5
Altro aspetto che mi preme sottolineare e che talvolta la storiografia moderna tende a
sottovalutare è che il Regno delle Due Sicilie ha visto il suo tramonto perché
oggettivamente rappresentava un elemento storicamente e politicamente superato e
non perché fosse un aggregato di barbari o di cafoni
1
degno di essere colonizzato e
civilizzato da popolazioni portatrici di alte virtù civili, morali e militari.
D’altronde, pur nel dare atto dello stato di necessità in cui il governo unitario
piemontese dovette agire per la repressione del brigantaggio, degenerato da moto
“partigiano” in pura delinquenza, e quindi rendere omaggio alle forze militari pur
composte in rilevanza dagli stessi meridionali, non possiamo non deplorare come il
problema del Mezzogiorno d’Italia sia tuttora irrisolto, e sotto il profilo politico-
economico e sotto il profilo strettamente delinquenziale.
1
Termine dispregiativo col quale si indicavano i contadini dell’Italia meridionale.
6
Introduzione
Caratteri Generali delle Due Sicilie
1. Il Territorio
2. Popolazione e Cittadinanza
3. La forma istituzionale dello Stato
4. Le Fonti del Diritto
7
IL TERRITORIO
Carta Politica del Regno
delle Due Sicilie
Le Due Sicilie erano lo Stato italiano preunitario più esteso territorialmente e
comprendevano tutto il Sud continentale d’Italia, l’Abruzzo, il Molise, la parte
meridionale del Lazio e la Sicilia.
Il territorio era diviso in 22 province di cui 15 nel Sud continentale e 7 in Sicilia:
Napoli e la sua provincia; Abruzzo Citeriore con capoluogo Chieti; Primo
Abruzzo Ulteriore con capoluogo Teramo; Secondo Abruzzo Ulteriore con
capoluogo L’Aquila; Basilicata con capoluogo Potenza; Calabria Citeriore con
capoluogo Cosenza; prima Calabria Ulteriore con capoluogo Reggio; Seconda
Calabria Ulteriore con capoluogo Catanzaro; Molise con capoluogo Campobasso;
Principato Citeriore con capoluogo Salerno; Principato Ulteriore con capoluogo
Avellino; Capitanata con capoluogo Foggia; Terra di Bari con capoluogo Bari;
Terra d’Otranto con capoluogo Lecce; Terra di Lavoro con capoluogo Capua e
poi Caserta; in Sicilia i capoluoghi di provincia erano: Palermo, Trapani, Girgenti
2
,
Caltanissetta, Messina, Catania, Noto.
2
L’odierna Agrigento.
8
La storia
3
delle Due Sicilie cominciò nel lontano 1130 con i Normanni e il loro
sovrano Ruggero II, il Regno durò 730 anni e i suoi confini restarono in pratica
invariati comprendendo molti comuni con origine greca; le dinastie che si
susseguirono erano di origini straniere e questo avvenne per l'oggettiva incapacità di
generarne una propria, ma occorre rilevare che i loro sovrani divennero in breve dei
Meridionali a tutti gli effetti, assumendone la lingua e le usanze.
Ai Normanni (1130-1194), seguirono gli Svevi (1194-1266), gli Angioini (1266-
1442) e gli Aragona (1442-1503); a loro subentrarono gli Spagnoli (1503-1707) e poi
gli Austriaci per solo ventisette anni (1707-1734); i più importanti sovrani delle varie
casate furono nell’ordine: Ruggero II d’Altavilla, Federico II di Svevia, Carlo I
d’Angiò, Alfonso I d’Aragona e il vicerè spagnolo Pedro de Toledo.
Nel 1734 la Spagna rioccupò il Regno strappandolo agli Asburgo dando origine così
all’era borbonica con i suoi Re Carlo (1734-1759), Ferdinando I (1759-1825),
Francesco I (1825-1830), Ferdinando II (1830-1859) e Francesco II (1859-1861)
4
,
interrotta solo per un decennio dai Francesi (1806-1815) con i Re Giuseppe
Bonaparte (1806-1808) e Gioacchino Murat (1808-1815).
Con la Restaurazione imposta dal Congresso di Vienna nel 1815, ed il
riconoscimento di “Ferdinando I, Re del Regno delle Due Sicilie”, di fatto si fusero i
Regni di Napoli e di Sicilia in uno solo, senza – tuttavia – riuscire a porre fine a
3
Riguardo all’origine del nome "Regno delle Due Sicilie”, sappiamo che a seguito della rivoluzione del Vespro del
1282, gli Angioini vennero scacciati dalla Sicilia. Carlo I d’Angiò, pur essendo a Napoli, continuò a definirsi "Re di
Sicilia", mentre a Palermo lo stesso titolo di Re di Sicilia venne assunto da Pietro D'Aragona.
Seguirono venti anni di guerre e dispute, che si conclusero con la pace di Caltabellotta del 1302. Venne stabilito che la
Sicilia fosse ceduta temporaneamente a Ferdinando I d'Aragona, subentrato a Pietro nel 1285, che assunse il titolo di Re
di Trinacria, mentre Carlo II d'Angiò, detto lo Zoppo, continuò a portare il titolo di Re di Sicilia. Alla morte di
Ferdinando la Sicilia doveva ritornare agli Angioini.
Le cose non andarono però come previsto: gli Aragonesi non lasciarono l'isola; Ferdinando venne consacrato Re da
Papa Bonifacio VIII nel 1327 e continuarono a chiamarsi Re di Sicilia, titolo al quale non rinunciarono neanche gli
Angioini di Napoli che continuarono a chiamarsi anche loro Re di Sicilia.
Per tali motivi, fino all'8 dicembre del 1816, ci furono due Regni di Sicilia: il titolo rivendicato a Napoli e quello
rivendicato a Palermo. A volte il Re era diverso, a volte unico (a seconda delle circostanze). Quando era unico il Re si
proclamava Re delle Due Sicilie (utriusque Siciliae Rex), ma non del "Regno", che significava Re della Sicilia di
Palermo e di quella di Napoli. Da notare che nei periodi in cui i Re furono diversi, entrambi si definirono Re di Sicilia.
Questo stato di cose durò fino all'8 dicembre del 1816, data in cui Ferdinando di Borbone (III di Sicilia e IV di Napoli)
firmò a Caserta un decreto con il quale cancellava i due regni e ne inventava un terzo proclamandosi "Ferdinando I ,
Re del Regno (uno ed uno solo) delle Due Sicilie. Questa non era una decisione estemporanea, ma il risultato delle
trame internazionali a cui il Congresso di Vienna del 1815 aveva dato veste definitiva.
4
Per i profili di ciascun Re del Regno delle Due Sicilie, leggere in Appendice.
9
quella secolare divisione politica tra gli stessi, iniziata con la lontana pace di
Caltabellotta
5
del 1302.
Difatti, mai unione completa si raggiunse sul piano giuridico-amministrativo e sul
piano politico ci furono ininterrotti contrasti, sicché il Regno apparve dal principio
una forzata aggregazione di territori separati dal mare, reciprocamente estranei ed
ostili.
Nel 1815, unico Stato confinante era lo Stato Pontificio, potenza non militare con cui
il Regno manteneva tradizionali rapporti di buon vicinato
6
.
La difesa di tale confine non destava, perciò, particolare apprensione; in verità, però,
si trattava di una linea tutt’altro che invulnerabile: si poteva penetrare nel Regno
varcando il Tronto, oppure dalla strada di Rieti o da quella di Ceprano; spesso le
invasioni tentate da queste vie erano riuscite, fin dai tempi di Carlo d’Angiò; da Rieti
erano entrati gli Austriaci nel 1820, dal Tronto entreranno i Piemontesi nel 1860.
La frontiera si appoggiava ad est alla fortezza, piuttosto modesta, di Civitella del
Tronto; ad occidente a quella di Gaeta e, più indietro, di Capua.
Dietro questa linea erano state ricostituite, col trattato di Vienna, le antichissime
enclaves pontificie di Pontecorvo e Benevento.
Col medesimo trattato andarono definitivamente perduti i presìdi della Toscana
(Orbetello, Talamone, Monte Argentario, Porto S. Stefano, ecc.)
7
, basi avanzate e di
non trascurabile interesse militare.
Tutte le altre frontiere del Regno erano marittime: porti di commercio internazionale
erano Napoli, Messina e Bari.
La difesa della Sicilia era principalmente concentrata nella città di Messina e nel
sistema di forti, marittimi e collinari, intorno alla città: opera tanto potente quanto
antiquata (risalente al 1647) e volta più che a difendersi dagli altri, a reprimere
velleità insurrezionali degli stessi isolani.
5
La pace di Caltabellotta mise fine alla “Guerra del Vespro” iniziata per sostituire al legittimo Re Carlo d’Angiò l’erede
aragonese degli Svevi.
6
I confini con lo Stato Pontificio furono definiti con il trattato 26 settembre 1840 (pubblicato con R.D. del 5 aprile
1852), integrato da una “convenzione addizionale o regolamento legislativo” del 14 maggio 1852.
7
Tali presidi furono restituiti a Gioacchino Murat dagli stessi cittadini quando nel 1814 i francesi si erano ritirati e li
avevano colpevolmente consegnati agli austriaci.
10
In conclusione, il Regno delle Due Sicilie, per quanto chiuso, tra “l’acqua santa e
l’acqua salata”
8
, era – militarmente – uno degli Stati meno difendibili d’Europa.
La superficie del Regno ammontava a circa centomila chilometri quadrati, di cui un
quarto rappresentato dalla Sicilia.
Le comunicazioni terrestri erano alquanto difficili, per il prevalere di territori
montuosi e per la mediocre manutenzione delle strade da cui il pratico isolamento di
centri, anche importanti.
Tipica la situazione della Calabria, la cui configurazione geografica rendeva quasi
impossibile il collegamento via terra tra versante tirrenico e ionico.
La rete ferroviaria, lunga circa cento chilometri, pur essendo un primato italiano del
Regno
9
, univa la capitale con le sole Capua, Castellammare, Nocera e Sarno
10
.
Di ciò soffriva ovviamente il servizio postale: vi erano comuni dove la posta
giungeva appena una volta a settimana.
Migliore era la rete elettrica, iniziata nel 1852, che collegava tutte le province; nel
1858 venne inaugurato poi anche il cavo sottomarino tra Reggio Calabria e
Messina
11
.
Tutte queste notizie inerenti la comunicazione risultano di fondamentale importanza
per comprendere che – a causa dei rapporti poco frequenti tra i centri di una stessa
provincia – era difficile la formazione di una comune coscienza politica e che, invece,
era molto più semplice la persistenza di vere e proprie isole di cospirazione o di
agitazione antigovernativa, come si formeranno nelle Calabrie o nel Cilento.
Nel Regno, mancava – quindi – una comune coscienza di popolo.
Le forze che potevano cooperare in vista di un bene comune, si isterilirono in
perpetui e vani conflitti; si ripropose in coincidenza di ogni crisi politica il pericolo di
8
Pittoresca espressione di Ferdinando II.
9
Il primo tronco fu aperto nel 1839.
10
Un programma di nuove costruzioni ferroviarie nel continente ed in Sicilia, pur approvato con R.D. del 28 aprile
1860, non verrà mai realizzato per la sopravvenuta unificazione. G. De Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861,
Trieste, 1868, II vol., pp. 50-51, ult. ed. Napoli, Berisio, 1964.
11
R. De Cesare, La fine d’un Regno, Città di Castello, 1908-1909, III ed., 3° vol., p.271.
11
una scissione tra isola e continente
12
; tale contrasto terminerà soltanto con
l’assorbimento di tutti i territori del Regno nell’Unità italiana.
Inoltre, la difficoltà della ricerca di acque sotterranee, che avrebbe richiesto ingenti
impegni di capitali e di attrezzature, impedì lo sviluppo di un’agricoltura razionale e
progredita: la vite, l’olivo, il grano, erano le colture più diffuse.
Gli stabilimenti industriali ed i cantieri navali erano per lo più concentrati attorno a
Napoli; le altre attività erano di regola a livello artigianale
13
.
12
E’ da notare come si voleva salvaguardare la pari dignità tra i due regni. Non esisteva, infatti, un atto sovrano che
attribuiva a Napoli la qualifica di capitale: il Re poteva risiedere nell’uno o nell’altro Regno ove dovevano
accompagnarlo la Corte ed il Consiglio di Stato. Di fatto, però, il Re si trasferì a Palermo solo quando costretto (1799 e
1806-1815).
13
Il sistema industriale duosiciliano subì una crisi verticale a seguito dell’unificazione, per effetto della concorrenza
settentrionale, fortemente aiutata dalla politica del nuovo governo. Anche le rinomate e ricchissime miniere di zolfo
siciliane, coltivate con tecniche arretrate, non resistettero alla concorrenza estera.
Sulla struttura industriale del Regno delle Due Sicilie, A.Caracciolo, La Storia Economica, in Storia d’Italia, vol.III,
Dal primo Settecento all’Unità, Torino, ed. Einaudi, 1973, pp. 572 ss. e R. Romeo, Il Risorgimento in Sicilia, Bari,
1973, pp.203 ss.
12
POPOLAZIONE E CITTADINANZA
La popolazione – negli ultimi due secoli – è continuamente aumentata.
Le province continentali, nella seconda metà del 1600, contavano circa 2.700.000
abitanti; nel 1815, gli abitanti salirono a 5.060.000, nel 1836 a poco più di 6 milioni,
per poi diminuire a seguito del colera
14
.
Relativamente alla Sicilia, i dati non sono altrettanto sicuri per i criteri poco razionali
usati nei censimenti e per il gran numero di denunce false provocate da
preoccupazioni fiscali; soltanto nel 1846 fu possibile contare nell’isola 2.245.727
abitanti per un totale complessivo nel Regno di 8.423.316, che nel 1856 superò i
nove.
Napoli era la città più popolosa d’Italia e quindi anche del Regno; contava oltre
447.000 abitanti; Palermo ne aveva poco più di 194.000; Messina, secondo centro
commerciale e marittimo del Regno dopo Napoli, oltre 203.000; Catania 69.000;
nessun altro centro raggiungeva i 50.000 abitanti.
La persona fisica che apparteneva, per legge, al popolo del Regno delle Due Sicilie
era detta nazionale e ad essa competeva il godimento dei diritti civili e politici.
Il termine cittadino si riscontrava in dottrina con un significato più ristretto, cioè per
indicare i soggetti che godevano i diritti politici in un determinato comune ed erano
eleggibili in quanto tali
15
.
Erano nazionali del Regno i figli di padre nazionale, anche se nati all’estero, e le
donne straniere sposate con un nazionale
16
.
14
G.De Sivo, Storia delle Due Sicilie dal 1847 al 1861, cit., vol. I, p.66.
15
F. Dias, Corso completo di diritto amministrativo ovvero esposizione delle leggi relative all’amministrazione civile
ed al contenzioso amministrativo del Regno delle Due Sicilie, Napoli, Pellizzone, 1854, vol. I, p.18.
16
Reg. Min. Affari Interni, 25 settembre 1846, in P. Petitti, Repertorio amministrativo ossia collezioni di leggi, decreti,
reali rescritti, ministeriali di massima, regolamenti ed istruzioni sull’amministrazione civile del Regno delle Due
Sicilie, Napoli, Sautto, 1856, 6^ ed., vol. III, p.145.
13
Avevano, inoltre, diritto ad acquistare la nazionalità, gli individui nati nel Regno da
uno straniero, purché la reclamassero entro l’anno successivo al compimento della
maggiore età.
Sia i nati all’estero da padre nazionale che i nati nel Regno da padre straniero, se
residenti nel Regno, dovevano dichiarare l’intenzione di volervi fissare il loro
domicilio e, se abitanti all’estero, promettere formalmente di stabilire il domicilio nel
Regno e provvedervi entro un anno dalla promessa.
Potevano acquistare la nazionalità per naturalizzazione, purché residenti nel Regno
almeno da un anno, gli stranieri che avessero reso particolari servigi allo Stato, quelli
che avevano fatto invenzioni utili, coloro cha acquistavano nel Regno beni stabili e
duraturi, gravati da un’imposta fondiaria non minore di cento ducati annui.
Potevano, inoltre, ottenerla gli stranieri residenti nel Regno da almeno dieci anni
consecutivi, che provassero di avere onesti mezzi di sussistenza, oppure coloro che,
avendo la residenza da almeno cinque anni consecutivi, sposavano una nazionale
dopo la maggiore età, avendo posto fisso domicilio nel Regno.
Le domande di naturalizzazione dovevano essere presentate al Sindaco del Comune
di residenza, che le inviava all’Intendente e questi – con proprio parere – le
trasmetteva al Ministro di Grazia e Giustizia.
Di religione non si parlò fino al 1824, quando con R. dell’11 settembre fu stabilito
che, essendo la religione cattolica la sola professata nel Regno, gli stranieri che
facessero domanda di naturalizzazione dovevano essere necessariamente cattolici.
La naturalizzazione era accordata con decreto reale
17
, su proposta del Ministro di
Grazia e Giustizia e previo parere del Supremo Consiglio di Cancelleria, sostituito
poi da quello della Consulta nel 1824.
Il naturalizzato doveva prestare giuramento di fedeltà innanzi all’Intendente della
Provincia di residenza.
La concessione era strettamente personale, non si estendeva ai figli, minorenni o
maggiorenni che fossero.
17
La spedizione del decreto di naturalizzazione era subordinata al versamento di una tassa pari a cinquanta ducati.
14
Viceversa, la nazionalità si perdeva qualora vi fosse naturalizzazione acquisita in
paese straniero, se vi fosse accettazione di incarichi pubblici conferiti da un Governo
straniero, nel caso di assunzione di servizio militare o di aggregazione ad una
corporazione militare di una potenza straniera, non autorizzate dal Governo
nazionale
18
.
Anche l'esercizio di qualunque attività, ad eccezione di quelle commerciali, aperta in
un paese straniero con l’intenzione di non ritornare più, comportava la perdita della
nazionalità.
Ancora, per le donne era causa della perdita della nazionalità il matrimonio contratto
con uno straniero.
La nazionalità poteva essere riacquistata, invece, se il nazionale che l’aveva persa
rientrava nel territorio del Regno con l’approvazione del Governo dichiarando di
volervisi ristabilire con l’espressa rinuncia a qualsiasi distinzione contraria alla legge
del Regno stesso e quando l’ex nazionale, arruolatosi nell’esercito o in corporazioni
militari straniere, adempisse le condizioni prescritte allo straniero, fermo restando le
pene stabilite dalle leggi criminali contro i nazionali che portassero o avessero portato
le armi contro la loro patria.
Anche la donna che aveva sposato uno straniero poteva riacquistare la nazionalità se,
rimasta vedova, rientrava nel Regno con l’approvazione del Governo dichiarando di
volervi fissare il proprio domicilio.
18
L’aggregazione ad una corporazione militare straniera era considerata nell’ipotesi di servizio in forze insurrezionali o
in forze armate di Stati non riconosciuti dal Regno delle Due Sicilie.
15
LA FORMA ISTITUZIONALE DELLO STATO
Il Regno delle Due Sicilie fu costituito formalmente con la Legge dell’ 8 dicembre
1816 in Stato Unitario, nella forma di monarchia assoluta, e tale carattere conservò
fino al giorno della sua estinzione.
Nessuno stravolgimento, pertanto, sullo svolgimento delle sue istituzioni,
comportarono le due parentesi costituzionali del 1820-21 e del 1848.
Monarchia assoluta fu dunque – dal 1815 al 1861 – la forma istituzionale delle Due
Sicilie, con la maggior parte delle leggi emanate nei primi anni della restaurazione
vigenti quarantacinque anni dopo.
La produzione normativa fu svolta, di norma, per Decreti Reali, il cui contenuto era
quasi sempre esclusivamente tecnico-amministrativo.
Nel Re si accentravano tutti i poteri; egli esercitava personalmente i poteri legislativo
ed esecutivo, assistito da ministri da lui stesso discrezionalmente nominati e
revocabili, responsabili solo verso di lui, che si riunivano nel Consiglio di Stato
ordinario o nel Consiglio dei Ministri per gli atti di maggior rilievo.
Il potere giurisdizionale era di norma esercitato nella forma di “giustizia delegata”,
cioè da giudici nominati dal Re; in parte fu conservato anche il sistema di “giustizia
ritenuta”, cioè le controversie decise direttamente dal Re, previo parere degli organi
consultivi.
Il Re era anche comandante in capo dell’esercito e dell’armata di mare.
Da lui discendeva tutto l’apparato amministrativo civile, costituito al centro dai
Ministeri ed in periferia da uffici tra i quali il più importante era senz’altro quello
dell’Intendente di Provincia; spettavano a questi ultimi, infatti, i poteri di
amministrazione diretta, di vigilanza sugli enti locali, di polizia e di giurisdizione
amministrativa.
In Sicilia un ruolo di collegamento tra il Re e le autorità periferiche era assicurato
dalla presenza del Luogotenente.
16
La legislazione era in parte comune (p.es. “il Codice per lo Regno delle Due Sicilie”,
che conteneva le leggi civili, commerciali, penali e processuali), in parte distinta
(nelle materie amministrative), per le due parti del Regno.
Dal 1849, a seguito dei moti dell’anno precedente, furono istituite due distinte
Consulte per la consulenza giuridico-amministrativa del Governo e due Gran Corti
de’ Conti, l’una in Napoli, l’altra in Palermo, consessi che esercitavano altresì la
giurisdizione amministrativa, rispettivamente per i domini di qua e di là del Faro.
L’ordinamento giudiziario conservava l’esistenza di due Corti Supreme di Giustizia
(di Cassazione), in Napoli ed in Palermo.
Per concludere, può dirsi che le istituzioni e le leggi della monarchia borbonica, tra il
1815 ed il 1860, non furono altro che la rielaborazione di quelle introdotte da
Giuseppe Bonaparte e da Gioacchino Murat in quel periodo (1806-1815) che gli
storici meridionali amano chiamare il “Decennio” e che nei testi ufficiali borbonici è
definito di “occupazione militare”.
Si deve a quel periodo l’introduzione del “Codice Napoleone”, principale fonte del
“Codice per lo Regno delle Due Sicilie”, l’eversione della feudalità, l’organizzazione
delle intendenze e delle amministrazioni locali, l’istituzione del contenzioso
amministrativo, l’ordinamento giudiziario.
Fu propria di quel sistema, però, la rigorosa osservanza del principio della divisione
dei poteri dello Stato, finché non si riunirono al vertice nel Capo dello Stato.
Il Regno delle Due Sicilie, dopo il 1815, può quindi definirsi una proiezione della
Francia napoleonica più di quanto contemporaneamente non fosse la stessa Francia.
17
LE FONTI DEL DIRITTO
Le diverse dominazioni succedutisi nell’Italia meridionale ed in Sicilia, nel corso dei
secoli, hanno lasciato un immenso quanto eterogeneo materiale legislativo.
Gli avvenimenti del 1806 che determinarono la divisione politica del Regno di Napoli
dalla Sicilia, impressero all’uno ed all’altra una diversa evoluzione giuridica.
Nel Continente, Giuseppe Bonaparte abolì la feudalità
19
introducendo il Codice
Napoleone; in Sicilia, la feudalità venne abolita con l’art.XI delle “Basi della
Costituzione” del 1812
20
, ma il governo costituzionale, asservito alle autorità inglesi,
non fece che aggravare, con abusi e disordini, la situazione preesistente.
Con l’unificazione dei due Regni a seguito della Restaurazione, su consiglio di
ministri illuminati come Luigi de’ Medici
21
e Donato Tommasi, Ferdinando I decise
di lasciare in vigore la legislazione del “Decennio” assumendosi, in tal modo, il
compito riformatore e divenendo egli stesso veicolo di quelle idee da cui aveva quasi
integralmente preservato la Sicilia anzitempo.
Quindi, abbiamo detto, permase il Codice Napoleone, seppur con parziali modifiche
imposte dal buon costume e dal rispetto della religione ufficiale dello Stato: difatti
vennero aboliti il divorzio, con R.D. del 13 giugno 1815, istituto ripugnante al
costume nazionale
22
, ed il matrimonio civile, sostituito da quello dettato dai canoni
del Concilio di Trento.
19
Fino agli ultimi anni del secolo XVIII, il problema centrale del diritto pubblico concerneva i rapporti tra potere regio
e feudalità appunto.
20
Leggere in Appendice.
21
Luigi de' Medici, principe d'Ottaviano e duca di Sarno (Napoli 1759-Madrid 1830). Reggente della corte della
Vicaria dal 1791, sospettato di giacobinismo nel 1795, venne presto riabilitato e nel 1803 e 1804 fu incaricato di
dirigere le finanze reali e la segreteria di Stato. Incautamente consigliò nel 1805 il Re di accogliere gli Anglo-Russi nel
Regno e dovette fuggire in Sicilia con la corte al momento dell'invasione francese. Benché in urto con lord Bentinck,
rimase sempre fedele all'alleanza britannica. Inviato quale rappresentante del Regno al Congresso di Vienna ottenne che
i regni di Napoli e insulare si fondessero nel Regno delle Due Sicilie (1816). In pratica a capo del governo dal 1815 e
seguace delle teorie liberiste concepì la restaurazione in termini essenzialmente economico-finanziari e fu tra i creatori
della marina mercantile del Regno. Nel 1818 concluse un concordato con la Santa Sede e nel 1819 promulgò un nuovo
codice di leggi. Rifugiato a Roma durante i moti del 1820, al suo ritorno liquidò Canosa e Troja, poiché mirava a
seguire una strada di moderato liberalismo. Fu ottimo finanziere. Morì a Madrid dove aveva accompagnato Francesco I
in un viaggio ufficiale.
22
G.Astuti, Il Code Napoléon in Italia e la sua influenza sui codici degli Stati italiani successori, in Atti del Convegno
Napoleone e l’Italia, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1973, vol. I, p.192.
18
Contestualmente, però, fu costituita la Commissione per la redazione dei nuovi
Codici
23
e poco dopo quella per la redazione del Codice Penale Militare
24
.
Il tentativo ambizioso di Ferdinando I di creare un corpus iuris originale non ebbe
seguito in quanto i commissari seguirono il collaudato modello napoleonico.
Il “Codice per lo Regno delle Due Sicilie” fu, comunque, il più insigne monumento
della legislazione borbonica e del pensiero giuridico meridionale.
La Commissione terminò il suo lavoro dopo due anni; la Legge del 21 maggio 1819
dispose che dalla medesima data cessassero di aver vigore tutte le norme anteriori al
nuovo Codice, nelle materie da esso regolate.
Il Codice era diviso in cinque parti: leggi civili, penali, della procedura nei giudizi
civili, della procedura nei giudizi penali, d’eccezione negli affari di commercio.
Le leggi civili comprendevano 2187 articoli, divisi in “disposizioni preliminari” e tre
libri (delle persone; de’ beni e delle differenti modificazioni della proprietà; de’
differenti modi co’ quali si acquista la proprietà).
Le leggi penali comprendevano 470 articoli, divisi in tre libri: delle pene e delle
regole generali per la loro applicazione ed esecuzione; de’ misfatti e de’ delitti, e
della loro punizione; delle contravvenzioni e della loro punizione.
Le leggi della procedura ne’ giudizi civili comprendevano 1117 articoli, divisi in
nove libri: de’ conciliatori; de’ giudici di circondario; de’ tribunali civili; de’ tribunali
d’appello e delle Gran Corti civili; de’ modi straordinari d’impugnare i giudicati e del
ricorso per annullamento alla Suprema Corte di Giustizia; dell’esecuzione delle
sentenze; diversi modi di procedere; procedure relative all’apertura di una
successione; de’ compromessi; a questi seguivano alcune “disposizioni generali”.
23
La I sezione (leggi civili e di procedura civile) era composta da Tommaso Carovita principe di Sirignano, Giacinto
Troyse, Francesco Magliano, Domenico Criteri e Domenico Sarno; la II sezione (leggi penali e di procedura penale) da
Raffaele de Giorgio, Giuseppe Raffaeli, Niccola Nicolini, Gian Vittorio Englen; la II sezione (leggi commerciali) dal
marchese Nicola Vivenzio e da G.B. Vecchione, Vincenzo Lotti e Raffaele Tramaglia; tutti, per la maggior parte,
magistrati del tempo dell’ “occupazione militare”. In proposito N.Cortese, Memorie di un generale della Repubblica e
dell’Impero – Francesco Pignatelli principe di Strongoli, Bari, Laterza, 1927 e P.Colletta, Storia del Reame di Napoli,
ult. ed. Napoli, 1957, vol.III, p.30.
24
La relazione sul Progetto di un Codice Penale Militare a S.A.R. il Principe D. Leopoldo, Presidente del Consiglio
Supremo di Guerra, del 18 agosto 1816, fu opera di P.Colletta, Riconoscenza e memoria militare sulla frontiera di terra
del Regno di Napoli (9 febbraio 1815), in Opere inedite o rare, Napoli, 1861, vol. I, pp.367 ss.