VII
complesso economico-giuridico”: in quanto società controllate a vario titolo (o
società-figlie), esse non godono di assoluta autonomia operativa ma sono
chiamate a manovrare nel paese ospite in coerenza con le politiche e le
strategie altrove stabilite dai centri di decisione della “holding” (o “società-
madre”). Apertis verbis: lo stretto collegamento esistente, in forza di una
qualche forma di proprietà e/o controllo, tra holding e società- figlie fa sì che la
prima possa intervenire nella gestione delle attività economiche delle seconde,
pur essendo, queste, delle imprese formalmente straniere
4
.
La riformulazione in termini di sovranità statale di quanto sopra
esposto contribuisce a chiarificare il significato del sinolo globalizzazione-crisi
dello stato nazionale: attraverso le loro decisioni, soggetti economici estranei
allo stato ospite sono potenzialmente capaci di condizionarne
5
, anche
profondamente il sistema socio-economico, così da interferire con le sue scelte
di politica economica, frustrandone eventualmente i risultati. Tali atteggiamenti
rischiano di minare alla base uno dei principi fondamentali su cui si fonda il
diritto internazionale classico o westfalico, la sovranità territoriale. In
generale, il suddetto principio attribuisce ad ogni stato “il diritto di esercitare in
modo esclusivo il potere di governo sulla sua comunità territoriale, cioè sugli
individui (e sui loro beni) che si trovano sul territorio
6
”; con riferimento alla
tematica di nostro interesse vi è da notare che il contenuto della norma
internazionale sulla sovranità territoriale si arricchisce di una importante
specificazione: ciascuno stato è gestore, in via esclusiva, del potere di indirizzo
in materia di politica economica e in materia di decisioni relative allo
sfruttamento delle risorse naturali nazionali
7
.
4
I concetti di holding (o “società-madre”), “paese d’origine”, “paese ospite”, “società
controllata” (o “società-figlia”), la distinzione tra “filiale e succursale” nonché la nozione di
“controllo” verranno sistematicamente trattati infra al par. 2.2 del capito primo.
5
Il verbo “condizionare” rimanda, precisandola, alla citazione tratta dal saggio di U. Beck.
6
Benedetto Conforti, Diritto Internazionale, Napoli, 2002, p. 199 ss..
VIII
Al di là dei benefici che -secondo la teoria economica- reca ai paesi
ospite ed al mercato globalmente inteso
8
, la c.d. “multinazionalizzazione
9
”
dell’economia espone i talvolta precari equilibri socio-economici dei primi alle
azioni unilaterali delle IMN, non di rado orchestrate in sintonia con gli stati
d’origine (home countries).
Il potenziale conflitto tra strategie delle IMN e obiettivi politici dei
paesi in cui queste costituiscono centri secondari di attività è la cifra di un
apparentemente inarrestabile processo di sgretolamento della sovranità
nazionale
10
, di fronte al quale urgono rimedi efficaci. Le crepe che il terremoto
della globalizzazione economica ha aperto in quel blocco marmoreo che era la
sovranità statale, quale descritta (e prescritta) dal Bodin
11
, padre del diritto
internazionale, necessitano di un potente cemento capace di bloccarne, o
comunque rallentarne, il progressivo sfaldamento.
Ma perché preoccuparsi di contrastare il deperimento della sovranità,
latamente intesa come normatività, regolamentazione, capacità di controllo?
7
Alberto Oddenino, “Codici di condotta e imprese multinazionali” in Studi di diritto
internazionale dell’economia, a cura di Giuseppe Porro, Torino, 1999, p. 52.
8
I paesi ospite beneficiano di un afflusso di capitali, tecnologia, risorse umane. Quanto ai
vantaggi complessivi per il mercato, una più efficiente allocazione dei fattori produttivi è il
dato di maggiore rilievo.
9
Per un’esplicitazione del termine si rinvia infra al capitolo primo, par. 1.
10
Oltre trent’anni fa, due studiosi di relazioni internazionali, Robert Keohane e Joseph Nye
(Transnational Relations and World Politics, Cambridge, 1972) , concepirono un’intuizione
destinata a fecondare la riflessione anche nell’ambito delle scienze giuridiche di taglio
internazionalistico. I due politologi intuirono che l’allora ben noto processo di graduale
dissoluzione degli stati-nazione verso l’alto -segnato dall’emergere di organizzazioni
intergovernative e/o a vocazione federale- si accompagnava ad un analogo processo (fin lì
ignorato dagli internazionalisti) di dissoluzione verso il basso della sovranità, caratterizzato
dall’emergere di un vasto e complesso mondo, fatto di rapporti che tagliano i confini statali
senza la mediazione dei governi: i rapporti transnazionali. Le imprese multinazionali erano, a
giusta ragione, indicate come i principali attori della dimensione transnazionale, attori capaci,
attraverso le loro reti e risorse, di competere con gli stati, tradizionali, e fin lì indiscussi, attori
della comunità internazionale. Per maggiori dettagli si veda Riccardo Scartezzini e Paolo Rosa,
Le relazioni internazionali, Roma, 1994, pp. 128-133.
11
Jean-Jacques Chevallier, Le grandi opere del pensiero politico, Bologna, 1998, cap. II (I
“Sei libri della Repubblica” di Bodin), pp. 53-67.
IX
Non in nome di una narcisistica logica di continuità con quel passato che ha il
suo cominciamento nella la pace di Westphalia del 1648, non per un
reazionario bisogno di conservare il tradizionale assetto della comunità
internazionale, incentrato sul dogma della sovranità dei suoi Leviatani… ma
perché solo entro quella bolla di ossigeno -straordinaria invenzione del genio
umano- che è appunto la sovranità, diritti (fondanti politiche) e politiche (a loro
volta finalizzate a tutelare diritti) hanno storicamente potuto respirare. Senza
volere in queste pagine introduttive indugiare oltre sul concetto di sovranità, ci
limiteremo ad invitare chi legge a tenere presente un dato difficilmente
confutabile che è al di fuori della sterile opposizione tra pensiero marxista e
teorie neoliberali: la storia non ci offre esempi di collettività umane
organizzate (cioè capaci di gestire politiche e garantire diritti) migliori dello
stato nazionale; esso, pur tra mille contraddizioni, ha organizzato attorno a
diritti e politiche una moltitudine di comunità minori.
Un sistema che da “internazionale” (cioè fondato su rapporti tra stati-
sovrani, capaci di controllare le dinamiche delle rispettive comunità territoriali)
diviene progressivamente “globale” (cioè fondato su reti
12
di attori
transnazionali che by-passano ed infiacchiscono le sovranità) è un sistema nel
quale la dimensione giuridico-politica si comprime in favore di una incalzante
dimensione economica le cui impersonali leggi di domanda ed offerta paiono
restare gli unici criteri regolatori. Posizioni giuridiche positive individuali e
collettive nonché azioni pubbliche rischiano una pericolosa diluizione (se non
una dissoluzione) nell’anomia dell’oceano globale
13
.
12
Si chiarisce qui il senso che il termine “reti” assume nella definizione di U. Beck.
13
E’ attraverso la sovranità dello stato nazionale che “i diritti diventano potenza, principi
regolativi di soggettività operanti, non forme fluttuanti nell’aria, non principi eterni di una
natura originaria e incontaminata. Insomma diritti storicamente determinati e politicamente
operanti nel senso di fonti primarie di legittimazione (…)”. Fallace è “il coro sulla nuova
società cosmopolita in via di delinearsi, come se finalmente i diritti stessero per liberarsi dalla
cappa della politica, e immettersi nel paradiso postnazionale dove essi combattono quasi la
loro battaglia finale, e possono tutti salvarsi, come ritornati alla loro originaria autonomia.”
X
Senza questo opportuno “incidente filosofico”, il tema da trattare
apparirebbe freddo e privo di uno slancio, per così dire, “etico
14
”. Non si
comprenderebbe la motivazione profonda di un’analisi su quei codici di
condotta privati delle IMN, che, in un mondo globale di Leviatani in crisi,
racchiudono -pur tra innumerevoli limiti- una non trascurabile potenzialità
normativa. Senza questa precisazione, priva di fondamento apparirebbe la tanto
invocata desiderabilità
15
del controllo sull’attività economica multinazionale,
laddove per “controllo” non deve aprioristicamente intendersi una cieca
imposizione di limiti alle IMN bensì un’intelligente azione finalizzata tanto alla
minimizzazione degli effetti dannosi quanto alla massimizzazione degli effetti
benefici dell’attività di investimento delle IMN.
(…) “Se è nell’alveo dello Stato nazionale che i diritti si sono consolidati, e nel suo tramonto
sono in certi momenti tramontati, la fase di passaggio “oltre” lo Stato sarà assai difficile, e
andrebbero forse rilette quelle pagine che Carl Schmitt dedicò nella ‘Dottrina della
Costituzione’ (Milano, 1984) al “temario” dei diritti, per togliere l’illusione di un loro
divenire separato, nel mondo moderno, e per ricomprendere il carattere e la dimensione
politica (…) che ne accompagnò l’itinerario e ne determinò il significato.” Biagio De
Giovanni, L’ambigua potenza dell’Europa, Napoli, 2002, pp. 126-127.
14
Di straordinaria vivacità è il dibattito accademico sulla necessità di mettere in connessione
con l’etica le delicate questioni aperte dalla globalizzazione. Per limitare a due i nomi,
ricordiamo Joseph E. Stiglitz e S. Latouche.
In un recente saggio pubblicato nel nostro paese in AUTORI VARI, Globalizzazione: nuove
ricchezze e nuove povertà, Milano 2001, pp. 391-407, Stiglitz, portando il discorso oltre le
tradizionali categorie economicistiche di interesse individuale ed efficienza, riflette, sulla
dimensione morale dei processi di globalizzazione in atto, giungendo alla seguente
conclusione: “il nuovo umanesimo (…) è complementare, non antitetico al freddo
ragionamento economico (ed alla impersonale tecnica giuridica, aggiungiamo noi). Nel loro
procedere assieme sta la maggiore promessa di un futuro ordine economico internazionale
fondato sulla giustizia sociale” (p. 407).
Più diretto è Latouche: “…la mondializzazione pone in termini nuovi la questione dell’etica nel
capitalismo.(…) Si tratta di far entrare nella sfera dello scambio mercantile la totalità della
vita…”; “…le multinazionali… non si trovano ancora di fronte né una società civile mondiale,
né significativi contropoteri…”, “da ciò sorge la necessità di codici di buona condotta che,
fondati su una morale universale minima da definire, s’impongano al comportamento di questi
giganti, nei rapporti tra loro stessi e soprattutto verso gli altri.” (dall’intervento di S. Latouche
a Milano, 5 maggio 2001, disponibile in rete http://web.tiscali.it/no-redirect-
tiscali/divulgator/etica/eticapitali-eds.htm !).
15
Quella del controllo sulle IMN -nota C. D. Wallace, Legal control of the Multinational
Enterprises, The Hague, 1983, p. 32- è “una questione dello stesso ordine d’importanza per il
futuro del diritto internazionale quanto il controllo della forza, la soluzione pacifica delle
controversie internazionali, la protezione dei diritti umani…” (traduz. nostra dall’inglese).
XI
2. Le tre forme di controllo giuridico delle attività delle imprese
multinazionali.
Guardando ai rimedi finora sperimentati per limitare e disciplinare il
fenomeno di ingerenza politico-economica che si connette all’attività delle
imprese multinazionali nei paesi ospite, emergono almeno tre piani di controllo
giuridico, non esclusivi ma complementari tra loro: quello statuale (par. 2.1),
quello interstatuale (par. 2.2) e quello transnazionale (par. 2.3).
2.1 Il piano statuale.
Il controllo dell’attività multinazionale può anzitutto realizzarsi
secondo un approccio di tipo nazionale, cioè all’interno del paradigma
dell’unilateralità: è lo stato ospite a porre in essere le norme che, nei limiti
della sua stessa sovranità territoriale, andranno a disciplinare il fenomeno
multinazionale. Si resta, dunque, nell’ambito del diritto interno. Un tale
approccio al problema del controllo delle IMN risulta comunque poco incisivo
giacché le stesse IMN potrebbero prendere, al di là dei confini del paese ospite
(e quindi al di fuori della sfera di sovranità dello stesso), decisioni suscettibili
di avere ricadute sul sistema economico-sociale di quest’ultimo. Emblematiche
a tal proposito sono le operazioni di transfer pricing: per aggirare le più elevate
aliquote fiscali vigenti in uno dei paesi in cui si trova ad operare, un gruppo
multinazionale potrebbe procedere, da un lato, all’artificiosa depressione del
prezzo di trasferimento dei componenti o prodotti da essa realizzati nello stesso
e, dall’altro, ad uno speculare artificioso aumento del prezzo in un diverso
paese ospite che esibisce un sistema fiscale meno esigente; in tal modo, la
legislazione fiscale del primo dei due paesi ospite sarebbe aggirata ed il suo
erario patirebbe una perdita in termini di gettito. La flessibilità e la mobilità
della struttura di una IMN sono tali da consentire alla stessa di manovrare tra
XII
diversi sistemi legali traendo vantaggio dalle più favorevoli posizioni
nell’allocazione delle proprie operazioni
16
. Più precisamente: il fatto che il
complesso multinazionale non si componga di società indipendenti tra le quali
avvengono libere transazioni ma obbedisca a logiche unitarie
17
inficia la
capacità dei singoli stati di porre in essere una legislazione efficace per
controllare filiali e succursali di società aventi la sede principale all’estero.
Al di là degli oggettivi limiti che ad esso si connettono, un controllo
delle IMN operato esclusivamente sul piano nazionale difficilmente
risulterebbe foriero di un clima di relazioni internazionali disteso: l’intervento
dello stato ospite attraverso una unilaterale regolamentazione delle componenti
nazionali di un complesso multinazionale, rischierebbe di determinare
un’atmosfera antagonistica con i paesi d’origine, portati ad assumere un
analogo atteggiamento unilaterale nei confronti delle IMN eventualmente
ospitate sul proprio territorio. Andrebbe ascoltato il monito dei libri di una
storia delle relazioni internazionali non troppo lontana conservano la memoria
di guerre doganali spietate, preludio commerciale di guerre vere e proprie…
2.2 Il piano interstatuale.
Questo secondo livello di controllo è incentrato su una disciplina
internazionale, scaturente della cooperazione tra stati. Resta, quindi, ancora una
volta lo stato, sia pure nel suo numero plurale e all’interno di un paradigma
multilaterale, il fulcro ed il motore della regolamentazione. I germi
dell’approccio di tipo interstatuale al fenomeno multinazionale si possono
storicamente far risalire alla prima conferenza UNCTAD
18
(1963).
16
C. D. Wallace, op. cit., p. 33.
17
Si veda infra al cap. primo, par. 2.2.
XIII
Sull’energica spinta dei paesi allora appena usciti dall’esperienza
coloniale, si riconosceva l’incompiutezza del sistema creato con gli accordi di
Bretton Woods, i quali lasciavano scoperti -a causa del fallimento
dell’ambiziosa Carta dell’Avana- importanti settori della vita economica
internazionale, primo fra tutti quello degli investimenti diretti esteri, cui il
fenomeno delle IMN strettamente si lega
19
.
Nelle vesti di host countries, i PVS (categoria all’epoca pressappoco
coincidente con quella di stati di nuova indipendenza), arroccandosi su rigide
posizioni protezionistiche, reclamavano nell’ambito dell’UNCTAD e più in
generale del Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite, l’adozione di
strumenti giuridici internazionali capaci di mettere le loro risorse naturali ed i
loro sistemi economico-sociali al riparo dalle IMN e dagli stati d’origine di
queste ultime.
Tali reclami si inscrivevano all’interno del più ampio movimento per
l’instaurazione di un nuovo ordine economico internazionale (NOEI
20
), basato
su logiche compensative dello sfruttamento subito durante la parentesi
18
L’UNCTAD (United Nations Conference of Trade and Development) è un organo
sussidiario permanente dell’Assemblea Generale, costituito dalla stessa nel 1964 ex art. 22
della Carta delle Nazioni Unite. Per molti aspetti si ricollega al Consiglio Economico e Sociale
delle Nazioni Unite, in quanto la sua funzione consiste nella promozione del commercio
internazionale al fine precipuo di accelerare lo sviluppo dei paesi economicamente arretrati. A
ben vedere, l’UNCTAD rappresenta una sorta di “organizzazione nell’organizzazione”, dato
che la sua struttura è simile a quella degli Istituti Specializzati delle Nazioni Unite, consistendo
non solo della Conferenza vera e propria, in cui tutti gli stati membri dell’ONU sono
rappresentati, ma anche di un Consiglio a composizione più ristretta, di varie Commissioni e di
un Segretariato. L’UNCTAD è da ritenersi l’organo di punta dell’ONU nella promozione della
cooperazione per lo sviluppo, non già sul piano operativo (dove primeggia l’UNDP, per il
quale si veda infra al cap. terzo, nota…) bensì su quello normativo, essendo la Conferenza un
tavolo permanentemente disponibile per la negoziazione di accordi multilaterali. B. Conforti,
Le Nazioni Unite, Padova, 2000, pp. 122, 238, 240.
19
Sul rapporto tra fenomeno multinazionale ed investimento diretto estero si veda infra al
capitolo primo, par. 1.
20
Tra gli atti che teorizzano il NOEI, centrali restano, nell’ambito ONU, le risoluzioni
dell’Assemblea Generale ed in particolare quelle sulla “Carta dei diritti e dei doveri economici
degli stati” (12 dicembre 1974), sulla “Instaurazione di un NOEI”, sullo “Sviluppo e
cooperazione economica internazionale” (16 settembre 1975), sul “Diritto allo sviluppo”
(1986).
XIV
coloniale, correttive delle storture del sistema internazionale degli scambi
commerciali e redistributive della ricchezza mondiale. Dall’altro lato, i paesi
industrializzati, sommamente preoccupati delle massicce campagne
d’espropriazione e più in generale dalle pressanti rivendicazioni di piena
sovranità del c.d. “gruppo dei 77
21
”, puntavano, in quanto paesi d’origine, alla
fissazione di un minimum di garanzie per l’attività delle IMN. I differenti
interessi a cuore dei due gruppi di paesi trovavano il loro punto di
congiunturale convergenza proprio nei codici di condotta che, nel corso di tutta
la tesi, espressamente qualificheremo con l’aggettivo “internazionali”, per
distinguerli dai codici di condotta privati
22
.
Non tragga in errore il termine “convergenza”: la negoziazione di codici
di condotta internazionali tra PVS e paesi industrializzati si è storicamente
rivelata priva di successo, essendo profondamente diverso il movente di
ciascuno dei due gruppi a confronto sui tavoli delle trattative
23
. Paesi
prevalentemente ospite i primi, paesi in larga parte d’origine i secondi. Quelli:
intenzionati a proteggere la propria sovranità dalle “invadenti” IMN; questi:
desiderosi di rendere il più ampio possibile il raggio d’azione delle IMN al di
fuori dei propri confini territoriali. Assertori, gli uni, del principio della libertà
degli stati nel trattamento degli investimenti stranieri; sostenitori, gli altri, del
principio del trattamento nazionale.
La profonda disparità di vedute fra schiere di stati collocati a due
diversi livelli di sviluppo economico è indubbiamente la principale causa del
mancato decollo del Codice di condotta per le Società Transnazionali delle
Nazioni Unite. Inconcludenti si sono, infatti, rivelati i negoziati protrattisi dal
21
Con tale dicitura fu apostrofata, alla quinta conferenza UNCTAD tenutasi a Manila
(Filippine) nel 1979, la folta schiera di paesi africani, asiatici e latino-americani.
22
Sulla distinzione tra codici di condotta internazionali e privati si tornerà più avanti, al
capitolo secondo, par. 1.
23
Nguyen Huu Tru, « Les codes de conduite »: un bilan, Revue de droit international publique,
vol. 96, n.1, 1992, p. 45 s..
XV
1974 al 1990 in seno al Centro per le Società Transnazionali, organo
sussidiario (intergovernativo e a composizione ristretta) del Consiglio
Economico e Sociale
24
. Il codice risulta attualmente fermo, a causa del
mancato accordo su importanti punti
25
, allo stadio di “draft”, cioè di progetto
26
,
cui si sarebbe dovuto connettere il lungimirante obiettivo di fornire una
“universally accepted comprehensive and effective
27
” disciplina riguardante la
condotta delle IMN. Il definitivo abbandono del Progetto ONU si è avuto nel
corso del summit mondiale di Rio (1992) sullo Sviluppo Sostenibile. In quella
sede, mentre i rappresentanti dei governi si vincolavano -sul mero piano
politico- ad astratti e vaghi obblighi, il Centro ONU per le Società
Transnazionali -allora prossimo al suo diciottesimo (ed ultimo) anno di vita-
tentava, con un atto di estrema concretezza, di ricondurre il suo vetusto ed
impolverato Progetto nell’alveo delle discussioni in corso sulla programmatica
nozione di “sviluppo sostenibile”. Il tentativo non era di certo peregrino, dato il
consistente rimando del Progetto medesimo alle tematiche sociali ed
ambientali, nodo centrale del dibattito sulla sostenibilità dello sviluppo; tuttavia
si trattava di un tentativo perdente in partenza: una estesa e potente lobby
industriale composta da direttori di IMN (Business Council for Sustainable
Development) bloccava, infatti, ogni tentativo di fuga in avanti spingendo, con
24
Per un’approfondita trattazione si veda P. Merciai, Les Entreprises Multinationales en Droit
International, Bruxelles, 1993, cap. X, pp. 111-119.
25
Fra gli altri: il rapporto tra norme del codice e diritto internazionale generale, le modalità di
risoluzione delle controversie fra stato ospite e componenti nazionali delle IMN.
26
Qualora i negoziati fossero andati a buon fine, il Progetto avrebbe potuto seguire due strade
alternative: adozione da parte dell’Assemblea Generale delle NU sotto forma di
raccomandazione (atto a carattere non vincolante) ovvero adozione da parte del medesimo
organo sotto forma di trattato internazionale aperto alla firma degli stati membri ed entrante in
vigore a partire dal raggiungimento di un certo numero di ratifiche depositate presso il
Segretariato Generale delle NU (atto a carattere vincolante per i paesi firmatari).
L’ultima versione del Progetto è quella preparata dal Presidente del Centro per le Società
Transnazionali, Miguel Marin-Bosch, annessa al doc. E/1990/34 del 12 giugno 1990.
27
Dal preambolo del Progetto, secondo capoverso.
XVI
successo, nella direzione della deregulation (e quindi della self-regulation)
dell’attività multinazionale
28
. Il mutato contesto internazionale (scomparsa del
“polo sovietico” e riforme liberiste avviate nel decennio precedente da Reagan
e dalla Thatcher
29
) rendeva, per così dire, anacronistica l’accentuazione del
concetto di regolamentazione internazionale delle IMN
30
.
Destino non dissimile era già toccato in sorte ad un altro codice, quello
sul “transfer of technology
31
”, negoziato in seno all’UNCTAD a partire dal
1975 ed anch’esso incapacitato ad uscire dal limbo dei progetti. Per tale codice
si è addirittura avuta una contrapposizione “triangolare”, in cui la tradizionale
dialettica economica PVS-paesi industrializzati era attraversata dalla polarità
ideologica paesi socialisti-paesi capitalisti. Di fatto, il primo dualismo restava
preponderante: i PVS, intenzionati a lanciare la ricerca scientifico-tecnologica
nazionale, premevano affinché fosse vietata (o comunque limitata)
l’importazione di tecnologia da parte delle imprese di proprietà straniera situate
sul proprio territorio
32
; i paesi industrializzati, invece, facevano propria una
posizione marcatamente liberista.
28
Attraverso la nozione di self-regulation (auto-regolamentazione) il Business Council for
Sustainable Development intendeva promuovere un’auto-disciplina del settore multinazionale
mediata dai codici di condotta privati. Sul significato giuridico-economico di deregulation e
sulla prossimità logico-storica tra i concetti di deregulation e self-regulation si veda infra al
capitolo secondo, par. 2.1.
29
I due fattori verranno più avanti (capitolo secondo, par. 2.1) ripresi in considerazione,
rappresentando le coordinate che individuano la collocazione storica del movimento dei codici
di condotta privati delle IMN.
30
Per un più ampio commento critico sul definitivo fallimento del Progetto ONU di Codice di
condotta per le Società Transnazionali nel corso della Conferenza delle NU di Rio sullo
Sviluppo Sostenibile si veda Judith Richter, “Corporate Codes of Conduct, Regulation, Self-
regulation and the Lessons from the Baby Food Case” in Multinational Monitor, July/August
2002 – VOLUME 23 – NUMBER 7&8. Si consideri, inoltre, il contributo di Erik Leaver and
Courtney Villegas, “Corporate Codes of Conduct” in Bulletin (Quarterly publication by the
Interhemispheric Resources Center) Numbers 47-48, October 1997.
31
TD/CODE TOT/47, 1985.
XVII
Sorte diversa è toccata alla Dichiarazione sugli Investimenti
Internazionali e sulle Imprese Multinazionali
33
adottata nel 1976
dall’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE
34
).
Si tratta, diversamente dai due progetti cui si è sopra fatto riferimento, di uno
strumento che non ha vocazione universale ma “regionale” (non in senso
geografico quanto economico). Essa, in modo pacifico, senza passare
attraverso contrapposizioni tra blocchi, raccoglie il punto di vista e riassume gli
interessi di un gruppo di paesi tutti industrializzati e pertanto collocati ad uno
stesso livello di sviluppo economico.
Se l’eterogeneità delle economie dei paesi membri di un’organizzazione
internazionale universale come l’ONU tracciava una rigida linea di
demarcazione tra paesi ospite e paesi d’origine precludendo la conclusione di
un efficace accordo in tema di IMN, la sostanziale omogeneità, uniformità dei
sistemi economici dei paesi OCSE faceva, invece, sì che vi fosse una certa
intercambiabilità di ruoli tra gli stessi che, essendo ad un tempo paesi ospite e
d’origine, unanimemente si dicevano ben disposti all’incoraggiamento del
fenomeno multinazionale. Meccanismi di reciprocità e canoni liberisti, di cui la
regola del trattamento nazionale è chiave di volta, sono le colonne portanti
della Dichiarazione, il cui successo è comunque da ricondurre all’esistenza di
una organizzazione internazionale regionale ben oleata.
32
Sull’importanza del tema tecnologico all’interno delle rivendicazioni dei paesi aspiranti ad
un “Nuovo Ordine Economico Internazionale” si veda Georges Corm, Il nuovo disordine
economico mondiale, 1994, pp. 90-92, 100-102.
33
Comprensiva degli annessi Principi direttivi per le imprese multinazionali, oggetto di
revisione nel 2000. Si veda infra al capitolo primo, par. 3.2 nonché al capitolo terzo, par. 4 e,
infine, al capitolo quarto, par. 2.
34
L’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico; acronimo inglese
OECD), nasce nel 1960 dalle ceneri dell’OECE (Organizzazione Europea per la Cooperazione
Economica), organismo intergovernativo creato per la gestione, a livello intergovernativo,
degli aiuti facenti capo al c.d. “Piano Marshall”. Il gruppo dei paesi membri dell’OCSE ha
storicamente rappresentato, sullo sfondo dei rapporti economici mondiali, l’occidente
industrializzato contrapposto ai PVS. Benedetto Conforti, Diritto Internazionale, op. cit., p.
179.
XVIII
La contrapposizione tra le posizioni rigorosamente protezionistiche dei
PVS e la filosofia liberista dei paesi industrializzati ha rappresentato la
principale causa storica dell’aborto dei codici di condotta internazionali a
vocazione universale negoziati nell’ambito dell’ONU.
Col tempo, tuttavia, i margini della frattura esistente tra i due poli si
sono avvicinati, nel senso che i PVS, riconosciuti i benefici che le IMN
possono apportare alle loro economie afflitte da cronica penuria di risparmio
interno da destinare all’investimento produttivo
35
, si sono, in modi e con tempi
diversi, convertiti al credo liberista causando una progressiva perdita di tono
del movimento del NOEI, oramai abbondantemente consegnato agli archivi
della storia del diritto internazionale
36
.
La crisi debitoria che, a partire dagli anni ’70 e ’80, ha gettato i paesi
del Sud del mondo in un baratro finanziario senza fondo è un altro fattore
essenziale per la comprensione della mutata sensibilità da parte dei PVS nei
confronti del capitale privato straniero: essa ha ridotto il potenziale negoziale
di questa parte del mondo, caldamente sollecitata dal Fondo Monetario
Internazionale e dalla Banca Mondiale a barattare la permanenza nei circuiti
del finanziamento internazionale con rigidi programmi di “aggiustamento
strutturale” contemplanti tra le loro voci anche un’apertura al capitale
straniero
37
.
Dato questo “rialliement”, ci si sarebbe dovuti attendere una rinnovata e
lineare spinta alla “codificazione”. Così non è stato e le ragioni sono facilmente
35
Roberto Pasca di Magliano, Povertà e sviluppo, Teorie ed esperienze a confronto, Roma,
2000, cap. sesto, Formazione del capitale, spec. par. 6.2.2 (“La capacità di investimento nelle
aree depresse”), p. 243 s..
36
Inoltre, benché la distinzione tra paesi d’origine e paesi ospite continui in larga parte a
coincidere con quella fra paesi industrializzati e PVS, molti PVS hanno, nel recente panorama
economico mondiale, smesso le vesti di stati prevalentemente ospite, per acquisire anche quelle
di stati d’origine di imprese IMN. Emblematico è il caso dei c.d. NIC (Newly Industrialized
Countries). Si veda infra al capitolo primo, par. 1.
37
Sulla connessione esistente tra crisi debitoria e rinnovata sensibilità dei PVS al fenomeno
multinazionale si veda anche infra al capitolo secondo, par. 2.1.
XIX
ricostruibili. I codici di condotta internazionali a vocazione universale
nascevano come “luogo giuridico-politico” in cui parti portatrici di visioni ed
interessi opposti tentavano di scambiarsi concessioni; venuta meno la dialettica
oppositiva scatenata dal NOEI, sarebbe venuta meno anche la necessità di un
“luogo comune” in cui far “incontrare”, conciliandoli, gli opposti: il
movimento dei codici di condotta internazionali parrebbe, pertanto, aver
esaurito il suo propellente. L’ “incontro” sarebbe adesso assicurato dalla
dominante matrice liberista in cui le relazioni economiche internazionali sono
immerse.
Benché l’omologazione del blocco dei PVS alle leggi del libero mercato
abbia fatto venir meno quella contingente convergenza di intenti che, almeno
fino alla caduta del muro di Berlino, aveva spinto, sia pure infruttuosamente,
all’elaborazione dei codici di condotta internazionali universali, essa tuttavia
non implica la messa in quiescenza di molte delle problematiche che in quegli
sfortunati progetti erano trattate. Tutela dei diritti di quel particolare uomo che
è il lavoratore (o il consumatore), tutela dell’ambiente naturale, lotta alla
corruzione…: temi di questo spessore rimangono inscritti nell’agenda politica,
giuridica e morale della comunità internazionale. La loro attualità è tale che
non ci si può dire soddisfatti di un liberismo più o meno largamente accettato.
La questione del controllo delle attività delle IMN resta aperta e nuove strade
giuridico-politiche vanno esplorate per trovare ad essa una adeguata soluzione.
2.3 Il piano transnazionale.
Le due prospettive sopra delineate sono accomunate -oltre che
dall’obiettiva incapacità di rispondere in modo esaustivo e definitivo al
problema del controllo delle attività delle IMN- dal fatto di fondarsi su un
concetto di normatività, per così dire, “tradizionale”, cioè legato al monopolio
XX
statale
38
di produzione delle regole, e conseguentemente di eteronomia del
diritto per i soggetti non statali (le IMN nel caso di specie).
Al di fuori del recinto “filosofico” del “monismo giuridico
39
”, minimo
comune denominatore di entrambi gli approcci descritti, si collocherebbe,
complementare e non alternativa, una “terza via” -quella transnazionale- la
quale proietta la questione del controllo delle IMN oltre le due classiche
estrinsecazioni (interna ed internazionale) dell’attività di normazione svolta
dallo stato. Il termine “transnazionale” qualifica, infatti, nella letteratura
giuridica “quei fenomeni che non sono interamente inter-statali”
40
o meglio,
prendendo a prestito la più esplicita nozione politologica, “quelle interazioni
che attraversano i confini nazionali e che hanno per protagonista almeno un
attore non governativo
41
”.
L’approccio transnazionale aprirebbe la strada ad una visione
“pluralistica” del diritto internazionale e quindi all’eventualità che lo stesso
possa essere creato non solo da quei tradizionali “law-makers” che sono gli
stati (operanti ora uti singuli ora nell’ambito di organizzazioni internazionali)
ma anche da soggetti non statali, quali appunto le IMN, che ne sono i
destinatari
42
.
Questo è, almeno in linea generale, lo scenario in cui s’inseriscono i
codici di condotta privati delle IMN, che, in prima approssimazione, possono
38
Il piano statale rimanda allo stato in quanto sorgente di diritto interno; il piano interstatale
rimanda anch’esso allo stato ma, questa volta, in quanto libero creatore, insieme ad altri suoi
pari, di diritto internazionale.
39
Così è detta la teoria kelseniana che, postulata l’unicità dell’ordinamento giuridico, assume
lo stato come esclusiva sorgente della dimensione normativa. Si veda infra alla nota 42.
40
P. Merciai, op. cit., p. 37.
41
R. Keohane e J. Nye, op. cit., p. XII.
42
Sul rapporto tra monismo e pluralismo giuridico con riferimento al movimento dei codici di
condotta privati delle IMN si veda la più approfondita analisi svolta infra al capitolo secondo,
par. 6.1.
XXI
essere definiti come “decaloghi” per l’autodisciplina delle attività svolte dalle
IMN medesime.
Si tratta di un fenomeno assolutamente inedito anche se la storia delle
relazioni economico-giuridiche conserva la memoria di figure analoghe a
quelle in esame. Prima dell’avvento degli stati moderni, a partire dall’XI
secolo, le potenti corporazioni mercantili sorte in ambito comunale, derogando,
limitatamente ai rapporti commerciali, al diritto civile dell’epoca (risultato
della sintesi, operata nell’arco di secoli, tra diritto romano e diritto germanico),
ponevano in essere, per rispondere ad esigenze pratiche legate ai traffici, degli
statuti che, unitamente alle consuetudines mercatorum e alla giurisprudenza
delle curiae mercatorum, davano corpo alla c.d. lex mercatoria o ius
mercatorum. Si trattava di un ordinamento direttamente creato dalla classe
mercantile, senza mediazione della società politica, quantunque i mercatores
fossero certamente da annoverarsi tra le classi dirigenti
43
.
In epoca relativamente recente, nel pieno della incontestabile crisi dello
stato nazionale, un fenomeno, mutatis mutandis, analogo a quello sopra
stilizzato prende piede: le IMN, novelle corporazioni mercantili, senza la
mediazione della sovranità degli stati, formano da sé e per sé regole di
comportamento. Si tratta per l’appunto dei codici di condotta privati, novelli
statuti corporativi che, assieme agli usi del commercio internazionale nonché
alle sentenze dei tribunali arbitrali cui le IMN sottopongono le loro
controversie, sembrano rimandare al concetto di lex mercatoria globale
44
,
ovvero ad un ordinamento autonomo
45
tanto rispetto alla dimensione statuale
quanto a quella interstatuale, e che si può pertanto definire come “meta-
statuale” o meglio “transnazionale”.
43
Francesco Galgano, Lex mercatoria, Bologna, 2001, pp. 9-10.
44
F. Galgano, op. cit., pp. 238-240.
45
La portata del concetto di autonomia della lex mercatoria sarà precisata infra al capitolo
primo, par. 4.