle psicosi infantili è il 1943, anno in cui Leo
Kanner descrive in undici bambini, 9 maschi e 2 femmine, il
quadro da lui definito “autismo infantile precoce”, mutuando il
termine “autismo” da Bleuler che lo aveva utilizzato per indicare
uno dei sintomi della schizofrenia, ma riferendolo ad una ben
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precisa sindrome. Caratteristica comune di questi bambini era
l’incapacità di mettersi in rapporto con l’ambiente. Venivano
descritti dai genitori come bambini che erano sempre stati
“autosufficienti”, “felicissimi se lasciati soli”, “come in un
guscio”. Tipicamente questi bambini tendevano ad isolarsi, a non
recepire i segnali relazionali provenienti dall’esterno, tanto che
spesso la ragione della consultazione era il sospetto di sordità.
Due terzi di questi bambini acquisirono il linguaggio, che non
veniva però utilizzato per comunicare con gli altri in modo
adeguato; erano spesso ecolalici e usavano i pronomi così come
li udivano, designandosi quindi con il “tu” piuttosto che con l’
“io” (si parla in questo caso di inversione pronominale). Un’altra
caratteristica descritta da Kanner era la preoccupazione ossessiva
di questi bambini per il mantenimento dell’immutabilità degli
ambienti o delle abitudini (Kanner parla di “Sameness”). Il
bambino tende cioè a mantenere un certo ordine delle cose, una
certa sequenzialità nelle azioni, e a sviluppare rituali, per
esempio nel vestire e nel mangiare.