II
“assicurare le fonti di prova”
1
, nella seconda, tra le funzioni della polizia
giudiziaria, si indicava quella di operare al precipuo scopo di acquisire le
vere e proprie prove del reato.
Quindi, nel previgente sistema processuale, la polizia giudiziaria svolgeva,
altresì, un’attività a fine propriamente probatorio, con la conseguenza che un
qualsiasi risultato dell’istruzione preliminare, poteva servire ai fini del
giudizio ed essere liberamente valutato dal giudice; in altre parole,
attraverso il principio della libertà dei mezzi di prova, nonché, attraverso
l’insieme delle norme che disciplinavano il rapporto di polizia, le letture
dibattimentali e la testimonianza di ufficiali ed agenti, si era ottenuto il
risultato di riconoscere agli atti compiuti da tale organo, il valore di vere e
proprie prove.
2
Ed in questo quadro, in cui l’indiziato-imputato era
considerato fonte di prova, piuttosto che soggetto della propria difesa, il suo
“sommario interrogatorio”, anzichè, momento autodifensivo principale,
costituiva lo strumento principe per “costringerlo” a fornire la prova della
propria responsabilità, provocandone la confessione.
Probabilmente, fu con l’avvento della Costituzione Repubblicana che le
cose si apprestarono a cambiare ed in maniera definitiva.
1
Attualmente, la polizia non dà più “notizia di tutti gli elementi di prova raccolti” (art. 2 c.p.p.
abr.), ma informa il magistrato delle “fonti di prova” (art. 347 c.p.p.) individuate, alla cui
assunzione provvederà, poi, nel contraddittorio delle parti, il giudice del dibattimento o,
eccezionalmente, dell’incidente probatorio: oggi, la polizia giudiziaria pur mantenendo una certa
sua autonomia funzionale (peraltro, aumentata in occasione di quei provvedimenti eccezionali del
1992), opera principalmente allo scopo di rendere possibile all’organo del pubblico ministero
l’esercizio di quella sua potestà principale, quale, il promuovimento dell’azione penale (art. 326
c.p.p.).
2
Tuttavia, di fronte a questa effettiva equiparazione tra gli atti (sostanzialmente istruttori) compiuti
dalla polizia giudiziaria e quelli (propriamente istruttori) compiuti nelle fasi immediatamente
successive, non corrispondeva un’identica disciplina sul punto del diritto alla difesa; determinante
nella risoluzione di questa inammissibile sperequazione alla luce dell’art. 24 co. 2 Cost., fu la Corte
Costituzionale con la sentenza n° 86 del luglio 1968.
III
I principi emergenti dalle norme costituzionali (inviolabilità del diritto alla
difesa e della libertà personale, presunzione di non colpevolezza, ecc.)
imponevano la realizzazione di un “nuovo” processo, nel quale, la posizione
dell’imputato veniva fondamentalmente rivalutata in un ottica prima di
allora sconosciuta: quella garantista. Fu, appunto, questa rivalutazione della
dimensione individuale, che nel portare ad una lenta (ed anche, non poco
contrastata!)
3
evoluzione della struttura primitiva del codice Rocco, venne
coinvolgendo, altresì, diversi istituti processuali, compreso il “sommario
interrogatorio” di polizia che, in origine, si presentava come un atto
tutt’altro che garantito!
4
Così, a cominciare dalla “piccola” riforma del 1955, fino alle importanti
innovazioni occorse a cavallo degli anni settanta, non senza dimenticare il
fondamentale ruolo propositivo che svolse in merito la Corte
Costituzionale,
5
si giunse progressivamente (anche se, non senza pericolosi
retournement!)
6
a rendere possibile, nel più volte riformulato art. 225 c.p.p.,
un “nuovo” interrogatorio di polizia, calato in una “nuova” veste di
3
Come vedremo, di non poche resistenze ed in varie occasioni, si rese autrice, con la sua
giurisprudenza, la stessa Suprema Corte di cassazione.
4
Di fatto, alla polizia giudiziaria era consentito di ricorrerne al compimento, soltanto nei confronti
degli arrestati, senza che questi potessero contare dell’assistenza di un difensore e senza che agli
stessi fosse riconosciuta alcuna facoltà di scelta sul comportamento processuale da tenere di fronte
all’autorità, ma anzi, individuando nell’eventuale atteggiamento non collaborativo, quale quello
concretatosi in un eventuale silenzio serbato dall’interrogando a fronte delle domande
dell’inquirente, non l’esercizio di un diritto, ma bensì, un comportamento contra jus.
5
Si pensi all’importanza che nell’evoluzione del diritto alla difesa dell’imputato sotto il profilo
dell’assistenza tecnico-professionale, in particolare, con riguardo all’atto di interrogatorio,
assunsero le sentenze n° 86/68 e 190/70 della Corte Costituzionale (anche se il panorama delle
decisioni attraverso cui la Consulta venne progressivamente ristrutturando la fisionomia del
processo penale in adeguamento al dettato costituzionale, fu molto più ampio...)
6
Nel 1974, sotto il “fuoco” incontrollato di una criminalità sempre più sanguinaria e meglio
organizzata, si pensò che l’unico modo per arginare il dilagante fenomeno fosse quello di ampliare
quegli stessi poteri che la polizia giudiziaria, nel non lontano 1969, si era vista ridimensionati e ciò,
in un’ottica di maggior garanzia verso l’indiziato. In particolare, con la legge n° 497 del 1974,
quella “scelta di garanzia” operata appena cinque anni prima, venne in parte disattesa, nonostante,
proprio in quello stesso periodo, il 3 aprile 1974, fosse stata di nuovo e solennemente riconfermata
con l’approvazione della legge-delega n° 108 per l’emanazione del nuovo codice di procedura.
IV
garanzia, quella stessa veste di garanzia che oggi, fondamentalmente, assiste
l’assunzione delle “sommarie informazioni” di cui al 1° comma dell’art. 350
c.p.p. E’ quindi sulla base di queste premesse, che potremmo considerare
l’ultima norma citata, come una “norma di risultato” ed il relativo istituto
contemplato, come il frutto della trasformazione in chiave garantista del
“vecchio” interrogatorio di polizia.
7
Di conseguenza, mi pare chiaro il
motivo per cui nella trattazione degli attuali poteri di audizione della
persona sottoposta alle indagini da parte della polizia giudiziaria, non si
possa non avere lo sguardo rivolto anche al passato, al previgente sistema
processuale, proprio perché è dal passato che le varie prescrizioni e modalità
esecutive
8
consacrate nell’attuale norma dell’art. 350 co. 1 c.p.p. e la cui
osservanza si pone come esigenza imprescindibile al fine di rispettare, alla
luce del dettato costituzionale, il diritto di difesa e della personalità
dell’individuo, hanno avuto la loro lunga e travagliata genesi. Ed è proprio
di questa evoluzione che ho intenzione di parlare…
7
Potremmo in questo senso affermare, come l’attuale art. 350 c.p.p. ed il previgente, suo
corrispondente nel codice Rocco, art. 225 c.p.p. nella sua originaria formulazione, rappresentino gli
estremi opposti di una lunga e sofferta evoluzione in termini di garanzia, che ha interessato, in
realtà, non solo l’istituto di cui trattasi, ma l’intero processo penale italiano, passato nel 1988 ad un
sistema di tipo accusatorio, non all’improvviso, ma grazie ad uno processo lento e graduale,
avviatosi in questa direzione già diverso tempo prima, probabilmente, già all’indomani della caduta
del regime fascista.
8
Mi riferisco, in particolare, sia al principio di garanzia che nel 1° comma dell’art. 350 c.p.p.
esclude che la polizia possa assumere “sommarie informazioni” da chi si trovi in “stato di arresto o
di fermo”, sia a quell’altro principio che nel successivo 3° comma richiede come “necessaria”, la
contemporanea “assistenza del difensore” ed infine, alla richiamata osservanza in sede di
assunzione di tali informazioni, delle prescrizione contenute nella norma dell’art. 64 c.p.p., fra le
quali, spicca quella di cui al 3° comma (ora, lett. b)) concernente l’avvertimento della “facoltà di
non rispondere ad alcuna domanda”.
1
CAPITOLO PRIMO
L’interrogatorio di polizia e la sua evoluzione garantista
SOMMARIO: 1. Ragioni dell’esclusione del
difensore, dalla “Novella” del 1955 alla legge n°
932/69: l’idea del difensore come “terzo incomodo”
2. La svolta di garanzia nella sentenza n° 190/70
della Corte Costituzionale 3. La presenza del
difensore quale conditio sine qua non nella legge n°
497/74 e la giurisprudenza costituzionale sul diritto
di difesa
1 – Iniziando ad occuparci del diritto di difesa dell’indiaziato-imputato sotto
il profilo dell’assistenza tecnica, occorre, fin da subito sottolineare, come il
riconoscimento al difensore del potere di presenziare al compimento
dell’atto di cui si discute, venne attribuito solo in seguito ad alcuni decisivi
interventi della Corte Costituzionale. E proprio riguardo all’evoluzione del
diritto di difesa nel processo penale, è curioso valutare come la Consulta
abbia svolto un ruolo sostanzialmente trainante rispetto agli altri poteri cui
sarebbe spettato (primo fra tutti, il potere legislativo) il dovere di rendere
concreta ed operante la relativa disposizione costituzionale di cui all’art. 24
co. 2 Cost. Ed in effetti, negli anni cui sono riconducibili le sue più
importanti decisioni in materia, questa riuscì, di fatto, da un lato, a
condizionare le scelte di un Legislatore che si dimostrò veramente poco
sollecito alla risoluzione di problemi, come quello di cui stiamo dicendo,
2
così tanto importanti anche per uno sviluppo in senso democratico del paese
e, dall’altro, a neutralizzare, almeno parzialmente, gli effetti
dell’orientamento riduttivo dei principi costituzionali che molto spesso
caratterizzò l’azione della magistratura ordinaria, la quale, non solo in
diverse occasioni venne astenendosi dall’adottare (come sarebbe stato,
invece, suo preciso dovere) interpretazioni adeguatrici alla nostra Carta
Fondamentale, ma, addirittura, giungendo a rifiutarsi di applicare taluna tra
le più qualificanti delle sentenze di accoglimento al cui pronunciamento la
Corte addivenne proprio sul tema di cui mi accingo a trattare.
In origine, l’atto di interrogatorio e, non solo quello “sommario” di polizia,
si svolgeva senza che il difensore, attraverso la sua partecipazione, potesse
fattivamente esplicare il proprio mandato difensivo: questo, non solo nel
vigore del previgente codice Rocco, ma altresì, nei codici anteriori,
malgrado le prime proposte dirette ad ottenere tale partecipazione, risalgono,
nientemeno, che agli inizi del secolo appena trascorso e proprio in occasione
dei lavori per la riforma sfociata poi nel codice di procedura penale del
1913. Alla fine e con una soluzione che potremmo definire analoga a quella
che sarebbe stata poi accolta nella famosa “Novella” del 1955, prevalse
l’idea di limitare l’assistenza difensiva solo a determinati atti istruttori, tra i
quali era, tuttavia, escluso, l’interrogatorio dell’imputato. Tale esclusione, fu
allora giustificata manifestando dubbi sull’opportunità e sull’utilità di tale
assistenza, ed affermando, altresì, alquanto sbrigativamente, come la vera
necessità del contraddittorio si ponesse soltanto per gli atti istruttori
irripetibili in dibattimento.
Il periodo successivo, durante il quale fu preparata la riforma del codice del
1930, non fu, poi, il più idoneo per rimettere in discussione un tema così
3
denso di implicazioni liberali; d'altronde, da un sistema processuale quale
quello che si andava tratteggiando, ispirato alla progressiva eliminazione da
esso di tutte le “applicazioni processuali delle dottrine demo-liberali” per
cui “l’individuo è posto contro lo Stato” e “l’Autorità è considerata come
insidiosa soprafattrice del singolo”,
1
non ci si poteva attendere nulla di
diverso! Sicuramente dal passaggio dal codice del 1913 a quello del 1930, si
verificò un graduale peggioramento a danno del diritto di difesa.
2
Ed in
effetti, nella versione definitiva del codice, venne rifiutato al difensore il
potere di intervenire a quegli atti istruttori già indicati nell’art. 198 co. 1
c.p.p. del previgente codice, sostenendosi, a giustificazione, come tale
assistenza rappresentasse null’altro che un “ingombro” al regolare
compimento di tali atti. Così, le istanze riformiste, rimasero (e per forza!)
del tutto minoritarie sino al 1948, quando trovarono nuova esca nel dettato
costituzionale dell’art. 24 co. 2 che sanciva solennemente l’inviolabilità del
diritto alla difesa “in ogni stato e grado del procedimento”.
Ed in effetti, fu proprio con l’avvento della Costituzione che l’allora sistema
processuale manifestò tutta la sua inadeguatezza ed il suo anacronismo: ora
l’individuo era destinatario di precise ed importanti garanzie, fra le quali,
sicuramente, quelle emergenti dall’anzidetto disposto dell’art. 24 co. 2
Cost., che poneva in primissimo piano la garanzia del contraddittorio e
dell’assistenza tecnico-professionale. E’ chiaro, come questa rivalutazione
della dimensione individuale, non potesse non scontrarsi con l’impostazione
autoritaristica propria di quel codice, consistente, appunto, nel volersi
1
Sono parole tratte dalla Relazione al progetto preliminare del codice del 1930.
2
L’on. Fusco, nel corso dell’appassionato dibattito che l’Assemblea Costituente tenne sul Titolo I,
parte I della Costituzione, affermava come il codice di procedura penale del 1930 dovesse
considerarsi “più contro gli avvocati che contro gli imputati…”.
4
sacrificare ogni garanzia dell’imputato ed ogni possibilità di un
accertamento dialettico della verità, a fronte dell’autorità del pubblico
ufficio dell’accusa, consolidando, in definitiva, una situazione di maggior
privilegio verso la potestà punitiva rispetto al diritto individuale di affermare
la propria libertà, partecipando alla funzione giurisdizionale su di un piano
di parità con l’accusa.
Dalla solenne proclamazione di cui all’art. 24 co. 2 Cost.., che altro non era
che la traduzione normativa dell’importanza (il Bellavista diceva,
“dell’imprenscindibilità della funzione del difensore”
3
) nasceva, quindi,
l’esigenza di realizzare un processo in cui le due parti naturali si
confrontassero ad armi pari, secondo un principio dialettico, contro quel
principio d’autorità allora imperversante.
A questo punto, la c.d. “Novella” del 1955, restituendo nuovamente al
difensore il diritto di intervenire a determinati atti dell’istruttoria formale,
rappresentò il primo passo decisivo verso un progressivo adeguamento del
nostro processo ai nuovi principi costituzionali. La soluzione seguita in tale
occasione, fu di stampo analogo a quella che era stata a sua volta accolta nel
codice del 1913, ovvero, distinguendo in seno agli atti istruttori, quelli in
relazione ai quali si riteneva indispensabile la presenza del difensore, da
quelli, tra i quali anche l’interrogatorio dell’imputato, per cui si riteneva
fosse sufficiente ad assicurare il rispetto del disposto costituzionale, il
consentire al difensore di prendere visione ed estrarre copia del contenuto
dell’atto compiuto in sua assenza. Senonchè, proprio con riferimento all’atto
di interrogatorio, questa facoltà di prendere visione dei verbali depositati,
era di fatto piuttosto limitata dal potere del giudice istruttore di ritardare,
3
Bellavista, La difesa nell’istruzione penale, in Riv. dir. proc. pen., 1956, pag. 36.
5
d’ufficio o su richiesta del pubblico ministero, tale adempimento, con la
conseguenza che l’intervento del difensore avrebbe potuto esercitarsi non
solo dopo la formazione dell’atto, ma anche, a notevolissima distanza di
tempo (art. 304-quater co. 5 c.p.p.).
Ancora una volta, malgrado le buone intenzioni, si giungeva, di fatto, ad
escludere il diritto del difensore ad intervenire all’interrogatorio
dell’imputato e lo si faceva adducendo le solite, a dir poco, discutibili
giustificazioni. Un così poco lusinghiero giudizio, sulla concreta scelta fatta
dal Legislatore del 1955, si può, penso, condividere leggendo alcuni passi,
quelli a mio avviso più significativi, della Relazione Ministeriale alla legge
n° 517. In tale documento, considerato davvero “digiuno di ogni psicologia
giudiziaria”,
4
venne motivato il mantenimento di tale esclusione,
sostenendosi che la privacy dell’interrogatorio avrebbe reso più schiette e
spontanee le dichiarazioni dell’interrogando, il quale, avrebbe così potuto
“rispondere con la maggior franchezza possibile alle contestazioni... al di
fuori di ogni preoccupazione o soggezione derivante dalla presenza di
terzi”.
Ciò che di tali argomentazioni appare sconcertante, è il fatto di come si
considerasse causa possibile di condizionamento nel compimento dell’atto,
la presenza del difensore, cioè dell’“io formale” dell’imputato, del suo
“orecchio giuridico”,
5
di quel soggetto che, come diceva il De Marsico,
“nasce dall’interesse della parte” e non invece considerare, causa possibile
di soggezione, come invece sarebbe stato più ovvio, la partecipazione del
pubblico ministero, ossia, dell’organo accusatore.
4
Sempre, Bellavista, La difesa nell’istruzione penale, cit. pag. 42.
5
Sempre, Bellavista, La difesa nell’istruzione penale, cit. pag. 37.
6
Leggendo tali considerazioni, si potrebbe essere indotti a pensare come nella
tanto dibattuta questione dell’assistenza difensiva all’interrogatorio
istruttorio, ci fossero contrapposti, da un lato, il Legislatore, sordo ad ogni
istanza riformista in questa direzione e, dall’altro, la dottrina, che attraverso
i vari convegni non perdeva occasione per manifestare unitariamente la
propria convinzione sulla necessità di operare, su questo punto, una decisa
riforma dell’istruzione penale.
In realtà, se è vero che la maggior parte degli autori si dichiarava favorevole
ad una più incisiva partecipazione della difesa alla fase dell’istruttoria,
consentendo, innanzitutto, l’anzidetta partecipazione del difensore
all’interrogatorio, diversi altri, sostenuti da una “tenace” giurisprudenza
della Cassazione, si ponevano sul fronte diametralmente opposto,
affermando come tale presenza avrebbe potuto rivelarsi, addirittura,
pregiudizievole per la giustizia e per l’imputato stesso.
6
E furono, tra l’altro, queste stesse argomentazioni ad essere riproposte da
più parti anche autorevoli, per negare successivamente l’estensione in senso
“spaziale” delle conquistate garanzie difensive dell’istruzione formale, a
quella condotta dal pubblico ministero. Anche su questo punto, dopo un
periodo piuttosto altalenante, la Corte di Cassazione con diverse decisioni,
venne pronunciandosi nel senso della non-estensione, adducendo a
giustificazione, la sostanziale “diversità di struttura esistente tra le due
forme istruttorie”.
7
6
Fra gli altri, si veda Leone, il quale, in Criteri direttivi per una riforma del processo penale,
Napoli, 1965, pag. 133 ss., sosteneva come l’interrogatorio avesse valore in quanto costituisse un
dialogo fra due persone; sullo stesso piano, Altavista e Tartaglione, i quali, nella medesima
raccolta, affermavano come la presenza difensiva potesse, addirittura, nuocere agli interessi
dell’imputato.
7
Cass. Sez. I, 28/04/65, Garbuglia, in Cass. Pen., 1966, pag. 837, m. 1482.
7
Quest’ultimo indirizzo giurisprudenziale, venne accolto sfavorevolmente da
quella sopra citata prevalente dottrina, le cui istanze, tuttavia, non tardarono
a trovare riconoscimento in un primo e decisivo intervento della Corte
Costituzionale, o meglio, in due successive decisioni, nelle quali si respinse
quell’idea di fondare l’inapplicabilità delle norme di cui agli artt. 304-bis,
ter, quater c.p.p. all’istruzione sommaria, sulla base di una pretesa
incompatibilità naturale tra questa e l’istruzione formale: in realtà,
un’operazione estensiva ed a livello puramente interpretativo, si sarebbe
potuta largamente giustificare anche senza bisogno di una declaratoria di
illegittimità, se solo la Cassazione non avesse insistito nell’atteggiamento
interpretativo contrario; e così, alla Consulta, visto “l’insuccesso” della
sentenza n° 11/65,
8
non restò che intervenire ed in maniera più decisa, con la
sentenza n° 52/65, dichiarando, appunto, illegittimo costituzionalmente l’art.
392 co. 1 c.p.p. nella parte in cui, con la sua particolare formulazione,
consentiva la disapplicazione all’istruttoria condotta dal pubblico ministero,
di quelle disposizioni garantiste governanti lo svolgimento del rito formale.
Le ragioni di una tale equiparazione, furono quindi riconducibili
all’esigenza imprescindibile di colmare quel divario garantistico ritenuto,
appunto, ingiustificato, fra un rito istruttorio, quello formale, nel quale certe
garanzie della difesa erano assicurate e l’altro, quello sommario, dove il
rispetto di tali garanzie era affidato alla discrezionalità dell’organo
dell’accusa.
8
Sentenza n° 11/65 della Corte Costituzionale, in Giur. Cost., 1965, pag. 85 ss. Si trattò di una c.d.
“sentenza interpretativa di rigetto”, attraverso la quale, la Consulta, respingendo la questione di
legittimità dell’art. 392 co. 1 c.p.p., venne affermando che la formula utilizzata nella norma
suddetta (“in quanto applicabili...”), voleva “significare la usuale avvertenza, in certo modo
superflua, di tenere presenti i casi in cui la estensione non è possibile per la natura degli istituti, e
non vale a conferire all’interprete poteri di valutazione con risultato opinabile, in base ad un
giudizio sulla diversa natura dei due tipi di istruzione.”
8
Le stesse ingiustificate differenze di regolamentazione sul punto del diritto
di difesa, furono di nuovo richiamate dalla Corte Costituzione per fondare
un’altra importante decisione, definita a suo tempo, e non a torto, come una
decisione “di portata storica”.
9
Stiamo parlando della sentenza n° 86 del 2-5
luglio del 1968,
10
ossia di una decisione che proprio ai fini della nostra
trattazione assume un ruolo decisivo. La Corte, in tale occasione e mutando
orientamento,
11
riconobbe come quelle stesse garanzie difensive, già
operanti per i riti istruttori in senso proprio, non potessero non estendersi
anche alla fase c.d. della preistruttoria; di fatti, visto che ad essere compiuti
in tale fase erano atti sostanzialmente istruttori, che per nulla si
differenziavano (a parte certa loro sommarietà) da quelli compiuti nelle fasi
successive, non si sarebbe potuta ulteriormente giustificare una disciplina
diversificatrice sul punto del diritto di difesa che, appunto, si traducesse in
una sopprimibilità, o quanto meno, restringibilità di detto diritto in base alla
fase in cui tali atti venivano compiuti; ciò che doveva rilevare di un atto, ai
fini di cui stiamo dicendo, erano, dunque, la sostanza ed il suo scopo e non
la fase processuale nella quale questo veniva compiuto.
Quindi, con tale sentenza, il processo di estensione in senso spaziale delle
garanzie difensive, ossia, la trasposizione del modello creato dal legislatore
9
Sono parole di Conso, estratte da un articolo, Il difensore e l’interrogatorio dell’imputato,
pubblicato su La Stampa del 6 luglio 1968 a primo commento della sentenza n° 86/68 della Corte
Costituzionale, riportato in Arch. Pen., 1971, I, pag. 278.
10
Con tale decisione (pubblicata in Giust. Pen., 1968, III, pag. 389) furono dichiarati illegittimi
costituzionalmente per contrasto con gli artt. 3-24 Cost. gli artt. 225, 232 c.p.p. nella parte in cui
rendevano possibile nella fase preistruttoria il compimento di atti istruttori senza il rispetto degli
artt. 390, 304-bis-ter-quater c.p.p.
11
Il riferimento è alla sentenza n° 10 del 7 febbraio 1963 (in Riv. dir. proc. pen., 1963, pag. 613),
nella quale la Corte riconobbe come: “L’art. 24 Cost., in tutto il suo contenuto, si riferisce
esclusivamente al giudizio e… non si estende a considerare i momenti anteriori dai quali questo
trae origine.” Nella sentenza n° 86/68, la Corte, venne, invece, respingendo l’obiezione, giudicata
troppo formalistica, dell’estraneità dell’istruttoria preliminare al “giudizio” di cui al 24 co. 2 Cost. e
proprio perchè gli artt. 225 e 232 c.p.p. consentivano il compimento di atti “preordinati ad una
pronuncia penale...”.
9
del 1955, raggiunse quella fase allora “dominata” dalla polizia giudiziaria,
completando, in parte, il percorso iniziato dalla stessa Corte nel 1965.
Infatti, quella sopra accennata discrezionalità riservata al pubblico
ministero, non era stata completamente eliminata, in quanto, sarebbe bastato
far durare più a lungo la preistruttoria, rinviando, quindi, il più possibile
l’inizio dell’istruzione sommaria o formale, per evitare l’applicazione
dell’anzidetto sistema di garanzie ad indagini che, di fatto, avevano la stessa
efficacia potenziale di quelle propriamente istruttorie; risulta chiaro, come
costituisse fonte di inammissibile discrezionalità, il fatto che l’osservanza
delle norme in tema di istruzione formale, richiamata nelle due norme
dichiarate illegittime, fosse richiesta solo “per quanto possibile”. A
proposito di quest’ultima formula, coniata dal Legislatore del 1930, non si
può non sottolineare come l’interpretazione che comunemente se ne dava,
fosse chiaramente nel senso di considerare quel “per quanto possibile” non
“quale consenso all’inapplicabilità in caso di impossibilità”, ma bensì, ed in
modo assolutamente anti-garantista, come utile espediente per riconoscere
“la impossibilità con la conseguente inapplicazione”;
12
in altre parole, con
riferimento all’ipotesi di cui all’art. 225 c.p.p., era, di fatto, riservata alla
discrezionalità della polizia giudiziaria, lo stabilire quando potessero o meno
trovare applicazione le garanzie difensive previste dalle norme
sull’istruzione formale.
La conquista ottenuta nel 1968, fu quindi molto importante, se si tiene conto
e vale la pena ripeterlo, di quanto le indagini preliminari nel precedente
sistema influissero sull’evolversi della realtà processuale, in quella realtà,
appunto, nella quale il Calamandrei, scherzosamente, osservava che anche
12
Carulli, Il diritto di difesa dell’imputato, Napoli, 1967, pag. 422.
10
un semplice verbale di polizia era pur sempre presente ai giudici di
Cassazione, pur così intenti alle somme questioni del diritto.
La sentenza n° 86 del 1968, investendo letteralmente tutta l’attività di
polizia giudiziaria, determinò subito una serie di perplessità e dubbi, che
specialmente gli uffici di procura generale presso le Corti d’Appello,
cercarono di eliminare e chiarire attraverso varie circolari interpretative. Si
trattava, sostanzialmente, di far superare agli organi di polizia il vero e
proprio “shock” provocato da una decisione con la quale si era e finalmente,
aperto alla difesa “il ferreo cancello di polizia”; si doveva, in particolare, far
comprendere come la Corte Costituzionale non avesse affatto inteso
impedire alla polizia lo svolgimento delle c.d. “proprie indagini”,
13
ma in
realtà, avesse voluto fissare dei precisi limiti di garanzia al compimento di
quelli che erano veri e propri atti istruttori.
Lo sforzo per evitare che le lacune determinatesi in seguito alla sentenza n°
86/68, non producessero, durante il non breve periodo di latitanza
legislativa, la rottura del sistema, si dovette al buon senso ed alla
lungimiranza di tutti gli operatori pratici del diritto, dai magistrati ai
funzionari di polizia.
Tuttavia, dopo circa un anno e mezzo di silenzio, il Legislatore irruppe sulla
scena con una nuova legge, la n° 932 del 5 dicembre 1969 e con un arduo
obbiettivo da realizzare: adeguare il sistema processuale agli insegnamenti
della Corte Costituzionale, dettati in materia di polizia giudiziaria e di diritto
di difesa.
13
Sentenza n° 86/68, cit. pag. 389. Per una differenza tra le c.d. “proprie indagini” e gli atti
istruttori della polizia giudiziaria, si veda, tra gli altri, Mencarelli, Atti di polizia giudiziaria e
procedimento, in Giustizia Penale, III, 1971, pag. 14.
11
Tenendo ben presente l’oggetto della nostra trattazione, ossia, quello
relativo alla presenza difensiva all’interrogatorio dell’imputato, diciamo
subito che il provvedimento legislativo in questione non risolvette il
problema nella direzione da molti auspicata. Ancora una volta, prevalsero le
pressioni anti-garantiste, ancora una volta, prevalse l’idea che per facilitare
la raccolta delle prove di reità, o meglio, per salvaguardarne la
“genuinità”,
14
l’indiziato-imputato non potesse usufruire immediatamente
dell’assistenza di un difensore: era la concezione, di stampo tipicamente
inquisitorio, di considerare l’imputato non come soggetto di difesa, ma
unicamente, come fonte di prova.
Comunque sia, proposte come quella dell’on. Riz (n° 228) diretta a
prevedere la presenza del difensore al sommario interrogatorio di polizia ed
al confronto, vennero respinte, sostenendosi, alquanto sbrigativamente,
l’opportunità di riservare la trattazione di temi così importanti, in occasione
di una “riforma più generale e completa del codice di procedura penale”.
15
In proposito, appare pienamente condivisibile la critica che venne allora
rivolta da un avvocato milanese, il Bellantoni, al modo in cui il Legislatore
era venuto affrontando, ossia, in modo del tutto nominalistico, il tema del
diritto di difesa. Egli contestava, come nella Relazione Vassalli si fosse
affermato e quasi in maniera encomiastica, che scopo principale del
provvedimento sarebbe stato quello di dare “subito all’indiziato un
difensore”.
16
14
Questa, secondo quanto riferì la stampa dell’epoca, l’interpretazione data nel caso Luttazzi-
Chiari dal pubblico ministero.
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Relazione della Commissione Giustizia a firma dell’on. Vassalli, pubblicata in Riv. dir. proc.
pen., 1969, pag. 926 ss.
16
Sempre, Relazione della Commissione Giustizia, cit. pag. 927.