LIBERA CIRCOLAZIONE DEI LAVORATORI COMUNITARI E SICUREZZA SOCIALE
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economiche degli Stati membri, uno sviluppo armonioso delle attività
economiche”
1
. All’aspetto economico fu dato il rilievo maggiore nella
forte convinzione liberista, presente nei padri fondatori, che uno
sviluppo armonioso avrebbe portato quasi inevitabilmente ad un
continuo miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini
comunitari. Alla politica sociale comune, invece, non venne
riconosciuta alcuna autonomia, essendo posta al servizio di un unico
obiettivo: la costruzione del mercato unico europeo in cui fosse
garantita la libera circolazione dei lavoratori, delle merci e dei
capitali.
Fino agli anni ’80, e precisamente fino all’Atto Unico
Europeo che ha attribuito nuove competenze in campo sociale alla
Comunità, questa “cieca” fiducia nelle potenzialità intrinseche del
Mercato ha caratterizzato tutta l’azione sociale ed ha riguardato anche
la materia della sicurezza sociale, relegata in secondo piano e posta a
totale servizio della libera circolazione dei lavoratori comunitari.
In questo senso il secondo capitolo del mio lavoro tratterà,
con riguardo alle fonti normative, il tema della libera circolazione di
tutti i lavoratori, a partire dal principio generale di non
discriminazione, sancito dall’art.12 del Trattato CE posto a
fondamento di tutta la costruzione europea.
1
Art. 2 Trattato di Roma istitutivo della Comunità economica europea, 25 marzo 1957.
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Le disposizioni del Trattato CE e il diritto comunitario
derivato perseguono come unico obiettivo la facilitazione, per i
lavoratori comunitari, dell’esercizio di attività lavorative di qualsiasi
natura e nell’intero territorio comunitario senza alcuna
discriminazione tra lavoratori migranti e nazionali. Infatti, pur
articolandosi diversamente rispetto alle tre ipotesi previste (libera
circolazione dei lavoratori subordinati, libertà di stabilimento per i
lavoratori autonomi e libera prestazione dei servizi), data la diversa
entità degli ostacoli da superare per ciascuna fattispecie, la normativa
comunitaria è sostanzialmente unitaria.
Dopo l’esame delle fonti normative relative al suddetto
principio, nel terzo capitolo la mia attenzione si rivolgerà
principalmente ai diritti riconosciuti e garantiti ai lavoratori
subordinati , quindi, alle deroghe previste.
Innanzitutto sarà affrontato l’ambito di applicazione
personale della normativa, con particolare riguardo all’attività della
Corte di Giustizia, impegnata nella costruzione di una nozione
comunitaria di “lavoratore”.
Successivamente si espliciteranno gli effettivi diritti di
mobilità sia professionale (diritto di godere dello stesso trattamento
dei lavoratori nazionali nell’accesso e nello svolgimento di attività
lavorativa) che territoriale (diritto di muoversi liberamente all’interno
del territorio comunitario) del lavoratore comunitario che si trasferisca
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da uno ad altro Paese membro per esercitare o anche solo ricercare
un’attività lavorativa di natura subordinata.
Nel quarto capitolo verrà illustrata la direttrice originaria e
tuttora fondamentale dell’azione comunitaria in materia di sicurezza
sociale, la quale obbedisce ad una logica di pura integrazione
negativa; saranno così rese note le modalità di coordinamento dei
diversi sistemi nazionali di sicurezza sociale in funzione dell’effettiva
realizzazione della libertà di circolazione e soggiorno dei lavoratori.
Particolare attenzione sarà dedicata all’analisi dei principi
fondamentali di coordinamento, sanciti dall’art.42 del Trattato CE e
resi effettivi dal regolamento n. 1408/71.
Si accennerà, inoltre, ad alcuni interventi di integrazione
positiva dei sistemi nazionali di sicurezza sociale, disposti attraverso
la tecnica dell’armonizzazione; interventi che, tuttavia, hanno
riguardato ambiti circoscritti e hanno avuto riflessi previdenziali
piuttosto modesti.
L’attuale impossibilità di una effettiva armonizzazione dei
vari regimi nazionali di sicurezza sociale e la difficoltà dello stesso
coordinamento previsto a livello comunitario dipendono
essenzialmente dalle notevoli differenze dei modelli di protezione
sociale tra gli Stati membri, differenze sia in senso quantitativo
ovvero come risorse destinate alle spese sociali che quantitativo.
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L’ultimo capitolo, poi, ha un taglio particolare rispetto
all’impianto complessivo: in esso verranno analizzati il regime
italiano delle prestazioni alla famiglia e, di seguito, le discipline
nazionali delle prestazioni familiari garantite in alcuni Paesi
dell’Unione Europea con un accenno preliminare ai relativi sistemi
previdenziali.
La scelta dei Paesi è stata operata in base alla suddivisione
dell’Europa in quattro gruppi regionali
2
, operata dalla Commissione
europea nella relazione sulla Protezione sociale del 1995, ed anche in
base ai differenti modelli di protezione sociale seguiti : così, accanto
al modello occupazionale (bismarkiano) di Francia e Germania verrà
preso in considerazione il modello di stampo universalistico
(beveridgiano) della Danimarca ed un modello “contaminato” come
quello britannico. Infine, verrà illustrato anche il sistema delle
prestazioni familiari vigente in uno dei nuovi dieci paesi entrati
nell’Unione Europea il 1 maggio del 2004: la Polonia
3
.
2
1- Europa centrale e occidentale; 2- Regno Unito e Irlanda; 3-Scandinavia; 4- Europa
meridionale. La Commissione ha ritenuto che i gruppi presentino caratteri simili per consentirne
una tipizzazione.
3
I Trattati di adesione sono stati stipulati ad Atene il 16 aprile 2003. I nuovi paesi sono : Polonia,
Ungheria, Slovenia, Slovacchia, Repubblica Ceca, Estonia, Lettonia, Cipro e Malta. I negoziati di
adesione hanno introdotto, per tutti questi nuovi paesi, ad eccezione di Cipro e Malta, delle
limitazioni transitorie (al massimo per 7 anni) al diritto di libera circolazione dei lavoratori
subordinati, prevedendo una gradualità temporale alla possibilità dei lavoratori dei paesi aderenti
di accedere al mercato del lavoro degli altri paesi membri.
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Capitolo I – Affermazione della politica sociale europea
1.1 – La nascita della Comunità Europea
Il Trattato di Roma, istitutivo della Comunità Economica
Europea, elencava fra gli obiettivi dell’integrazione il miglioramento
delle condizioni di vita e di lavoro e prevedeva una serie di
disposizioni relative alla politica sociale, in particolare norme in
materia di sicurezza sociale dei lavoratori migranti e relative al divieto
di discriminazioni tra lavoratori e lavoratrici; ma i padri fondatori
della Comunità non ritennero necessario introdurre disposizioni più
specifiche né tanto meno significativi strumenti di intervento.
Fondamentalmente si pensava che il miglioramento delle condizioni
sociali sarebbe stato una logica e inevitabile conseguenza
dell’integrazione economica. Uniche eccezioni erano il Fondo sociale
Europeo, strumento finanziario previsto dagli autori del Trattato CE
agli artt. 123-127 per favorire la formazione e qualificazione
professionale, promuovere la mobilità geografica dei lavoratori e per
migliorare il tenore di vita delle popolazioni europee, in particolare
delle regioni più sfavorite e un limitato coordinamento delle politiche
degli Stati membri in materia sociale
1
.
1
Cfr: M. Roccella - T. Treu, “Diritto del lavoro della Comunità europea”, ed Cedam, Padova,
2002.
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Nei primi anni di integrazione sono quindi prevalsi,
nell’azione della Comunità, l’obiettivo della realizzazione del mercato
comune, con l’applicazione del principio di non discriminazione, e
una concezione strettamente economica e non autonoma della politica
sociale. Il progresso sociale, inteso come miglioramento ovvero
parificazione verso l’alto delle condizioni di lavoro e di vita
all’interno del mercato comune, sarebbe stato il risultato del progresso
economico e delle politiche economiche della Comunità e avrebbe
contribuito anche all’ eliminazione dei residui ostacoli alla libera
circolazione
2
.
Il Trattato di Roma (e tutti i trattati istitutivi delle tre
Comunità) celebrava quindi “ il matrimonio tra il Signor market e la
Signora labour, una coppia unita dal tradizionale patto di
subordinazione delle ambizioni sociali di lei alla carriera economica
di lui”
3
. Questa visione dell’ azione sociale della Comunità, frutto
dell’ impronta neoliberista che connotava l’azione dei paesi fondatori
in campo economico, fu mitigata da alcune concessioni sociali,
strappate dalla Francia, come l’attribuzione di limitate competenze
alla Comunità in materia sociale e la previsione di un principio sulla
parità retributiva tra uomo e donna (art.119) e sui congedi retribuiti
(art.120).
2
Per approfondimenti vedi Rapporto Spack del 1956 e Art.117 Trattato originario.
3
Così: G. Arrigo, “Il diritto del lavoro dell’Unione europea” ed. Giuffrè, Milano, 1998, p.109.
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In fin dei conti si attribuiva alla politica sociale una
“funzione di correttivo (sociale)” dell’ integrazione dei mercati. Il
campo delle competenze riservate alle politiche sociali dei paesi
membri non poteva essere invaso dalla Comunità, che limitava la sua
azione alla possibilità della Commissione di sollecitare una maggiore
cooperazione in alcune materie.
Vi era, dunque, uno scarto evidente tra gli obiettivi della
Comunità in materia sociale, come indicati nel Preambolo e nell’ art.
2 del trattato istitutivo, secondo i quali gli Stati membri dichiarano di
voler “assicurare mediante un’ azione comune il progresso economico
e sociale dei loro paesi”, di avere come “scopo essenziale il
miglioramento costante delle condizioni di vita e di occupazione dei
loro popoli” (Preambolo) e che “la Comunità ha il compito di
promuovere [….] un miglioramento sempre più rapido del tenore di
vita (art.2) e le competenze effettivamente attribuite alla Comunità in
materia sociale , gli artt. 48-51 (libera circolazione dei lavoratori) e il
Titolo III (artt.117-128).
La creazione di un grande mercato comune, tuttavia, va
accompagnata da politiche strutturali, condotte e finanziate nel
contesto comunitario.
Di tale esigenza, ovvero della necessità di una politica
sociale attiva che ponesse l’accento sull’altro principio fondamentale
dell’integrazione comunitaria che è “l’armonizzazione nel progresso”,
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si fecero portatori alla fine degli anni ’60 la Commissione e,
soprattutto, il Parlamento europeo. I governi recepirono questa nuova
concezione dinamica dell’ azione sociale della Comunità nel vertice di
Parigi dei Capi di Stato e di Governo del 1972 , che non a caso è
considerato il momento del “risveglio” del diritto sociale europeo da
quel lungo sonno durato quasi tre lustri.
Qui i governi nazionali concordarono sull’incapacità del
mercato comune di garantire un progresso sociale uniforme nella
Comunità e sull’ importanza di un’ azione vigorosa nel campo sociale;
pertanto autorizzarono un primo “programma d’azione sociale” che il
Consiglio adottò nel 1974, su proposta della Commissione.
Si cominciò allora a parlare di un vero e proprio “spazio
sociale europeo e venne riconosciuta la funzione essenziale della
concertazione sociale. Il Programma d’azione del 1974 riconobbe e la
dimensione sociale del mercato interno e la necessità di un’evoluzione
della politica sociale, con interventi diretti della Comunità in materia
di occupazione, di condizioni di lavoro e di sicurezza sociale. Negli
anni ’80 fu ancora la Francia, e in particolare il suo presidente della
Repubblica Francois Mitterand, sostenuto anche dal cancelliere
tedesco Willy Brandt, a ribadire la necessità di un “prolungamento
sociale” dell’Unione economica e di uno spazio sociale europeo
basato su azioni incisive della Comunità, con obiettivi prioritari
l’occupazione e la protezione sociale e metodo fondamentale il
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dialogo sociale
4
. Ma sia l’approccio “idealista” francese
all’integrazione sociale sia quello “neo realista” britannico erano
sempre subordinati all’ accordo unanime dei governi nazionali nel
Consiglio: questo il vero freno al progresso sociale!
5
Si continuava a verificare un ridimensionamento periodico
dei programmi via via proposti dalla Commissione rispetto alle
ambizioni dichiarate: le resistenze al processo di armonizzazione
normativa in campo sociale facevano propendere piuttosto verso una
“sufficiente convergenza dei sistemi”.
6
Si è dovuto attendere fino al 1987 perché, nel quadro dell’
Atto Unico Europeo (AUE), la Comunità ricevesse, nel campo
sociale, delle adeguate competenze che le hanno permesso di
continuare a progredire sulla via di una politica sociale europea di
coesione
7
.
L’AUE introdusse nel Trattato alcune innovazioni
importanti al fine di un effettivo sviluppo dell’armonizzazione sociale,
prevedendo il superamento della pura e semplice cooperazione tra i
Governi e la possibilità che il Consiglio, su proposta della
commissione, emanasse, a maggioranza qualificata, atti normativi
4
Vedi Commissione – Programma sociale “Per uno sviluppo della politica sociale della Comunità:
prospettive e opzioni”, 1981.
5
Cfr: G. Arrigo “Il diritto del lavoro dell’Unione europea” ed. Giuffrè, Milano, 1998.
6
Cfr: T. Treu, “L’Europa Sociale: Problemi e prospettive” in Diritto delle relazioni industriali,
2001, n. 3, pag.318 ss.
7
Cfr: B Borchardt, “L’unification europeènne”, Ufficio delle pubblicazioni ufficiali delle
Comunità europee, Lussemburgo, 1999.
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13
(direttive) in alcuni settori strategici, fra i quali la salute e la sicurezza
del lavoro
8
. La vera novità fu rappresentata, tuttavia, dall’ art. 118 B
(ora art. 139) che ampliava e sviluppava a livello europeo il dialogo
tra le parti sociali, prefigurando anche la stipula di contratti collettivi
di lavoro applicabili su tutto il territorio comunitario
9
.
L’ AUE poneva, quindi, come base dell’ azione comunitaria
i diritti fondamentali sanciti dalle costituzioni degli Stati membri,
dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle
libertà fondamentali e dalla Carta sociale europea del 1961
10
.
1.2 -- La formulazione di una politica sociale comunitaria
Dopo l’AUE, pur sfruttando la Commissione le poche basi giuridiche
sociali del Trattato con proposte di direttive al Consiglio, fu il
Memorandum belga del 1987 a rilanciare la necessità di dotare il
sistema giuridico comunitario di un insieme organico di diritti sociali
fondamentali.
8
Vedi in particolare gli artt. 118 A e 118 B, ora 138 e 139; in proposito V. Guizzi “ Manuale di
diritto e politica dell’Unione europea”, ed. Cedam, Padova, 2001.
9
Secondo il trattato sull’Unione europea, prima di presentare una proposta al Consiglio, la
Commissione è tenuta a condurre consultazioni degli imprenditori e dei lavoratori, raccogliendo
pareri e raccomandazioni delle due parti , le quali possono anche decidere di avviare una
trattativa fra di loro per la stipulazione di un accordo sulla materia della proposta originaria, il
quale è in tal caso recepito, a loro richiesta, e su proposta della Commissione, sotto forma di
direttiva del Consiglio.
10
Cfr: P. Magno “ Diritti sociali nell’ordinamento dell’Unione Europea dopo Amsterdam” in DL,
1998 n.2 , pag.17 ss.
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Il veto della Gran Bretagna e dell’Irlanda, contrarie a tale
proposta, portò il resto della Comunità, ovvero undici Stati membri, a
firmare, il 9.12.1989, a Strasburgo, la Carta Comunitaria dei diritti
sociali fondamentali dei lavoratori
11
, adottata come dichiarazione
solenne e priva degli effetti giuridici che l’art. 189 del Trattato
riconduce agli atti normativi comunitari tipici.
In questo documento “atipico”, in cui è contenuto “il
progetto europeo di sviluppo dei diritti sociali dei lavoratori”
12
si
afferma “che, nel quadro della costruzione del mercato unico europeo,
occorre conferire agli aspetti sociali la stessa importanza che agli
aspetti economici e che è pertanto opportuno svilupparli in modo
equilibrato”.
Dal punto di vista del contenuto la Carta non presentava un
carattere particolarmente innovativo: essa si limitava per lo più a
ribadire diritti già garantiti ai lavoratori o dal Trattato stesso (libera
circolazione, parità di trattamento tra uomo e donna) o da atti di diritto
internazionale quali la Convenzione dell’ Organizzazione
Internazionale del Lavoro (OIL) o la Carta Sociale Europea del 1961.
11
La Carta comunitaria dei diritti fondamentali, in realtà, è stata adottata dai “Capi di Stato e di
Governo degli Stati membri” come documento privo di valore giuridico autonomo, alla stregua
di un mero atto di indirizzo politico diretto, oltre che agli stessi Stati membri, alle istituzioni
comunitarie cui spetta tradurre i principi in atti comunitari.
12
Cfr: P. Magno, “Diritti sociali nell’ordinamento dell’Unione Europea dopo Amsterdam” in DL,
1998, n.2, pag.17 ss.
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In realtà l’importanza della Carta stava nella volontà,
espressa dagli Stati membri che l’ avevano approvata, di conferire al
mercato unico quella dimensione sociale non sufficientemente messa
in luce attraverso l’AUE, anche se veniva ribadito il principio di
sussidiarietà, con l’affermazione che “la responsabilità delle iniziative
da prendere per l’attuazione dei diritti sociali incombe sugli Stati
membri […] e, nell’ambito delle sue competenze, alla Comunità”.
Pur cambiando con questo documento anomalo, quanto ad
efficacia, l’intensità dell’intervento, non è però abbandonata l’idea di
perseguire in sede comunitaria “un sistema di diritto del lavoro
persuasivo e completo”
13
. Sulla scorta della Carta, infatti, l’azione
delle istituzioni in campo sociale ha ricevuto un nuovo impulso che si
è tradotto in numerose proposte di direttive e nel Programma d’azione
sociale della Commissione adottato il 29 novembre 1989 .
Tuttavia, nonostante le novità e l’impegno della
Commissione, la politica sociale stentava a decollare. Per questo
motivo, alla conferenza intergovernativa del 1992 che ha condotto alla
firma del Trattato di Maastricht, si è deciso di ampliare la dimensione
sociale della Comunità, estendendo le sue competenze anche a settori
fino ad allora esclusi, in linea con le disposizioni della Carta del 1989.
13
Cfr: T. Treu “L’Europa Sociale: Problemi e prospettive” in Diritto delle relazioni industriali,
2001, n.3, pag.318 ss.
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Tale decisione incontrava, però, la netta opposizione del
Regno Unito, deciso a bloccare qualsiasi intervento comunitario in
questo campo e a negare l’assenso all’ introduzione delle disposizioni
della Carta fra le disposizioni del Trattato relative alla politica sociale.
La contrapposizione fu superata solo facendo ricorso ad uno
stratagemma, una soluzione di compromesso (avanzata dal Presidente
della Commissione Delors e dal primo ministro olandese Lubbers)
che alcuni chiamano “pasticcio” giuridico: il Trattato CE rimaneva
sostanzialmente immutato per quanto riguarda gli articoli sulla
politica sociale
14
, ma ad esso veniva aggiunto un protocollo, cui è
allegato l’Accordo sulla Politica Sociale (APS), sottoscritto da 11
Stati (con esclusione del Regno Unito), che in pratica riscriveva gli
articoli del trattato.
Nel protocollo, gli undici Stati firmatari venivano
autorizzati “a far ricorso alle istituzioni, alle procedure e ai
meccanismi del Trattato allo scopo di prendere tra loro e applicare,
per quanto di loro competenza, gli atti e le decisioni necessarie per
rendere effettivo il suddetto accordo”, specificando inoltre che tali atti
e le eventuali conseguenze finanziarie “non sarebbero stati applicabili
al Regno Unito”, che in proposito avrebbe usufruito di uno dei
cosiddetti opting-out.
14
Il TUE aveva introdotto qualche modifica negli articoli 49 (ora 40), con il passaggio dalla
procedura di cooperazione alla nuova procedura di codecisione , nonché nell’ art. 125 (ora 148)
con la sostituzione della procedura di cooperazione alla precedente procedura di consultazione.
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Analizzando più da vicino il contenuto dell’APS allegato al
Protocollo va sottolineato che esso, nel preambolo, esprimeva
l’impegno di attuare la Carta sociale del 1989 e “di proseguire” quel
progetto globale di politica sociale autonoma e non più circoscritta a
materie e settori specifici
15
.
L’art. 1 dell’Accordo ribadiva sostanzialmente gli obiettivi
propri della Comunità espressi nei Trattati attuali e nello stesso TUE,
quali la promozione dell’occupazione, il miglioramento delle
condizioni di vita e di lavoro, cui si aggiungeva una protezione sociale
adeguata e la previsione espressa del dialogo sociale. Particolare
attenzione era dedicata al problema della eliminazione delle
discriminazioni e delle varie forme di emarginazione sociale
16
.
Le differenze più evidenti rispetto al Trattato di Maastricht
consistono soprattutto nell’allargamento dei poteri del Consiglio nella
procedura di assunzione delle misure ritenute necessarie rispetto a
quanto previsto dal vecchio art. 118 del Trattato CE (art. 2 dell’
Accordo) e nella possibilità offerta agli Stati membri di affidare alle
“parti sociali” l’attuazione delle eventuali normative comunitarie
adottate in materia.
15
Cfr: G. Arrigo, “Politche sociali comunitarie” in Dizionario di diritto comunitario del lavoro, a
cura di :Baylos Grau, D’Antona, Sciarra, ed. Monduzzi, Bologna, 1996.
16
Cfr: V. Guizzi, "Manuale di diritto e politica dell’Unione Europea”, ed. Cedam, Padova, 2001.