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Memoriam” con cui veniva comminata la scomunica per chiunque avesse
fumato in chiesa, e i monaci che avessero fumato prima della funzione religiosa
sarebbero stati murati vivi.
Da allora numerose altre campagne sono state intraprese, all’inizio puramente
repressive, finalizzate esclusivamente ad imporre e far rispettare il divieto di
fumo, successivamente orientate su più fronti, basate non solo sui divieti ma
anche sulla sensibilizzazione, di fumatori e non, sui pericoli per la salute
propria e di quanti venivano esposti al loro fumo.
Grande importanza rivestono le politiche del Ministero della salute,
promozionali non solo della dissuasione dal fumo, ma di uno stile di vita
interamente dedicato allo “star bene”, e che si fondano su diversi apporti, in
coordinamento tra di loro: attività normativa, campagne di comunicazione,
interventi per la prevenzione e potenziamento dell’offerta dei servizi per la
disassuefazione, politiche fiscali e dei prezzi, controllo del contrabbando.
A livello normativo, un grande passo in avanti è stato fatto con la legge 16
gennaio 2003, n. 3, che ha introdotto il divieto di fumo in tutti gli ambienti
chiusi, ad eccezione di quelli privati non aperti al pubblico e di quelli riservati
ai fumatori e come tali contrassegnati. Le nuove norme antifumo delimitano in
un ambito ben preciso la libertà, intesa come comportamento liberamente
attuabile e non come diritto costituzionalmente protetto, di fumare: si può
fumare solo dove non si dà fastidio agli altri. Non è una messa al bando del
tabacco, né una demonizzazione dei fumatori, ma una garanzia a tutela di quanti
hanno il diritto di non essere danneggiati dal vizio altrui, anche se nella legge
non sono tutelati i lavoratori privati: è questo un nodo da risolvere, altrimenti si
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verificherebbe una discriminazione ingiustificata tra quanti sono impiegati
presso strutture pubbliche e quanti lavorano in ambienti privati. Comunque,
questa normativa segna il cambiamento del modo di sentire un problema quale
quello del fumo passivo, che solo negli ultimi anni ha “ricevuto” l’attenzione
che si merita, riconoscendolo come inquinante ambientale, di tipo cancerogeno,
in grado di aumentare in maniera considerevole il rischio di neoplasie
polmonari e di malattie cardiovascolari, oltre gli ordinari disturbi, ad esempio
irritazione di occhi e gola.
Non è prevedendo divieti e sanzioni che si sconfiggerà il fumo occorrono anche
campagne ed interventi che mirino a promuovere interventi di educazione
sanitaria relativi alla nocività del fumo, sia attivo che passivo. Il crescente
orientamento della politica sanitaria verso la lotta al tabagismo è testimoniato
dal Piano Sanitario Nazionale per il triennio 1998-2000, che aveva come
obiettivi specifici la promozione del rispetto del divieto di fumo nei locali
pubblici e negli ambienti di lavoro, l’attuazione di interventi di prevenzione,
destinati soprattutto alla popolazione in età scolare, la realizzazione di
campagne mirate a promuovere l’interruzione del fumo tra le donne in
gravidanza, il sostegno di azioni volte a favorire la disassuefazione dal fumo,
prevedendo l’impegno anche del personale medico attraverso programmi di
efficacia provata. La prevenzione dei danni derivanti dall’esposizione attiva e
passiva al fumo di tabacco è oggetto anche del Piano Sanitario Nazionale 2003-
2005: nell’ambito del progetto 9 “Promuovere gli stili di vita salutari,la
prevenzione e la comunicazione pubblica sulla salute”, si prevedono strategie di
intervento che abbracciano più settori, ma tutte collegate tra loro.
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Se ciò avviene a livello nazionale, a maggior ragione tali politiche devono
trovare attuazione a livello locale, nelle singole aziende. L’attenzione dei datori
di lavoro alle problematiche fumo-correlate è andata sempre più crescendo: da
un generale dovere di protezione dei lavoratori, ex art. 2087 c. c., in base al
quale all’inizio il divieto di fumo veniva posto per evitare conseguenze diverse
da quelle alla salute provocate dal fumo passivo,ad una normativa, nazionale e
comunitaria, che impone uno specifico dovere di tutela dal fumo passivo, anche
attraverso la predisposizione di impianti di aerazione che assicurino la salubrità
dell’ambiente. Oltre gli obblighi posti dalla legge, si assiste sempre più a forme
di intervento, interne alle aziende, che partono dall’iniziativa dei lavoratori,
ovviamente interessati ad operare in ambienti che assicurino la miglior qualità
di vita possibile: è da tener presente che all’interno del posto di lavoro si
trascorre buona parte della giornata, e per evitare un’esposizione costante e
prolungata si rendono necessari programmi che prevedano la partecipazione di
tutte le componenti aziendali interessate. Chi meglio dei destinatari delle
politiche occupazionali sul fumo può dire cosa va fatto, cosa deve essere
migliorato e cosa deve essere cambiato?
Ovviamente, tutto ciò non sarebbe stato possibile senza una letteratura
scientifica internazionale: già nel 1986 il Surgeon General, autorità sanitaria
americana, pubblicò uno studio in cui si dimostrava la nocività dell’esposizione
al fumo passivo. Da allora numerosi altri studi si sono succeduti sull’argomento
e tutti, in maniera più o meno, determinante hanno dimostrato l’incidenza
negativa del fumo di tabacco. Ovviamente non mancano le “voci fuori dal
coro”, ma il più delle volte sono determinate da interessi a carattere
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esclusivamente economico, data la connivenza con le grandi multinazionali del
tabacco. Ma c’è di più: ove anche fosse dimostrato scientificamente che il fumo
passivo non provoca danni alla salute, perché i non-fumatori dovrebbero essere
obbligati a respirare “nubi di fumo” dall’odore sicuramente poco gradevole?
Solo per lasciare che altri soddisfino il proprio vizio? Se così fosse non avrebbe
alcun valore il riconoscimento della salute come diritto fondamentale di ogni
individuo nonché interesse della collettività, ex art. 32 Cost. e,
conseguentemente, non avrebbero alcun valore gli altri diritti fondamentali
previsti.
Ovviamente questa è un’ipotesi estremista, dato che la normativa vigente e
numerose pronunce giurisprudenziali si fondano sul presupposto che ove un
diritto fondamentale dell’individuo venga leso da un libero comportamento,
sarà quest’ultimo a dover subire delle limitazioni.
Di tutto questo si cercherà di dare una visione chiara e, nei limiti del possibile,
esaustiva nel lavoro che segue.
Il primo capitolo è dedicato interamente all’aspetto medico del fumo passivo:
viene analizzata la composizione di una sigaretta e cosa una sigaretta libera
nell’aria; si passa poi all’analisi dell’impatto di questi agenti inquinanti sia sulla
salute in generale, attraverso la relazione su alcuni tra gli studi medici più
importanti sull’argomento, sia sugli effetti che possono avere in un luogo di
lavoro, magari interagendo con altri elementi caratteristici di un tipo particolare
di lavorazione.
Il secondo capitolo è dedicato alla legislazione, nazionale e comunitaria, in
materia di fumo, con particolare attenzione all’evoluzione che si è avuta in tale
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settore: sicuramente, la legge 16 gennaio 2003, n. 3 è il risultato di una
progressiva presa di coscienza che occorreva evitare l’esposizione a fumo
passivo, laddove fosse possibile, dato che tutti, in ogni momento, possiamo
essere esposti a fumo passivo:è sufficiente che ci passi accanto qualcuno che
fuma o soggiornare in una stanza, non aerata in cui poco prima è stata accesa
una sigaretta. Ove ciò non bastasse, si ponga mente al fatto che per il fumo
passivo non si può parlare di un valore soglia, per cui l’insorgere di determinate
patologie non è in relazione alla concentrazione di agente cancerogeno, ma può
dipendere anche dalla sola presenza nell’ambiente dalla sostanza.
Nel terzo capitolo viene analizzata l’evoluzione delle pronunce della
giurisprudenza sull’argomento: in particolare, sarà esaminato il caso Paribas,
che costituisce la prima condanna per omicidio colposo di due dirigenti
derivante dall’omissione degli obblighi di sicurezza.
Il quarto capitolo si caratterizza per un aspetto più propriamente pratico, in cui
si dà esemplificazione di vari tipi di politiche attuate ed attuabili nei luoghi di
lavoro: si tratta di interventi che operano non in direzione univoca ma, come si
è già avuto modo di precisare, attraverso un insieme di competenze finalizzate
al miglioramento delle condizioni di lavoro.
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CAPITOLO I
Il fumo passivo
Negli ultimi decenni, in tema di salute sui luoghi di lavoro, l’attenzione si è
andata spostando verso fattori di nocività meno evidenti rispetto a quelli classici
- questi ultimi identificati sulla base delle attrezzature utilizzate o delle sostanze
impiegate -, ma più insidiosi. Il fumo passivo rientra sicuramente tra questi
fattori. Per fumo passivo, detto anche ETS, Enviromental Tobacco Smoke, si
intende l’inquinamento dell’ambiente da fumo di tabacco e la correlativa
esposizione a questo dei non fumatori:si tratta sia del fumo rilasciato
nell’ambiente dalla combustione della sigaretta ( Sidestream Smoke, corrente
laterale ), sia del fumo inspirato e poi espirato dai fumatori ( Mainstream
Smoke, corrente principale ).
L’insieme di particelle, solide e liquide, e di composti chimici in fase gassosa
che viene originata dalla combustione del tabacco rappresenta il più importante
inquinante dell’aria negli ambienti chiusi, spesso privi di una sufficiente
aerazione. Uno studio pubblicato sull’EPA Journal (U.S. Enviromental
Protection Agency) nel 1993, dimostrò come le fonti di inquinamento
tradizionalmente ritenute maggiormente responsabili dei danni alla salute delle
persone, come le emissioni di industrie chimiche o degli inceneritori di rifiuti
urbani, in realtà costituivano soltanto la minima parte delle sostanze nocive che
un soggetto respira ed assorbe e che altre sono le sorgenti, soprattutto in
ambienti “indoor”, responsabili degli inquinanti che effettivamente vengono
inalati: basti pensare al monossido di carbonio e agli ossidi di azoto dai
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bruciatori della cucina, agli agenti chimici degli spray e dei detergenti e al fumo
di sigaretta. A conferma di ciò si pensi che una sigaretta emette da 15 a 80 mg
di materiale particolato inalabile, PM ( particolato molecolare, costituito da
particelle solide che rimangono sospese nell’aria, distinte per diametro
aerodinamico), e da 12,56 a 135,65 mg di CO, un’automobile catalizzata in un
percorso di 1 Km produce da 1,9 a 4,3 mg di articolato e 1,47 mg di CO: chi
inquina di più, l’automobile o il fumatore? Ove ciò non bastasse si ponga mente
all’acrilonitrile, composto organico, tossico, utilizzato per la fabbricazione di
materiali plastici: sulla base dei dati di uno studio canadese del 1996, la fonte
principale di inquinamento da acrilonitrile è il fumo di sigaretta che immette
nell’atmosfera 4,57 tonnellate all’anno contro le 1,84 dell’industria, con la
differenza che nell’industria le emissioni sono regolamentate e sottoposte a
controlli e restrizioni mentre il fumo di sigaretta e ignorato.
Ma quali sono i componenti di una sigaretta?Cosa viene fuori dal fumo di
sigaretta?
Gli ingredienti di una sigaretta sono tabacco, carta, filtri e additivi. L’ETI, Ente
Tabacchi Italiano, in linea con la Direttiva Europea 2001/37/CE del 5 giugno
2001 secondo cui le Autorità preposte devono poter essere in grado di
controllare l’impiego degli ingredienti nei prodotti da fumo, così come avviene
per altri prodotti di consumo, ha pubblicato un fascicolo in cui sono contenuti
gli elenchi degli ingredienti impiegati nella fabbricazione delle sigarette ed uno
degli articoli a questi aggiunti, fornendo per ciascuno il nome, la funzione, la
quantità massima e l’esempio di altri beni di consumo in cui l’ingrediente e
impiegato o è naturalmente presente. Sulla stessa linea anche il Ministero della
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sanità del Regno Unito che fornisce una lista contenente gli additivi che
possono essere utilizzati ed in quale concentrazione. Fatto sta che queste liste
possono facilmente trarre in inganno, dato che da un lato gli additivi sono
regolamentati senza un’attenta analisi del loro impatto sulla salute pubblica e
dall’altro il più delle volte non si parla di additivi ma di aromi, termine che può
essere utilizzato per qualsiasi tipo di sostanza, la cui funzione viene indicata
nell’esaltazione delle caratteristiche naturali del tabacco e nel miglioramento
delle capacità d conservazione del prodotto. Un gruppo di ricercatori inglesi
dell’Imperial Cancer Research Fund ha condotto un studio su sessanta industrie
e ha scoperto che nelle sigarette attualmente sul mercato sono contenuti oltre
seicento additivi chimici di cui, peraltro, non erano mai stati analizzati gli effetti
sul comportamento dei consumatori. Si è scoperto che vengono addizionati
cacao e zucchero per rendere il tabacco piacevole anche ai “neo-fumatori”,
l’acetaldeide (prodotto derivante dalla combustione dello zucchero) o la
teobromina (contenuta nel cacao) che favoriscono l’espansione delle vie aeree
per facilitare l’aspirazione della nicotina, l’ammoniaca per aumentare la
velocità di assorbimento della nicotina da parte del corpo e catalizzarne gli
effetti. Questo solo per citarne alcuni. Sebbene descritti dall’industria del
tabacco come “addolcenti del gusto” o “incrementatori del sapore”, tutti questi
additivi risultano avere effetti farmacologici nel controllo dell’assorbimento
della nicotina. Una sigaretta apporta una dose del suo ingrediente principale, la
nicotina, nei polmoni dei fumatori in una mistura di particelle e gas. La nicotina
è rapidamente assorbita nel sangue attraverso l’ampia superficie dei polmoni –
oltre bocca e gola- e raggiunge il cervello in meno di dieci secondi. I recettori
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del cervello rispondono alla stimolazione della nicotina producendo sostanze
chimiche responsabili dell’assuefazione, come la dopamina, un
neurotrasmettitore del piacere, che ha la funzione di mettere in comunicazione
le cellule nervose tra di loro. Quando si libera dopamina, le cellule nervose
mandano al cervello un messaggio analogo a quello che inviano le cellule di chi
assume eroina, cocaina, alcool ed anfetamine: un senso di appagamento, di
euforia e di soddisfazione. Di solito la dopamina prodotta viene demolita
dall’enzima mao-B (Mono Amino Ossidosi), ma nel fumatore la nicotina
interviene ad impedire che l’enzima svolga il suo compito, così il senso di
piacere si prolunga; quando, infine, la dopamina viene riassorbita e si esaurisce,
basta fumare ancora per far ricominciare il ciclo.
Gli additivi sono anche utilizzati per mascherare gli effetti del fumo di tabacco
ambientale: a questo scopo “utile” si rivela il potassio che agisce riducendo
l’odore e l’irritazione causati dal fumo, o l’idrossido di calcio con cui viene
trattata la carta delle sigarette e che garantisce un odore più piacevole rispetto
alle sigarette non trattate. Ma nulla viene detto rispetto alla tossicità dei vapori
delle suddette sostanze.
Dato questo insieme di componenti, cosa viene fuori dal fumo di una sigaretta?
Il fumo è una complessa mistura di migliaia di componenti chimici, alcuni allo
stato gassoso, altri allo stato corpuscolare, che originano dalla combustione del
tabacco: tra le più importanti, per la loro nocività, vanno ricordate le
nitrosamine, potenti cancerogeni chimici, il monossido di carbonio ( CO ), gas
inodore, incolore ed insapore che impedisce la normale ossigenazione dei
tessuti poiché si lega ai globuli rossi determinando una continua intossicazione
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del sangue, degli organi e degli apparati, il benzopirene, idrocarburo aromatico
policiclico, classificato dall’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro
( IARC, 1986 ) e dall’Enviromental Protection Agency ( EPA ) come
fortemente cancerogeno per gli uomini, mentre sicuramente cancerogeno è il
benzene.
E’ importante definire la qualità e la quantità del tipo di inquinamento da fumo
passivo. Esso dipende da numerosi fattori quali il numero dei fumatori, il
numero delle sigarette fumate, il tipo di sigaretta e, soprattutto, la volumetria
dell’ambiente, la ventilazione e i tempi di ricambio dell’aria. Quindi possiamo
dire che non esiste uno standard univoco per valutare il grado di inquinamento
ambientale da fumo di sigaretta. Uno studio effettuato da ricercatori della
Società Italiana di Medicina Generale e dell’Istituto Nazionale dei Tumori di
Milano ha evidenziato come la concentrazione di polveri fini, che si liberano
nell’aria di una stanza per l’accensione di una sigaretta, sia superiore ai livelli
massimi consentiti dalla legge in ambiente “outdoor”- il limite massimo di
PM10 e di 40 mcg/m³/24 ore, pena la limitazione del traffico fino al ripristino
delle condizioni di normalità-.
Per le rilevazioni di particolato in un ambiente chiuso è stato utilizzato un
analizzatore di massa di particolato sospeso che registra la concentrazione delle
polveri su un campione aspirato alla portata di 3 litri al minuto, per un tempo di
analisi di quattro minuti ed ad intervalli programmati tra un rilevazione e l’altra.
Le polveri sono state suddivise nelle classi convenzionali TSP, totale del
articolato sospeso, PM10, PM7, PM2,5, PM1, rispettivamente particelle fino a
10, 7, 2,5 e i1 micrometri di diametro. La rilevazione è stata effettuata in due
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locali diversi: una stanza di 30 m3 dotata di un comune impianto di aerazione
presso l’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano ed un ristorante, suddiviso in
due ampie sale per fumatori e non fumatori, separate da una zona centrale di
ricevimento. Nel primo ambiente sono stati rilevati i livelli di polveri sia prima
che dopo l’accensione di una sola sigaretta: a locale vuoto, i valori risultavano
stabili fino al momento in cui veniva accesa la sigaretta; dopo si registrava un
incremento delle polveri fini, soprattutto di PM2,5, fino ad un picco di 5300
mcg/m³. Nel ristorante l’analizzatore di polveri è stato inizialmente posto
nell’area non fumatori, poi in quella fumatori e successivamente ritrasferito:
nella zona non fumatori la concentrazione delle polveri all’orario di apertura era
pari alla situazione outdoor di una città molto trafficata con valori di PM10 che
oscillavano tra 50 e 100 mcg/m³, per poi arrivare a 150 mcg/m³ dopo 30
minuti, con valori di picco di 218,12 mcg/m³ determinati dal sollevamento delle
particelle causato dal passaggio di camerieri e clienti. Queste analisi hanno
dimostrato quale sia l’effettiva portata di polveri fini ed ultra fini che una
sigaretta è capace di liberare nell’ambiente, fino a superare le concentrazioni
“outdoor” consentite dalla legge che, secondo una ricerca condotta dal Centro
Europeo Ambiente e Salute dell’Organizzazione Mondiale della Sanità nelle
principali città italiane nel biennio 1998/1999, sono responsabili di circa
500.000 decessi e 3.000.000 di casi di bronchite acuta.
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Fumo passivo e ambiente di lavoro
Estremamente frequenti sono le occasioni di esposizione al fumo passivo:in
casa, se il coniuge o i genitori sono fumatori, al lavoro, se lo sono i colleghi e
nei luoghi pubblici frequentati dai fumatori. L’ambiente di lavoro, in
particolare, comporta una esposizione a fumo passivo protratta per un
considerevole periodo di tempo, circa otto ore al giorno, non voluta, ed
estremamente rischiosa. E’ noto, infatti, che fumare anche una sola sigaretta in
un ambiente chiuso porta rapidamente ad un forte innalzamento della
concentrazione di PM10, tale da superare la concentrazione limite outdoor e,
soprattutto, l’esposizione a fumo passivo può sommarsi all’esposizione ad altre
sostanze tossiche, causando patologie di tipo additivo (lesioni enfisematose
nell’antracosi ) o moltiplicativo (tumore del polmone da fumo ed amianto).
Questo tipo di interazione può realizzarsi in diversi modi: il fumo può divenire
un vettore di sostanze tossiche presenti nel luogo di lavoro, può determinare un
innalzamento della dose assorbita di dette sostanze, può agire sinergicamente
con altri elementi presenti, può interessare uno stesso organo già coinvolto
nell’esposizione a rischio professionale o produrre un danno analogo.
Già nel 1986 il Surgeon General, massima autorità nordamericana sui temi della
salute pubblica, pubblicò uno studio in cui si dimostrava che quanti non
fumavano ma erano esposti al fumo altrui, finivano per subire delle
conseguenze in termini di danni alla salute, soprattutto se questa esposizione si
protraeva per considerevoli periodi di tempo e in ambienti chiusi, o comunque
malamente areati, come uffici o locali commerciali.
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Nel 1991, una ricerca condotta in America evidenziò come periodi sempre più
lunghi di assenza dal lavoro potevano essere una possibile conseguenza del
fumo passivo. Ma tali risultati non furono considerati totalmente attendibili, sia
perché il numero dei partecipanti – 43.732 – era inadeguato per un’indagine
rappresentativa della popolazione statunitense, sia perché gli stessi potevano
non essere stati esposti al fumo dei loro colleghi a causa di divieti vigenti. Per
valutare se effettivamente l’impatto del fumo passivo sul posto di lavoro era
tale da determinare assenteismo e maggiore utilizzazione di servizi medici, è
stato condotto uno studio su 5142 ufficiali di polizia non-fumatori di Hong
Kong, dove non erano ancora in vigore politiche occupazionali dirette alla
tutela dei non-fumatori. Ai partecipanti fu chiesto di completare un
questionario, in cui erano incluse domande sullo stato di salute, sulla eventuale
esposizione a fumo passivo, a casa o al lavoro, sulla durata dell’esposizione,
sulla visite mediche e la relativa ragione, sui giorni di assenza dal lavoro per
malattia. Il periodo medio di esposizione fu un anno. Per quanto riguarda il
profilo delle cure mediche, erano le donne ad averne maggiore bisogno, il 34%
rispetto al 26.6% degli uomini ed anche rispetto alla assenze dal lavoro la
percentuale femminile era prevalente, il 36% rispetto al 25.4%. Per entrambe le
categorie, maggiore era il periodo di esposizione maggiori erano le conseguenze
sulla salute e, di conseguenza, sul lavoro.
L’ambiente di lavoro costituisce quindi un importante luogo di esposizione e di
correlativa morbi-mortalità da fumo passivo:gli elementi cancerogeni contenuti
nel fumo di sigaretta possono combinarsi chimicamente con il gene p53, che
esercita un’azione “di guardia” sulla crescita incontrollata di cellule tumorali e
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provocare la patologia. Ad esempio il Bpde è un carcinoma che si produce
nell’organismo dalla scomposizione del benzopirene, sostanza chimica
fortemente cancerogena contenuta nel fumo, e che si lega al gene p53 nella
stessa sequenza del cancro polmonare.
L’insalubrità dell’aria e i gravi rischi per la salute determinati dalla presenza,
anche in minime quantità, di elementi cancerogeni nel fumo, sono stati alla base
di una pronuncia del TAR Lazio, definita “rivoluzionaria”, con cui venne
riconosciuta l’esistenza del nesso di causalità tra talune infermità di natura
neoplastica e l’esposizione al fumo passivo. La ricorrente, dipendente del
Ministero della Pubblica Istruzione, svolse per sette anni le sue prestazioni
lavorative presso un ufficio scarsamente areato e continuamente esposta al
fumo passivo delle sue colleghe. Nel settembre del 1992 fu sottoposta ad
intervento chirurgico per tumore polmonare riconducibile, in base alle
risultanze dell’esame istologico, all’esposizione a fumo passivo. Dati questi
presupposti, la signora presentò istanza per il riconoscimento da causa di
servizio della sua infermità, con relativa documentazione medica e rapporto
informativo del dirigente della direzione presso cui prestava servizio, rapporto
che confermò quanto dalla ricorrente dichiarato: “l’istante, non fumatrice, ha
prestato servizio per sette anni presso la stanza n. 75 di questa Direzione
Generale, insieme a tre colleghe fumatrici e pertanto costretta da inalare
continuamente il fumo presente nella stanza in forte concentrazione.
Aggiungasi a ciò la circostanza che la suddetta stanza, ubicata al di sotto del
livello stradale, è scarsamente illuminata ed insufficientemente riscaldata, per
cui durante i mesi invernali veniva di rado areata mediante l’apertura delle