non vengono accesi, può perfino accadere che comincino a scivolare all’indietro,
con danno delle persone direttamente e indirettamente coinvolte. Per continuare
nella nostra metafora, si può dire che il microcredito mette in moto le ultimissime
carrozze del treno accendendo il motore in tutti i passeggeri di quei vagoni
solitamente putridi e fatiscenti. L’insieme di quegli impulsi non può rallentare la
velocità del treno, può solo aumentarla; cosa che non si può dire della maggior
parte dei cosiddetti progetti di sviluppo. Naturalmente, investire nelle strade, nelle
autostrade, nelle centrali elettriche, negli aeroporti, accende il motore delle carrozze
di testa, quelle più ricche e sofisticate, e ne aumenta per molti versi la potenza. Ma
ad avvantaggiarsi di quegli effetti positivi saranno solo le carrozze vicine, su tutte
le altre la ricaduta rimane sfortunatamente molto incerta.[…]Quando la miriade di
piccoli motori si sarà messa in funzione, il terreno potrà dirsi preparato per progetti
più vasti [ibid., pp. 214-215].
La sostenibilità dello sviluppo umano comporta l’interazione fra i sistemi
biologico, sociale, politico ed economico;
lo sviluppo sostenibile è quello in cui le esigenze della protezione ambientale e
gli obiettivi di progresso economico e sociale debbono trovare la loro realizzazione
in un contesto di equilibrio globale, tenendo soprattutto presente che i bisogni delle
attuali generazioni non possono essere soddisfatti a detrimento delle esigenze delle
generazioni future [Raimondi e Carazzone, 2003, pp. 62-63].
Gli apporti concettuali dello sviluppo umano e sostenibile possono divenire
stabili principi delle politiche di cooperazione internazionale. Lo sviluppo
umano come processo integrale e partecipato, va ben oltre l’accumulazione di
capitale e la disponibilità di beni e servizi; esso richiede politiche che superino
la compensazione degli svantaggi e riescano ad ampliare le facoltà di scelta
individuali e comunitarie, non solo per quanto riguarda i bisogni materiali
primari, ma anche le libertà, le competenze ed i diritti fondamentali, in ogni
dimensione (civile, politica, economica, culturale, sociale ed ambientale) della
vita. Si passa, quindi, da una nozione di povertà in termini economici ad una
che considera la mancanza di opportunità, di capacità di scelta (capabilities): la
disponibilità economica è uno strumento necessario ma non sufficiente per il
soddisfacimento dei bisogni della persona, ciò che conta è cosa l’individuo
riesca a diventare e a realizzare con le risorse di cui dispone (ibid.).
Nella profonda diversità che investe ogni essere umano, a causa delle condizioni
soggettive e della varietà di opportunità offerte dalla società, esistono numerose
«variabili focali» influenzanti il well-being di ogni soggetto e condizionanti la
valutazione delle disuguaglianze, per la quale è quindi necessario scegliere
preliminarmente uno spazio valutativo.[…]Lo stesso processo di misurazione delle
povertà non può essere più condotto attraverso gli approcci tradizionali
(individuazione dei poveri sulla base del reddito disponibile ed aggregazione dei
dati per ottenere un indice complessivo), ma appare necessario muovere dalla tesi
secondo cui la povertà è caratterizzata dall’impossibilità di raggiungere livelli
minimi accettabili per alcune capacità di base, tenendo conto quindi della
«inadeguatezza», piuttosto che della «scarsità» [Raimondi e Antonelli, 2001, pp. 63-
64].
L’indice di sviluppo umano (ISU) è un tentativo di cogliere la
multidimensionalità della povertà; sebbene misuri soltanto tre capabilities e sia,
ovviamente, estremamente riduttivo rispetto alla complessità del concetto di
sviluppo umano, tuttavia è ugualmente importante per due motivi: costituisce
un’alternativa concreta al PIL, fornendo un numero facilmente confrontabile
con esso, e considera tre dimensioni quantificabili in modo oggettivo e
relativamente facile. L’impossibilità di soddisfare tali capacità di scelta
sostanziali impedisce anche ogni altra opportunità (Raimondi e Carazzone
2003). Dal punto di vista di Yunus (1997), il problema di una classificazione
multidimensionale della povertà è ancora più complesso: in ogni paese i criteri
di costruzione delle categorie dovrebbero essere diversi. Gli organismi
internazionali dovrebbero individuare gli standard di povertà in ogni paese,
anziché imporre quelli internazionali (ibid.).
Prima di considerare quali implicazioni abbia l’approccio dello sviluppo
umano e sostenibile per la cooperazione internazionale, è opportuno
presentare una breve panoramica sull’evoluzione delle idee di sviluppo negli
ultimi sessanta anni.
[…]
Cooperazione internazionale, emergenze ed interventi umanitari
Negli ultimi anni, la diffusione dei conflitti ha causato la riduzione dei
programmi di sviluppo e l’aumento degli aiuti umanitari in situazioni
d’emergenza; inoltre, data l’urgenza endogena degli aiuti umanitari, i Paesi
donatori hanno istituito canali privilegiati di finanziamento, per poter ridurre i
tempi d’avvio delle operazioni di soccorso e ricostruzione. L’allarme può
essere provocato da agenti umani, come accade per le guerre, o naturali; può
accadere inoltre che il concorso di entrambi gli elementi aggravi una situazione
critica preesistente: lo scoppio di conflitti in zone già afflitte da penuria di
alimenti, per esempio, può diminuire le possibilità di accesso alle risorse
disponibili. Obiettivo degli interventi d’emergenza è il repentino ripristino di
adeguate capabilities; l’aiuto umanitario è quindi essenziale per ripristinare le
condizioni idonee per lo sviluppo (Raimondi e Antonelli 2001). È necessario
che
la pianificazione degli interventi d’emergenza, pur ponendosi obiettivi a breve
termine, si configuri in modo funzionale alle fasi della ricostruzione e riabilitazione
(economica, sociale, ed istituzionale) e a quella dello sviluppo, orientandosi alle
prospettive nel medio e lungo periodo, della comunità e dell’area coinvolta. A tal
fine è importante riconoscere che le persone colpite dall’evento tragico
costituiscano una risorsa, piuttosto che un gruppo impotente di vittime [ibid., pp.
131-132].
Anche gli interventi d’emergenza, sul piano operativo, delineano una
sequenza circolare di breve durata articolata nelle fasi di programmazione,
attuazione e valutazione continua delle attività (ibid.). Cooperazione allo
sviluppo ed aiuti umanitari presentano, dunque, legami di continuità a livello
operativo; allora perché produrre tagli al finanziamento dei programmi di
sviluppo mentre si aumentano gli stanziamenti destinati all’emergenze?
Perché gli eventi tragici hanno un maggiore impatto emotivo sull’opinione
pubblica rispetto alla povertà diffusa ed al sottosviluppo e sono, quindi, più
facilmente strumentalizzabili per convenienza geopolitica. Quasi sempre,
comunque, l’intervento è circoscritto alle emergenze mediatiche, quelle, cioè,
sulle quali si concentra l’attenzione dei media (ibid.).
Se è vero che le cause delle emergenze umanitarie vadano affrontate e
risolte, ciò non può avvenire attraverso la sostituzione dei programmi di
sviluppo con interventi diretti a tamponare a posteriori gravi situazioni ormai
degenerate. È necessario incidere sulle cause profonde del sottosviluppo
mentre l’intervento umanitario ha una scarsa sostenibilità, produce solo effetti
contingenti nelle comunità beneficiarie (ibid.).
Il mutamento nelle politiche di cooperazione ed il conseguente trasferimento
di fondi conducono ad una serie di considerazioni in merito alle possibili
evoluzioni sul piano strategico e sociale.
Innanzitutto, si crea una forma d’assistenzialismo paternalista da parte dei
donors: da un lato essi «si lavano la coscienza» senza impegnarsi in programmi
a lungo termine per uno sviluppo umano e sostenibile, dall’altro, attraverso gli
aiuti umanitari, si colpisce l’opinione pubblica senza però cambiarne lo stile di
vita o aumentarne sensibilità e consapevolezza, in altre parole non si
promuove la crescita di una coscienza sociale sui processi che caratterizzano i
Pvs e le aree di crisi (ibid.). Inoltre, la distribuzione di beni e servizi primari,
provenienti dai donatori, crea dipendenza dagli aiuti nelle aree interessate
dall’emergenza, in quanto comunità ed individui restano soggetti passivi
(Yunus 1997). Ancora, la diminuzione degli interventi di sviluppo, in zone
politicamente e geograficamente cruciali, aumenta il rischio d’involuzione dei
processi endogeni di sviluppo e d’insorgenza di conflitti. Infine, anche le
attività delle ONG sono influenzate dalle politiche cooperative dei governi:
ove le risorse a disposizione per la cooperazione non governativa sono
limitate, le ONG si sono orientate ad interventi d’emergenza per poter
accedere più facilmente ai finanziamenti pubblici (Raimondi e Antonelli 2001).
In conclusione, lo spostamento delle risorse destinate all’APS in favore dei
fondi per le emergenze genera una guerra tra poveri e vittime per accaparrarsi
le risorse disponibili (ibid.).
[…]
Capitolo terzo
I CONTRIBUTI DELLA PSICOLOGIA DI
COMUNITÀ ALLA COOPERAZIONE
INTERNAZIONALE
La Psicologia di Comunità nasce storicamente nel 1965 durante la
Conferenza Swampscott e si configura come disciplina trasversale ad altre
«prossime», dalle quali mutua concetti e teorie, che acquistano nuovi
significati integrandosi in un quadro concettuale «aperto», dinamico, capace
di trovare al proprio interno nuovi ambiti d’indagine e di sviluppo, nuovi
interrogativi (Palmonari e Zani 1996; Amerio 2000).
Si sottolineava quindi la necessità di un approccio interdisciplinare allo studio
dei problemi e delle strategie di intervento nella comunità, comprendente oltre ai
campi tradizionali della psichiatria, della psicologia, del social work, anche le
scienze sociali e politiche, l’urbanistica, la giurisprudenza e la pedagogia
[Palmonari e Zani, 1996, in Zani e Palmonari (a cura di), p. 13].
Il modello educativo per la formazione degli psicologi deve quindi essere
necessariamente interdisciplinare, avendo come base la psicologia ed
includendo l’attivismo sociale e politico. Lo psicologo di comunità privilegia
la prevenzione al trattamento, incoraggia la partecipazione, opera in un
territorio considerato come sistema, come insieme complesso e organizzato in
cui ciascuna unità è connessa con le altre, ed interviene a più livelli
(dall’azione centrata sul singolo alla programmazione rivolta alla comunità
nel suo insieme). Lo psicologo diviene quindi agente di cambiamento sociale,
in una prospettiva che sottolinea i legami tra ricerca, teoria ed azione e che
privilegia il consolidamento delle competenze dell’attore sociale
all’eliminazione del deficit (Zani 1996).
Tyler (1996), affrontando la questione dell'inclusione sociale degli individui
e delle loro interazioni, sostiene l'urgenza di una psicologia di comunità che
trascenda qualsiasi preconcezione etnica o disciplinare specifica e che
assimili nelle proprie teorie e modelli psicologici gli elementi culturali e di
comunità, oltre ai fattori legati all'identità culturale e di comunità. Cultura,
razza ed etnia, infatti, costituiscono ognuna un aspetto della natura e della
realtà di ogni persona, contribuiscono alla costruzione della propria identità
(ibid.). Tyler prosegue affermando che tutte le culture e società devono fornire
a tutti i gruppi di cui sono composte uguale status, uguale accesso ai benefici
da esso derivanti ed alle risorse per raggiungerli; inoltre, la società ha
l'obbligo di provvedere in modo equo a coloro che sono in uno stato di
bisogno, esprimendo sensibilità e capacità d’adattamento coerenti con i valori
fondamentali degli individui e delle comunità appartenenti a culture
differenti (ibid.).
Da quanto esposto nei precedenti capitoli, non è difficile comprendere fin
da ora l’essenziale contributo che la psicologia di comunità può apportare
alla realizzazione di uno sviluppo umano e sostenibile.
Per uno sviluppo partecipativo
Il concetto di «empowerment»
Nel capitolo precedente s’è affermato che un’interpretazione interculturale
ed inclusiva dei diritti umani ed un approccio integrato alla loro realizzazione
possono concorrere al compimento di uno sviluppo umano e sostenibile. Fine
ultimo di ogni cooperazione, sebbene non esplicitato, deve essere
l’empowerment delle persone in quanto comunità, affinché i benefici che
possano derivare dall’intervento, trascendano il progetto specifico e attivino
un processo di trasformazione sociale (Raimondi e Carazzone 2003).
Come affermato da Francescato (1996), la psicologia di comunità ha
individuato
nell’approccio teorico dell’empowerment una modalità significativa di rispondere
ai quesiti posti dalla difficile integrazione tra libertà e giustizia sociale. Infatti,
riformulando i problemi personali e sociali in termini di accesso a vari tipi di
potere, che permettono di aumentare o diminuire le opportunità di scelta dei
singoli o dei gruppi, gli psicologi di comunità mirano ad aumentare sia
l’uguaglianza delle opportunità, sia a responsabilizzare gli individui nelle loro
decisioni, dunque potenziandone la libertà. Inoltre il processo attraverso il quale si
diventa empowered prevede una presa di coscienza dei limiti e delle opportunità
offerte dai contesti sociali, e un coinvolgimento attivo della persona nei setting
ambientali di riferimento, modalità che favoriscono[la]formazione personale e
politica dei cittadini,[…]condizione prioritaria per una società pienamente
democratica [ibid. in Arcidiacono, Gelli e Putton (a cura di), p. 15].
Il concetto di empowerment esprime, quindi, la tensione verso «l’azione nella
realtà» della psicologia di comunità, il suo impegno sociale e politico per il
miglioramento della quality of life di tutta la comunità. L’incremento del potere
di individui o gruppi marginali e discriminati non avviene, infatti, a discapito
di altri, bensì instaura una spirale positiva che conduce al potenziamento di
tutta la società:
individui empowered contribuiscono a rendere più competenti anche i gruppi e le
reti a cui partecipano, questi a loro volta diventano setting ambientali che offrono
nuovi stimoli alle persone che li frequentano [ibid., p. 16].
In ambito cooperativo, l’incremento di potere deve avvenire sia per i Pvs
riguardo alla governance della globalizzazione, sia all’interno dei Pvs stessi per
gli individui ed i gruppi sociali più indigenti. Esistono, quindi, un
empowerment individuale ed uno sociale, imprescindibili l'uno dall'altro
(Amerio e Piccardo 2000). Il primo, detto anche psicologico, concerne
l’ampliamento delle possibilità d’azione di una persona di fronte ad un evento
stressante, l’estensione, cioè, del suo repertorio di strategie di coping e problem-
solving, ed è legato al concetto di resilience (capacità di crescere «sano» in
contesti svantaggiati, costruita nelle interazioni con l'ambiente nel corso della
propria storia personale). Partendo da un sentimento d’impotenza appresa, in
seguito ad esperienze frustranti percepite come esterne al proprio controllo, lo
psicologo accompagna l’individuo in un percorso di partecipazione ed
impegno nella comunità, di controllo degli eventi, finalizzato alla conquista di
fiducia nelle proprie capacità (Zani 1996). La competenza è una fonte di
credibilità sociale per le persone, e dunque strettamente connessa alla fiducia
in se stessi ed alla motivazione ad agire. La fiducia in se stessi, a sua volta, è un
fattore critico per la competenza: avere fiducia in se stessi significa credere
nella propria capacità di autogoverno, e ciò aiuta ad agire con un senso di
sicurezza che rinforza il senso di competenza (Lanzara 1993).
Tutti gli esseri umani sono soggetti a gradi diversi di «assenza di potere» o di
impotenza; ma tutti gli esseri umani sono potenzialmente competenti, anche nelle
situazioni più critiche [Zani, 1996, in Zani e Palmonari (a cura di), p. 75].
[…]
Capitolo quarto
GLI INTERVENTI UMANITARI IN SITUAZIONI
D'EMERGENZA
Nel secondo capitolo si è accennato all'ambiguità creatasi fra cooperazione
allo sviluppo ed interventi d'emergenza, quanto meno nei paesi donors, in
merito alle risorse economiche cui attingere per finanziare i progetti. La
preoccupazione è soprattutto per le conseguenze che ne derivano per lo
sviluppo umano e sostenibile, sia in termini ideologici sia pragmatici. La
scelta politica di trasferire agli aiuti umanitari i fondi destinati alla
cooperazione internazionale, a seguito dei mutati equilibri geopolitici dopo il
«crollo» dell'URSS, è foriera di un cambiamento nell'approccio alla soluzione
dei problemi sociali, civili, economici e sanitari internazionali, provocando a
mio avviso un'involuzione ideologica. Facendo un paragone: mentre a livello
nazionale, in ambito sanitario, si passa da un modello di salute inteso come
assenza di malattia alla promozione di uno stato di completo benessere psico-
fisico per tutti i cittadini, nella sfera della politica estera la promozione dello
sviluppo cede il posto all'intervento per «tamponare» un'emergenza
umanitaria. Cooperazione ed aiuto umanitario si differenziano per le finalità,
i tempi di realizzazione degli interventi, gli attori, i contesti d'intervento, gli
strumenti e le metodologie, le necessità dei destinatari, un approccio diverso
alla soluzione dei problemi. La riduzione dei fondi pubblici per la
cooperazione obbliga chi opera in questo settore a finanziare i propri progetti
di sviluppo, che richiedono tempi di realizzazione lunghi, con modalità
idonee agli interventi d'emergenza, che per definizione devono essere limitati
all'urgenza. Dal testo della «Nuova disciplina della cooperazione» italiana
(Legge 49/1987), infatti, emerge che gli stanziamenti sono su base triennale,
con la riserva di essere ridiscussi ogni anno. Inoltre vi è anche l'ambiguità di
definire e finanziare come straordinari interventi volti a contrastare situazioni
di denutrizione e carenze igienico-sanitarie, tipicamente croniche. L'errore è
duplice: ignorare la reale natura del problema, e delle soluzioni idonee, e
condizionare negativamente il lavoro degli attori sociali (individui ed
organizzazioni) che operano nel settore.
Esiste comunque una continuità operativa e progettuale fra promozione
dello sviluppo ed interventi d'emergenza. Questi ultimi dovrebbero servire
per arginare la crisi e creare le condizioni per interventi di cooperazione allo
sviluppo. Come riportato da Young et al. (2002), conseguentemente alla
criticità ed eccezionalità delle situazioni che si creano in seguito a calamità o
disastri (naturali o causati dall'uomo), l'organizzazione dei soccorsi prevede
anche l'assistenza psicologica. Essa assolve diverse funzioni: aiutare i
superstiti, sostenere i soccorritori, migliorare il funzionamento dell'apparato
organizzativo ed i rapporti con i mass-media e gli interlocutori politici.
Caratteristiche che lo psicologo deve possedere sono: inclinazione
all'avventura, empatia, capacità d'ascolto, autenticità, considerazione positiva
delle persone, socievolezza, calma e buonsenso politico (ibid.).
L'«organizzatore» deve essere consapevole del rapporto dinamico tra le sue
motivazioni interne e le esigenze esterne, deve saper realizzare
l'organizzazione dei soccorsi modificando gli obiettivi in itinere se incontra
variabili differenti da quelle ipotizzate (Sica 2002).
Occorre essere inclini alla curiosità e all'apprendimento attraverso l'esperienza
nonché la disposizione a sviluppare soluzioni creative a problemi complessi
[Young et al., 2002, p. 25].
D'altra parte, vi è anche il bisogno di dare organizzazione al caos creatosi a
seguito della calamità, di ricreare una regolarità quotidiana. L'intervento in
situazioni d'emergenza ha come obiettivo principale il riequilibrio della
comunità colpita. È indispensabile fornire sicurezza e certezze ai superstiti,
mantenendo grande equilibrio emotivo e capacità d'ascolto di fronte alle
reazioni da stress di superstiti ed operatori, a lunghi ed estenuanti turni, al
disordine ed all'indeterminatezza dei ruoli. Sono da sottolineare alcune
peculiarità degli interventi di salute mentale nelle emergenze (ibid.).
Innanzitutto, il target è costituito prevalentemente da persone
«normali» che reagiscono normalmente a una situazione anormale[…];[inoltre]
la maggior parte del lavoro avviene in «contesti non clinici» (per es. rifugi, centri di
emergenza, scuole e centri di comunità) e assume la forma di insegnamento della
gestione dello stress, problem solving, tutela e invio delle persone a rischio o
gravemente menomate presso le sedi in cui possono avere luogo una valutazione e
cure più intensive [ibid., p. 18].
Lo psicologo, quindi, non fornisce un sostegno psicoterapeutico, ma
utilizza tecniche psicoeducative (defusing e debriefing) per insegnare a
riconoscere e gestire le reazioni di stress; anche perché, solitamente, il tempo
a disposizione da dedicare ad ogni singola persona è limitato. Altra
particolarità è l'erogazione di un servizio di salute mentale a persone che non
esprimono il bisogno di aiuto psicologico e che quindi possono rifiutarlo; il
contesto, poi, non agevola il compito dello psicologo, essendo caotico, privo
di spazi adeguati per tutelare la privacy e tranquillizzare le persone (ibid.). De
Pellegrini e Schlett (2003), nella loro esperienza presso il Centro d'Ascolto del
campo d'accoglienza di San Giuliano di Puglia per le vittime del terremoto
che, nel 2002, causò nel paese la morte di 29 persone, fra cui 26 bambini,
testimoniano l'importanza di un sostegno psicologico ed emotivo in
situazioni d'emergenza. In particolare, sottolineano la necessità di affiancare
alla trasformazione e ricostruzione della realtà esterna un'analoga
trasformazione e ricostruzione interna all'individuo, per ricomporre e
riorganizzare la comunità, violata e mutilata, che rischia di sgretolarsi se
abbandonata nel proprio dolore. Un dolore che inizialmente unisce i
superstiti ma poi li separa nella pretesa di maggiori diritti ad un sostegno
materiale, a fronte della considerazione di aver subito perdite e lutti più gravi
rispetto ad altri. Le autrici si posero come punti di riferimento per la
popolazione del campo, offrendo rassicurazione e contenimento delle
emozioni in ogni momento della quotidianità, trascendendo lo spazio fisico
del Centro e portando accoglienza ed ascolto nei luoghi di ritrovo del campo
(mensa, bar, passeggiando fra le tende, ecc.).
Oltre all'esecuzione diretta dell'aiuto, esiste anche un livello
amministrativo nella gestione delle emergenze e necessita di un'adeguata
conoscenza dei protocolli d'azione e delle risorse necessarie (oltre che
disponibili) per rispondere alla dinamicità dei bisogni emergenti. L'insorgere
di una crisi diviene sempre un evento politico e mediatico (almeno nella fase
di emergenza e nel primo periodo successivo all'evento) e le pressioni cui
sono soggetti gli amministratori riguardano la richiesta d'informazioni, di
valutazione dei bisogni, la pianificazione logistica degli aiuti (sia risorse
materiali sia umane), cioè stabilire le modalità di realizzazione delle azioni,
gli attori ed i destinatari degli aiuti, la sede degli interventi e programmare la
transizione dalla fase di emergenza all'assistenza continuativa. Senza
dimenticare le specifiche competenze professionali, una buona capacità
comunicativa e di coordinamento sono indispensabili per un amministratore
(Young et al. 2002).
Finalità della psicologia dell’emergenza sono quindi lo studio, il
trattamento e la prevenzione dei processi psichici, delle emozioni e dei
comportamenti che si producono prima, durante e dopo gli eventi critici;
identificando come soggetti dell’intervento il singolo individuo e la comunità
(Cusano 2002). Nel primo caso, si tende a ristabilire e tutelare l’equilibrio
cognitivo ed emozionale, proteggendolo dall’azione destabilizzante
dell’angoscia derivante dal trauma subito; nel secondo si cerca di prevenire o
superare fenomeni psichici, quali la sindrome da disastro o l’esodo di massa,
che si verificano in grandi gruppi umani (ibid.).