dell’ordinamento giudiziario la procedura del regno venne ad attuare obiettivi di giustizia e non più
di sicurezza. La differente applicazione di questi due fattori non sanerà la situazione che si celava
sotto la facciata positiva di quest’epoca e la riforma religiosa farà esplodere le contraddizioni delle
innovazioni. “...Si sviluppa così, in mezzo all’inestricabile complesso delle consuetudini medievali,
l’ordinamento razionale della monarchia [...] Ha così origine il diritto moderno...”
1
.
Fautore di un diritto nazionale che si svincolasse dall’eredità romana e portasse a
compimento quell’unificazione del paese intrapresa, Francesco I gettò le basi per le successive
riforme degli altri componenti della famiglia reale, i Valois, che imprimeranno, nel bene e nel male,
la loro impronta sul secolo, trasformando la Francia nel più moderno stato nazional - monarchico
che si affaccerà al secolo nuovo, il Seicento. Nel 1580 sarà infatti terminata l’impresa e a Parigi sarà
pubblicata la legislazione riveduta ed uniformata per tutta la nazione. Parallelamente anche il fattore
amministrativo viene incluso nella riorganizzazione generale dello stato, nella parte del governo.
Commissari regi ed altri funzionari del potere centrale sostituiscono i vecchi principi, le città
persero il loro particolare diritto urbano e vennero affidate ad intendenti, le campagne, in cui era
stata sradicata la struttura sociale signorile, divennero parrocchie, embrioni dei moderni comuni. Il
crollo della vecchia struttura feudale fu totale, ed un sistema organico con all’apice la monarchia
venne sostituendosi. Tutte le vecchie funzioni nobiliari passano in esclusiva al re che le fa esercitare
da solerti funzionari, retribuiti, antesignani dei burocrati contemporanei.
Soprattutto l’amministrazione del fisco e della tassazione fu terreno di scontro tra i fautori
del nuovo assetto accentrato e le vecchie classi esautorate del diritto di imporre tributi sui loro
sottoposti. “...Alla costrizione sociale [...] si sostituiva l’obbligo fiscale...”
2
: le costose basi della
monarchia centralizzata furono gettate con l’imposizione fiscale accentrata ed unificata. Certamente
vi erano delle sperequazioni notevoli, ma l’autorità del re e del ministero delle finanze crebbe con
l’aumentare delle entrate. Sicuramente la corte di Parigi pesava sui conti pubblici, il suo fasto ed il
suo prestigio circondavano un re amante delle belle lettere e delle belle donne, che emancipò e
ammise a partecipare attivamente alla vita culturale e sociale del paese, in cui si distinsero per
originalità ed influenza intellettuale grazie alla figura di Luisa di Savoia, madre del monarca e fine
letterata.
Comunque sia, il regno di Francesco fu un dono storico notevole, significò progresso e
rinnovamento delle istituzioni un po’ antiquate della Francia tardo - medievale. Il governo sotto di
lui diventò una vasta organizzazione diretta da veri e propri ministri poi riuniti in un vero consiglio
decisionale, uomini nuovi, della nuova nobiltà di origine borghese, vennero a spartirsi i posti prima
riservati ai vecchi gentiluomini di spada, ormai esclusi con tutto il loro mondo dal nuovo sistema,
grazie all’introduzione della vendita delle cariche. Fu riorganizzato l’esercito, istituito un servizio
militare che non era più un privilegio delle casate più potenti del paese ma divenne un diritto regio,
costituendo in pectore un esercito nazionale permanente che affiancasse i numerosi, e gravosi per le
casse dell’erario, mercenari ingaggiati temporaneamente. Neutralizzò gli Stati Generali ed il
Parlamento di Parigi, vinse l’indipendenza della Chiesa, il suo potere perse ogni forma di controllo
e si avviò a realizzare quella forma di monarchia assoluta che non era ancora stata teorizzata in una
forma così personalistica e monocratica. Ma fu anche la rovina fiscale dello stato francese: libero da
qualsiasi forma di freno alla sua volontà (gli Stati Generali non verranno convocati che da Caterina
dè Medici nel 1560, dopo 76 anni di silenzio), egli si diede ad una vita di leggerezza artistica e la
Corte assunse un peso determinante nelle spese della nazione, cui si tentò di rimediare con imposte
sempre crescenti e molti abusi sulla popolazione.
Principe moderno, il suo periodo di regno sarà anche ricordato per l’arrivo in Francia delle
idee della Riforma. Inizialmente l’effervescenza delle nuove teorie riguarda la diffusione di piccoli
focolai di luteranesimo, prima del 1520. La Sorbona capì subito il pericolo e già nel 1521 le idee del
predicatore tedesco vengono condannate. Ma da quel momento in poi la divulgazione del pensiero
riformato subirà un’accelerazione notevole. E’ nel periodo tra il 1525 ed il 1540 che il contagio
luterano, come lo chiama Lecler
3
, si estende rapidamente. La propagazione del verbo del predicatore
di Ginevra inizia nelle città ma ben presto colpisce anche le zone rurali, “...benchè il movimento si
diffonda soprattutto tra le classi popolari, esso raramente è associato ad un sommovimento di ordine
sociale...”
4
. Francesco I vede in casa propria, a Parigi, il focolaio principale dell’espansione, in
quegli ambienti riformistici cattolici in cui maggiore è la presa delle idee luterane, luoghi colti che
egli stesso, fine umanista, aveva contribuito a porre sulla strada del dubbio e della critica. Dopo il
1533 i successi che la Riforma miete non le permettono di stabilirsi con forti radici nel paese, per
mancanza di capi di rilievo e per quel sospetto sentore di teoria d’importazione germanica che ne
faceva ancora un corpo estraneo. Ci volle Calvino per imporla al paese, con la teorizzazione del
sistema teologico che egli diede nella sua opera Institution Chretienne, pubblicata nel 1541. Da
quell’anno, il riformatore francese dirigerà con intelligenza ed energia l’infiltrazione delle sue idee
dalla città - chiesa di Ginevra.
Sotto Francesco I tuttavia, il filone francese della Riforma rimase ancora male organizzato,
continuò a diffondersi nonostante la repressione condotta dal re ma perdurò uno stato di
individualismo ed anarchia al suo interno. Merito del sovrano fu quello di non consentire nessuna
contestazione all’assioma tradizionale dell’unità religiosa, esemplificato dal motto “une foy, une loi,
une roy”. Questa regola fu formalmente rispettata ma la scissione religiosa covava sul terreno
pratico e l’accordo in questo campo cessava di essere dato per scontato. Come tutte le grandi e
profonde contrapposizioni, ogni parte dal principi si mantenne ancorata saldamente alle proprie
posizioni: i cattolici intransigenti, “...gelosamente fedeli alle tradizioni medioevali...”
5
, rigettavano
come eretiche le nuove dottrine; all’opposto, i riformati non cedettero di un passo. In mezzo, punto
mediano di una tripartizione che diverrà consueta nella storia politico - religiosa del sedicesimo
secolo in Francia, le scuole umaniste, divise nel metodo ma portatrici di un unico ideale, quello di
“...ravvicinare tra loro gli uomini, mantenerli nel cristianesimo tradizionale per mezzo della carità
piuttosto che con la violenza...”
6
. La prima ondata di repressione, quella che aveva visto nel 1523
alzare il primo patibolo, si acutizza nel terribile 1525, quando il re è fatto prigioniero a Pavia degli
Spagnoli e le autorità più conservatrici, il Parlamento parigino e la Sorbona, sfogarono la loro rabbia
contro gli eretici. Col ritorno in patria di Francesco, i toni si smorzarono e la mediazione di
Margherita di Navarra, sorella del principe, allineata sulle posizioni dell’umanesimo più mistico ed
affettivo, contribuì a rasserenare gli animi. Il sovrano era quasi sicuramente contrario allo zelo
persecutorio degli oltranzisti cattolici, data la sua personalità colta ed attenta agli scopi di un
accentramento politico che significava tuttavia dovere mantenere a tutti i costi l’unità di fede.
Convinto della giustezza dell’eradicamento degli eccessi anabattisti, che si erano mostrati così
dannosi in Germania, liberò il furore dei tribunali religiosi anche contro il luteranesimo a partire dal
1527. Allo stesso tempo protesse il partito riformista che viveva all’interno della sua corte ed il cui
peso, sotto la spinta di un illustre giurista come Budè, si accrebbe.
Essi non predicavano l’abbandono del riconoscimento dell’autorità confessionale della
Chiesa, preferivano solo arrivare ad una repentina riunificazione delle posizioni delle due fedi prima
che avvenisse il Grande Scisma, la Grande Rottura; “...fautore dell’unità cristiana, il partito
intendeva difenderla come Erasmo, non con la forza e con i supplizi, ma per le vie della dolcezza e
della conciliazione...”
7
: mi pare di poter notare come lungo tutto il secolo esiste sempre una
corrente, più o meno forte, di fautori del giusto mezzo, personaggi forse più illuminati sulla via da
seguire per risolvere i gravi problemi di coscienza che attanagliano la Francia durante l’intero
cinquecento. L’effetto che ebbe sul re e nel paese fu quello di annientare la veneranda università
della Sorbona dopo il 1534, riportando la vittoria sull’intransigenza conservatrice. Ma il fallimento
delle trattative coi principi tedeschi e l’affare dei Placards, i manifesti blasfemi redatti da Antoine
Marcourt, un protestante estremista, che tappezzarono di invettive contro la Chiesa romana le
principali città del paese, scatenarono l’indignazione del sovrano e della parte cattolica. La
persecuzione divampò per mesi nella nazione e solo dopo estenuanti trattative Francesco tornò a più
miti consigli, suggellati dall’editto di Coucy che interrompeva la repressione ed apriva di nuovo la
strada al tentativo di conciliazione. Gli sforzi del partito umanista furono vani: Francesco I
“...vedeva nei riformisti soprattutto dei buoni ausiliari della sua politica anti - imperiale...”
8
ma non
concepì il loro obiettivo più spirituale, quello di evitare la rottura della Cristianità su posizioni
definitive. Senza il suo aiuto, ciò avvenne dopo il concilio ecumenico riunito dal Papa Paolo III, un
pontefice desideroso di riformare la Chiesa, che aveva assunto al cardinalato grandi umanisti come
Pietro Bembo per indirizzare al rinnovamento morale e disciplinare l’intero edificio ecclesiastico: in
esso la Chiesa vedrà accolte le istanze di purificazione interna ma non il ritorno immediato all’unità
di fede coi protestanti. Nel frattempo il clima di sfiducia che aleggiava sugli esiti del concilio e le
necessità politiche sul piano estero spinsero il Valois ad allearsi con Carlo V, l’ex - nemico, nel
tentativo di sradicare dai rispettivi regni il pericolo protestante: “...da allora il partito della
repressione, capeggiato dal connestabile di Montmorency ebbe il sopravvento su quello degli
umanisti...”
9
.
Dopo il 1540, con l’apparizione dell’opera di Calvino, la conciliazione nel paese risultò
pressocchè impossibile. La dottrina calvinista si impose nel paese per il suo carattere innovativo e
non retrogrado come quello luterano: essa predicava la preponderanza della Chiesa riformata sullo
stato, contro la sua sottomissione nella versione luterana, un rapporto diretto dell’uomo con Dio,
senza intermediari, una religione della fede pura, non affidata ad immagini o al clero, con un
carattere straordinariamente dinamico e profondamente universale, in cui il misticismo medievale
veniva adattato al razionalismo moderno. Calvino voleva imporre alla società una concezione
religiosa adatta ai nuovi stili di vita creati dalla rinascita del pensiero umano. Dal 1539 la
persecuzione divenne più sistematica, le particolari misure adottate precedentemente contro piccoli
gruppi isolati divennero legge dello stato tramite l’emanazione sempre più frequente di editti validi
su tutto il territorio del regno, segno dell’autonomia impositiva assunta dal potere regio su porzioni
del paese sempre più vaste. Fondamentale è l’editto di Fointanebleau del1540: “...esso rivela la
pretesa dei principi in quest’epoca di prendere in mano gli affari ecclesiastici e di non contentarsi
più, come nel Medioevo, del semplice ruolo di braccio secolare...”
10
. Ecco perciò i Parlamenti
promossi a giudici della fede, con l’estromissione della esclusiva competenza ecclesiastica, altro
passo nell’affermazione della supremazia politica dello stato sulla teologia religiosa. L’assolutismo
del potere regale trova il suo centro di glorificazione nelle prime teorie di Jean Ferrault e dei suoi
seguaci della scuola di Tolosa, la stesa che alleverà Bodin. Ormai la persecuzione è affare di stato e
l’intervento civile in ambito spirituale raddoppia gli sforzi, facendo degli ultimi anni di regno di
Francesco I un periodo di ardore sterminante. Tanto più che il calvinismo, all’opposto del
luteranesimo, affermava la sua totale indipendenza, pur nell’unione dei due, nei confronti del potere
civile. Paradossalmente, era una dottrina che nella sua raffinatezza moderna e rinascimentale si
avvicinava di più al cattolicesimo, in quanto ne rivendicava i temi fondamentali dell’universalismo
e dell’individualismo. Ma il cattolicesimo delle origini non esisteva più e le gerarchie romane e gli
stessi dottori della Sorbona non volevano interferenze pericolose nella loro opera di cura d’anime e
soprattutto nella sfera del loro potere temporale, in Francia come dappertutto. La Riforma agì
specialmente nei centri urbani della nazione, dove le idee nuove circolavano e la capacità di critica
era più forte che nelle campagne ed in qui centri rurali in cui l’autorità della chiesa era ancora
superiore a quella dello stato. Il calvinismo si impose a tutti quelli che dubitavano del cattolicesimo
e volevano esprimere personalmente e con più libertà il proprio culto. Quando Francesco I morì, la
Francia si trovò coinvolta in una terribile esplosione di intolleranza.
Al trono assurse Enrico II, uomo malinconico, tetro ed introverso, al confronto del padre
brillante ed instabile, sposato dal 1533 a Caterina dé Medici, ma neppure il suo regno si dimostrò
più clemente verso i calvinisti. Convinto che dietro ogni male del suo paese ci fosse la diffusione
delle idee riformate, fin dal principio si diede a combattere gli ugonotti, dotando il Parlamento di
una Chambre ardente per giudicare l’eresia. Ma egli non aveva la scorza del padre e le proteste del
clero contro l’accaparramento dei processi di eresia da parte del potere civile lo convinsero della
necessità di spogliare il parlamento, nel 1549, del diritto di giudicare gli eretici. Queste disposizioni
fecero parte del grandioso editto di Chateaubriand, emesso nel 1551 per coordinare tutte le misure
di lotta per la difesa della fede. Una fede che ormai si era sdoppiata e che Enrico non seppe riunire.
Una vera e propria politica di sterminio dei calvinisti non fermò la definitiva compiutezza del
processo integrativo della dottrina ginevrina nel paese.
Nonostante l’opposizione del parlamento defraudato di tendenza gallicana, egli volle
asservire all’autorità della chiesa tutte la cause di eresia, fino a pensare di introdurre l’Inquisizione,
con tutto il suo bagaglio di oscurantismo repressivo e di austera severità, atto poi non avveratosi. La
legislazione divenne sempre più crudele, ogni eretico convinto era passibile della pena di morte,
un’uniformazione venne imposta in modo draconiano alla giurisdizione penale, ma tutto ciò
convinse ancora di più i calvinisti ad arroccarsi: essi crebbero di numero e di prestigio, con la
scalata che la Riforma aveva intrapreso fino ai più alti gradi della scala sociale, coinvolgendo quella
nobiltà la cui adesione esasperò un re in difficoltà sul piano della politica estera. Con l’editto di
Ecouen del 2 giugno 1559, il suo giuramento di sterminio totale dei calvinisti divenne pratica: la
pace di Cateau - Cambresis di quell’anno con la Spagna liberò il fronte di nuovo compatto dei
sovrani cattolici contro l’eresia e da quel momento egli indirizzò tutte le sue energie al compito che
si era prefissato, eliminare i protestanti dal territorio del suo regno.. “...Il conflitto ideologico si
complicò per i terribili torbidi politici e sociali...”
11
: questo poteva significare che la personalità di
Enrico II non era in grado di dominare gli eventi, egli era una pausa, un momento di arresto nel
processo di assolutizzazione della monarchia in atto, un attimo di rivincita del vecchio sistema
feudale e clericale sull’innovazione; ma le condizioni erano cambiate e la storia non fa sconti. Si
assistette allora agli ultimi sussulti di una nobiltà feudale ormai in agonia, che cercava nei maggiori
esponenti delle grandi famiglie, privati dei loro appannaggi, di impossessarsi del potere. Ma la
situazione finanziaria che aveva fatto rovinare la piccola nobiltà ed immiserire il popolo per
l’aumento dei prezzi, la smobilitazione dell’esercito creò ulteriori difficoltà. Repressa per legge
l’eresia nonostante le opposizioni notevoli di molti consiglieri protestanti fatti arrestare, Enrico II si
apprestava a scendere in guerra contro gli ugonotti quando ad un torneo cavalleresco in luglio fu
ferito ad un occhio e morì dopo una breve agonia il 10 luglio, incapace di essere ricordato
all’altezza del padre e colpevole di aver scatenato le ostilità tra i partiti religiosi che si andavano
organizzando nel paese stremato dalle difficoltà economiche.
“...L’improvvisa dipartita di Enrico II sopravveniva in uno dei momenti più drammatici della
Riforma francese [...] non sembrava più possibile nessuna conciliazione delle dottrine...”
12
: in
Francia non si poteva pensare di applicare le condizioni della Pace di Augusta che in una Germania
mosaico di stati sovrani andavano bene ma non in un paese fortemente accentrato, in cui era
inconcepibile la possibilità di espellere in blocco una minoranza religiosa fortemente organizzata e
disseminata anche nelle sfere stesse del potere. Enrico lasciava il potere nelle mani di sua moglie
Caterina, una donna e per di più malvista perché italiana e ritenuta portatrice di perniciose idee
machiavelliane all’interno della corte reale francese. Aveva scelto la soluzione di annientare con la
forza i calvinisti, e applicò questo suo pensiero in modo feroce e costante. Caterina, sposata per
interesse politico in quanto nipote del papa, reggerà, alla luce del giorno o nell’ombra, il potere per
venti e più anni, resistendo alla morte di due dei suoi figli saliti al trono Francesco II, troppo
giovane nel 1559 per governare, e Carlo IX, dimostrandosi capace di evitare la dissoluzione del
regno nel periodo in cui si concretizzarono le prime proposte a favore della tolleranza e della libertà
di coscienza.
Appena quindicenne, Francesco II visse troppo poco per potere incidere sulle sorti della sua
nazioni che avvicinava una pericolosa deriva di sangue. Non ebbe, nell’anno e mezzo in cui regnò,
mai il potere effettivo, retto dalle mani di Caterina e dalla mente del cancelliere Michel de
l’Hospital. Questo binomio agli albori del nuovo decennio tentò di restaurare la pace interna
facendo appello alla libertà religiosa, rinunciando alle persecuzioni, sulla scia della teoria di
conciliazione universale esposta da un grande pensatore quale Guillaume Postel, precursore nel
1547 della famosa generazione dei Politiques con la sua opera De orbis terrae concordia. Ma la
passione religiosa ormai aveva il sopravvento.
Il protestantesimo ormai contava su alte personalità che provenivano dalle fila di famiglie di
principi del sangue quali i Borboni e i Coligny; ad essi si opponevano i Guisa ed i Lorena,
imparentati con la fervente cattolica Maria Stuarda. L’influenza di costoro aveva portato al
ripristino di tutti i rigori del regno contro gli ugonotti durante il regno di Francesco II. Essi erano
usciti indenni dalla congiura di Amboise del marzo 1560, in cui i calvinisti sotto la guida del Condè
tentarono di assicurarsi al persona del re sottraendolo alla tutela dei Lorena. Il fallimento
dell’impresa aveva significato realmente l’inizio delle lotte civili. Cosa era cambiato dal periodo
precedente? Di sicuro l’atteggiamento dei calvinisti era passato dalla difensiva all’offensiva, un
partito armato era sorto e non veniva più mantenuto il piano di esilio o resistenza passiva che li
aveva contraddistinti nei decenni precedenti. L’aiuto maggiore era rappresentato dal supporto di
importante casate nobili e da un’organizzazione ormai capillare e ben preparata. Forse l’essere con
le spalle al muro, nel senso di non aver alternative alla sopravvivenza se non quella di lottare per la
propria vita fu la spinta più efficace per gli ugonotti. E’ il marzo 1560 a segnare una svolta nella
storia del secolo religioso francese: “...esso segna simultaneamente, da parte dei pubblici poteri,
l’inaugurazione di una nuova politica e , da parte dei protestanti, la loro entrata in scena come
fazione nello stato...”
13
. Caterina prese in mano la direzione degli affari per salvaguardare gli
interessi supremi dello stato, al di sopra delle rivalità dei partiti. Ella tenne presso di sé il re di
Navarra ed i Guisa, per mantenere a corte l’equilibrio tra i partiti del paese. Furono convocati gli
Stati Generali ad Orleans, durante i quali vi fu il debutto di una figura - chiave del periodo, il
cancelliere umanista Michel de l’Hospital
14
, la cui arringa d’apertura rimase celebre per la condanna
che egli fece della violenza messa al servizio della religione. Le misure adottate ad Orleans
risultarono intrise del suo spirito erasmiano, e le severe prescrizioni degli editti ad essi anteriori
furono cancellate e rinnovate in senso più clemente verso i sudditi della confessione calvinista.
Sul trono sedeva ufficialmente Carlo IX, succeduto nel dicembre 1560 al fratello,
secondogenito poco più che undicenne, e Caterina manteneva il governo del paese tramite la
reggenza in attesa della sua maggiore età ma anche per volontà di portare a compimento la politica
intrapresa nei 17 mesi di governo di Francesco II. Certamente anche il proposito di rafforzare la
propria posizione e la propria immagine all’interno di un palazzo che la detestava per la sua origine
straniera, per i suoi metodi falsi e poco scrupolosi, era un incentivo da mettere in conto nel valutare
la sua condotta politica di conciliazione. Ella non si preoccupava di teorie politiche, né di problemi
religiosi, ma “...aveva un senso accorto, quasi machiavellico, degli interessi superiori dello
stato...”
15
. La Francia del 1561 non disponeva di un sovrano energico, capace di imporre la pace
civile ai suoi sudditi divisi nella loro fede ed anche la reggenza non fece che accelerare la corsa alla
guerra, per mancanza di personalità in grado di allontanare tale pericolo. L’anno vide le prime
rivolte nel sud del paese da parte di un calvinismo in grado di mietere adesioni a ritmo frenetico, e
la contemporanea alleanza dei grandi capi cattolici per la difesa della fede e della patria, il tutto
sotto lo sguardo impotente del governo, che sfornava editti a getto continuo, improntandoli ad una
sempre maggiore libertà di coscienza ed alla reciproca tolleranza.
Venne soprattutto indetto un colloquio a Poissy nel settembre di quell’anno, un’assemblea
del clero a cui parteciparono teologi cattolici e riformati. Grandi personalità accorsero, tra cui
Francois Hotman e Teodoro di Beza, maggiori esponenti del calvinismo monarcomaco francese, tra
gli scranni della delegazione riformata. La pacificazione su temi di fede che si era prefissata il
binomio di governo, un’intesa generale su temi di culto che non esponessero il paese alla mercè
degli scontri di partito, non venne trovata, anzi la riunione si rivelò un fallimento totale ed
irrimediabile per Caterina e l’Hospital, causata episodicamente da una divergenza inconciliabile tra
le diverse visioni del sacramento dell’eucaristia. Lecler afferma che dopo Poissy il sistema dei
colloqui come momenti di superamento delle crisi religiose diviene superato dagli avvenimenti e di
nessuna possibile utilità futura
16
. In pratica venne misconosciuta la politica seguita a suo tempo da
Enrico II, quella dell’eliminazione integrale del calvinismo, a vantaggio della pratica della
tolleranza civile dei riformati, cioè il tentativo di ottenere perlomeno l’unità nazionale ove quella
religiosa era impossibile. Di questo problema si occuperà il gruppo di personaggi e pensatori che si
raduneranno attorno alla Reggente e che sostituiranno col nome di Politiques il nucleo di umanisti
erasmiani
17
. Essi punteranno ad un accordo sul piano civile e nazionale tra cattolici e protestanti, in
mancanza di un’intesa sul piano dogmatico. Il filo rosso che ho individuato all’inizio di questa
disamina non interrompe la su strada che porta a Bodin, materializzandosi di volta in volta in nuovi
attori moderati sulla scena politica che conta.
Col radicalizzarsi dello scontro, nuove rivendicazioni che travalicavano il terreno
confessionale apparvero. I cattolici rappresentati dalla famiglia dei Guisa, esigevano il ritorno ai
vecchi privilegi nobiliari e feudali; essi uscirono adirati con la Regina madre da Poissy, si ritirarono
nelle loro terre e danno vita alle prime leghe locali che prefigurano la futura Santa Alleanza,
facendo ventilare la possibilità di un ricorso al cattolico re di Spagna Filippo II. Tra gli ugonotti
iniziarono a serpeggiare idee politiche volte al tirannicidio e violenti attacchi di stampo anarchico -
radicale furono portati alle teorie assolutistiche. Caterina, donna intelligente quanto sciatta
d’aspetto, nonostante l’impossibilità dell’accordo, Caterina era decisa a salvaguardare l’integrità
dello stato francese; intuendo come l’unico mezzo per evitare i conflitti fra cattolici oltranzisti ed
ugonotti intransigenti fosse non più quello di mirare ad una risoluzione dottrinaria delle controversie
ma il ricorso ad un’ampia libertà di esercizio del culto riformato parallelamente al mantenimento
della religione romana come quella ufficiale del regno, ella accordò il diritto di pratica e la libertà di
coscienza ai protestanti tramite l’editto di St. Germain del gennaio del 1562. Esso testimoniava il
riavvicinamento avvenuto con la fazione ugonotta, il cui apporto è fondamentale per comprendere
questa sorta di statuto della Riforma. Esso era una misura provvisoria in attesa del futuro e sempre
più chimerico concilio generale, ma concedeva piena libertà al culto riformato, stabilendo le
condizioni del suo esercizio e la forma della sua organizzazione ecclesiale. La situazione non
migliorò e nel marzo di quello stesso anno giunse la notizia della strage di Vassy, compiuta dagli
uomini del duca di Guisa: non ci volle null’altro per scatenare l’insurrezione protestante guidata dal
Condè: “...alle atrocità degli ugonotti [...] risposero i cattolici con atti di vero terrorismo...”
18
.
Senza addentrarmi nelle pieghe cronacistiche degli scontri, questa ennesima guerra di
religione fu sanata dalla pace di Amboise, dopo aver lasciato sul campo Federico di Guisa e
prigioniero il Condè. I negoziati di questa tregua e dell’editto che ne seguì, com’era prassi abituale,
fece esaurire la spinta propagandistica del calvinismo, poiché furono difesi solo gli interessi della
nobiltà e le conversioni dei sudditi semplici calarono in modo enorme in quel periodo, il calvinismo
diveniva fede dei grandi signori, contro gli ammonimenti pressanti di Calvino stesso e tale
percezione fece diminuire l’appoggio del popolo. Fino al 1566 il governo regale, del quale Carlo IX,
proclamato maggiorenne, si impossessò a tutti gli effetti, assicurò un equilibrio assai instabile su
forze che non era in grado di dominare nel caso che si fossero riaccese le polveri dello scontro.
Caterina, che agì come un’ombra sul giovane sovrano, era astuta ed abile ma non poteva certo
prevalere sulle beghe delle fazioni. Ed infatti bastarono sporadici episodi per rinvigorire la battaglia
nel 1567, soprattutto l’errore del Condè di assediare Parigi per liberare la casa reale dall’influenza
dei Guisa. La capitale restava l’unico posto in cui solo il culto cattolico era autorizzato, concessione
che poneva indiscutibilmente la città degli affari di stato e delle grandi decisioni sotto l’egida ed il
controllo della fazione cattolica. Lo sbaglio del capo ugonotto consistette non nell’atto in sé ma in
ciò che ne scaturì: il rancore di Caterina verso la parte riformata e specialmente verso i suoi capi,
arroganti e presuntuosi. Dal disinganno, la Regina passerà ad un’ostilità oscura e profonda, in cui
possiamo ritrovare i prodromi dell’agosto 1572, di quell’ordine impartito mal ponderando le
conseguenze: “...da quest’epoca Caterina meditava forse una vendetta ma, con la sua abituale
prudenza, ella seppe attendere e contenere il suo risentimento...”
19
.
Alla fine del 1568 era in atto la terza guerra civile; dopo otto anni di assidui tentativi di
stabilire le condizioni politiche per una pace nazionale stabile e durature, Michel de L’Hospital
gettò la spugna, di fronte al presentimento che non vi fosse più la volontà, nelle stanze del governo,
per tentare una mediazione e che una politica di violenza si fosse impossessata della scena. Si
congedò dal re con un memoriale in cui riponeva le sue speranze in un programma moderato, in cui
i sudditi dovevano devozione al re ma nel rispetto reciproco delle rispettive coscienze. A proseguire
il suo lavoro ci penserà il partito dei Politiques, che apparirà, come tutte le cose più originali di
un’epoca, quando il regno sarà in balia delle armi: nel momento di maggiore tempesta c’è sempre
chi mantiene la rotta giusta, anche se inascoltato, per un approdo sicuro. Opera loro fu la stipula di
un nuovo editto di St. Germain nel 1572, in cui L’Hospital, che non era stato l’unico, ma il più
costante teorico del gruppo fino all’inizio del decennio, credette di ravvisare ancora una volta un
successo della sua politica. Ma da quell’8 agosto pochi giorni di pace separarono la nazione dalla
grande tragedia del secolo, paragonabile solo al 14 luglio 1789.
Grandi concessioni erano fatte agli ugonotti, l’editto si rivelò quanto di più liberale potesse
concepirsi al momento: piazzeforti, amnistia ed esercizio pubblico del culto protestante furono
liberalizzati in maniera ampia. Caterina si era decisa più stremata dalla crisi delle finanze del regno
che per convinzione personale: “...non erano le sua convinzioni religiose che la rendevano ostile alla
Riforma, ma le follie e i tradimenti dei capi...”
20
. L’editto fu l’ultimo momento di pace prima della
grande divisione che agì nel paese dopo il 24 agosto, a volerlo furono le necessità matrimoniali che
la Regina aveva programmato per i suoi figli nell’ambito di un progetto europeo. Proprio il 18
agosto Margherita di Valois andrà sposa di Enrico di Navarra, divenendo la futura regina Margot
tanto celebrata e cooptando il Borbone nella scala degli eredi al trono. Non comprendo se Caterina
capisse l’importanza di questo gesto, che tanto prodigo di divisioni ma anche di fortune sarà per la
storia del regno di Francia alla fine del secolo. Proprio quando la politica matrimoniale favoriva gli
ugonotti, i loro capi, tra tutti l’ammiraglio di Coligny, oltrepassarono i limiti della loro forza,
tentando di imporre al re la guerra nei Paesi Bassi in rivolta contro Filippo II ed il dominio
spagnolo, minacciando Caterina di scatenare la guerra civile in caso di rifiuto. Il resto è cronaca
risaputa: ella, preoccupata del prestigio di costui, tentò di far assassinare il capo ugonotto il 22
agosto 1572; il fallimento di quest’attentato e l’ira crescente dei riformati contro il potere indussero
Caterina del pericolo che correva la casa regnante e fece in modo di convincere il figlio Carlo IX
della necessità di eliminare la pericolosa nobiltà ugonotta.
Lo sterminio che avvenne nella notte di S. Bartolomeo, il 24 agosto 1572, fu preparato dai
capi del partito cattolico; nella sola Parigi furono massacrati tremila ugonotti, tra cui lo stesso
ammiraglio. Nei giorni successivi si assistette ad una battaglia senza esclusione di colpi in tutto il
paese: la guerra civile divampò ovunque e poco ci mancò che la nazione si smembrasse. La reazione
ugonotta fu feroce, ormai la vita di chiunque valeva poco, la responsabilità del terribile vulnus pesò
talmente sulla coscienza del giovane re da condurlo a morte precoce nel 1574. Sembra ormai
scartata la tesi della lunga premeditazione del massacro, mentre prende corpo, tra gli storici, la
teoria che fu lo sgomento di Caterina di fronte a Coligny ferito ma non ucciso che diede l’impulso
decisivo alle nefandezze cui si abbandonarono i fedeli del partito cattolico. “...Il massacro di S.
Bartolomeo [...] fu essenzialmente una misura di natura politica, una logica applicazione della pura
ragione di stato...”
21
: ma con esso Caterina invece di servire lo stato, come pensava, compromise
l’opera di tolleranza che aveva perseguito per 12 anni, gettando la sua stessa posizione personale
verso un giudizio negativo. Come riporta giustamente Lecler, “...Per una sinistra beffa della storia,
la sovrana, che si sarebbe potuta annoverare [...] tra i primi promotori della pace religiosa, sia
allinea improvvisamente tra le figure più sanguinarie del suo secolo...”
22
. La notte di S. Bartolomeo
mostrò cosa vuol dire un potere debole, non in grado di imporsi alle fazioni e costretta a rimediare
ai propri errori con un nuovo sobbalzo di imprudenza politica, peggiorando man mano le cose e non
governando stabilmente un paese facendo rispettare la propria volontà. Ma al momento la
maggioranza dei francesi, anche di quelli che inizialmente avevano accolto favorevolmente la
religione riformata, vedevano di buon occhio la lotta agli ugonotti, colpevoli di eresia ma anche di
sacrilegio, delitti e sedizioni. Tutti gli odi religiosi placati a fatica dalla numerosa serie degli editti
precedenti, ora apparsi quantomeno scandalosi, si sfogarono nelle maniera più crudele possibile.
Con l’ascesa al soglio pontificio di Gregorio XIII, l’opera di restaurazione cattolica sembrava avere
un sostenitore in più, e del calibro maggiore che potesse esserci. Le forze spirituali e temporali del
paese furono mobilitate contemporaneamente contro la Riforma e inascoltata giacque la voce dei
Politiques sulla necessità di riprendere il discorso sulla tolleranza civile: “...il punto di vista della
Cristianità entrava in conflitto con quello dello stato nazionale...”
23
e per il momento il primo
doveva avere il sopravvento. Una grande corrente democratica, dai toni accesi e risentiti verso il re,
percorse il paese tra le fila calviniste, e mai come allora, penso che tutto il processo di
accentramento avviato da Francesco I abbia rischiato la disfatta completa. Ormai però, anche gli
ugonotti capirono di esser giunti al momento finale dello scontro col cattolicesimo e gli anni
immediatamente successivi al 1572 testimoniano l’urto decisivo fra i due schieramenti, portatori di
opposte visioni della vita religiosa ma anche politico - sociale.
Il nuovo re, Enrico III, che sarà l’ultimo Valois a regnare, appena tornato, o scappato nella
notte del 19 giugno, dal trono polacco che aveva assunto l’anno precedente, il 1573, fu incoronato a
Reims nel 1575. Il paese era ormai diviso in due parti ostili tra loro, sotto il controllo armato
dell’Unione Calvinista e del partito cattolico, la Santa Unione o Lega. Dopo la spaventosa tempesta
successiva al 1572, un nuovo editto attenuava i toni dello scontro, restituendo ai protestanti libertà
di coscienza col permesso del culto privato. Proprio in questo periodo di calma incerta si palesa
l’azione dei Politiques, tendente ad unire sul piano dell’interesse nazionale cattolici malcontents ed
ugonotti moderati. Di essi e delle loro idee parlerò più diffusamente nel prossimo capitolo
24
. Enrico
III aveva un carattere instabile, certamente non quello adatto al momento: in un primo tempo
sconfessò la strage di S. Bartolomeo, per cui già a suo tempo era stato in contrasto col fratello Carlo
IX, ne riabilitò le vittime, concesse ai riformati libertà di culto ed otto piazzeforti. Di seguito
deplorò il proprio comportamento e si rivoltò nuovamente contro gli ugonotti, in un tentativo
aleatorio di ristabilimento dell’unità confessionale. Fu in questo periodo che i protestanti posero
l’assedio a Parigi, dopo aver unito, sotto il comando del fratello del re, il duca Francesco d’Alençon,
promesso sposo di Elisabetta d’Inghilterra, un poderoso esercito in cui confluì tutto il furore dei
calvinisti. La riconciliazione tra i due fratelli, per cui spingeva Caterina, avvenne con la pace di
Monsieur, a cui seguì l’editto di Beaulieau. Esso rappresentava una grande vittoria per le tesi dei
Politiques, finalmente in grado di influenzare le decisioni importanti per lo stato. Tuttavia una pace
tanto liberale, che concedeva ampie garanzie ai riformati, piazzeforti, esclusa Parigi, e la creazione
di camere bipartite presso ogni Parlamento, sollevò l’indignazione della fazione cattolica. Lo stesso
re, costretto a firmarla, era contrario. In quel fatidico 1576, a Peronne si costituì la Lega cattolica, al
cui comando Enrico III non esitò a porsi.
Egli convocò gli Stati Generali a Blois per riceverne supporto e sussidi. In tale sessione i due
ordini maggiori, appoggiati dal sovrano, decisero che in Francia non doveva esserci che una sola
religione, quella cattolica, e fu approvato il progetto di estirpazione del calvinismo, ritenendosi che
non potessero convivere due confessioni inconciliabili, pena la minaccia di smembramento del
regno. Del suo impegno contro questi progetti come deputato del Terzo Stato, Jean Bodin, nella sua
più rilevante apparizione pubblica, ci ha lasciato testimonianza nel diario quotidiano che stese
durante lo svolgimento dei lavori. Proprio l’anno in cui il Nostro diede alle stampe la sua opera
principale, Les Six Livres de la République, il 1576, la situazione nella nazione volgeva verso un
altro scontro armato. La guerra di religione e l’accordo raggiunto con le istanze dei protestanti con
l’editto di Poitiers, conseguente all’abbandono dei progetti bellicosi del re per mancanza di fondi,
portarono ad un effimero ripristino dei grandi appannaggi feudali ed al predominio dell’alta nobiltà
d’epée sul monarca. Egli comunque, persona arrogante e non consapevole di non possedere la forte
personalità che si attribuiva, si dichiarò soddisfatto dell’editto, sentendolo come suo in confronto a
quello precedente che considerava estortogli. Lecler afferma che “...nonostante le restrizioni che [...]
contiene l’editto di Poitiers, questo si avvicina notevolmente, nelle sue disposizioni essenziali, al
futuro editto di Nantes...”
25
, l’atto che sancirà la definitiva chiusura del periodo delle guerre di
religione. Dopo una fase di stasi dovuta allo scatenarsi degli eventi in politica estera, Enrico III vide
rinfocolarsi la crisi religiosa alla morte del fratello, duca d’Angiò.
Questa scomparsa, avvenuta nel 1584, gettò nello sconforto Bodin e molti personaggi che si
erano legati all’erede al trono, dato che Enrico non avrebbe lasciato figli a cui trasmettere la corona,
e riaccese violentemente la diatriba sul futuro monarca. I Guisa, per allontanare un calvinista, e per
di più recidivo, dalla successione, Enrico di Navarra che aveva la precedenza in linea ereditaria,
candidarono il vecchio cardinale di Borbone, dietro il quale incalzava lo stesso Enrico. Nessuno,
tranne l’accorto Bodin, aveva mai previsto un caso del genere fino a quel momento. L’opinione
generale era senza dubbio contrario ad un’eventualità di tal fatta. La Lega, considerevolmente
indebolita nei sette anni di pace trascorsi dall’editto di Poitiers, si risvegliò in maniera potente. Essa
rivelò la sua natura di strumento che mascherava le ambizioni dei Guisa e le manovre degli
spagnoli, non mantenendosi semplicemente arma guidata dalla causa cattolica per la difesa della
fede romana: “...è incontestabile che religione e politica, nella Lega, si fusero in una pericolosa
alleanza...”
26
. La fazione cattolica rinvigorì la lotta sempre latente nel paese, imponendo al debole
Enrico III, incapace di contrastarla, un nuovo editto che demoliva tutta l’opera anteriore di
pacificazione: “...era l’applicazione pura e semplice del trattato di Augusta in ogni stato sovrano
dell’impero...”
27
. Il re si dimostrò una volta di più poco abile nella lotta per imporre la volontà
sovrana alle parti: la confessione cattolica ritornava ad essere la sola religione del regno, a scapito
del potere del monarca. Agli ugonotti, per la terza volta negli ultimi decenni, si parò davanti la
scelta tra l’esilio o la professione di fede cattolica , cioè implicante la conversione. Essi si diedero
alla lotta nei tra anni seguenti, fino al 1588, mentre Enrico fu ridotto a subire il dominio della Lega e
del suo capo, Enrico di Guisa. La sua umiliazione raggiunse l’apice quando fu costretto a fuggire da
Parigi insorta, abbandonando la capitale al suo rivale trionfante. Il popolo parigino, reso fanatico dai
capi della Lega, corse alle armi ed assediò il Louvre, residenza della corte. Il re fu costretto a
fuggire, nominando Enrico di Guisa luogotenente del regno, in pratica un’abdicazione in pectore.
Infatti chi si mostrò il vero sovrano agli stati Generali di Blois, il difensore della nazione di fronte
ad un monarca traditore, fu proprio il Lorena.
Correva l’anno 1588, e quella crisi fu creduta definitiva per le sorti della Francia da diversi
commentatori politici, tra cui emerge la voce di Etiénne Pasquier. I tre ordini del regno fecero il
passo solenne di scavalcare con il loro consenso unanime alle decisioni dell’assemblea la volontà
del re. Enrico III si sentì perso, defraudato di un potere che i suoi predecessori andavano costruendo
da più di un secolo: per orgoglio, per esasperazione per una tutela che lo rendeva sempre più
manovrabile dalla fazione cattolica, risolse, con un atto di coraggio mai mostrato prima, di
sbarazzarsi dei suoi rivali e fece assassinare Enrico di Guisa assieme al fratello, la vigilia di Natale
1588. Questo delitto provò l’animo dell’anziana Regina madre ed il ricordo della strage di S.
Bartolomeo, indelebile e mai superato da Caterina, la portò alla morte pochi giorni dopo. Moriva
lasciando un paese diviso, dopo trent’anni in cui aveva detenuto il potere, e l’opera che aveva
intrapreso, consolidamento del trono e pacificazione del paese, era ormai in fumo: lo stesso potere
reale, quello che re emerso dalle molteplici autorità feudali, era minacciato. Parigi insorse ancora a
vendicare le due figure assassinate. Questa sollevazione fu caratterizzata dal fatto che
un’opposizione nobiliare e borghese come quella contro il sovrano divenne a carattere democratico
e quasi rivoluzionario: c’era la seria intenzione di rovesciare il re, una forza cattolica aveva
impugnato l’armamentario ideologico dei monarcomachi calvinisti che fino a quel momento aveva
rifiutato, organizzandosi per una resistenza attiva che poteva condurre, forse, alle estreme
conseguenze del regicidio.
Curiosamente, è lo stesso atteggiamento tenuto dai calvinisti dopo l’agosto ’72,
l’affermazione del diritto popolare contro la tirannia e l’assolutismo del sovrano. Certamente nel
sedicesimo secolo la democrazia non ha ancora assunto le tinte liberali che siamo usi attribuirle:
“...essa ha qualcuno dei tratti totalitari che, più tardi, caratterizzeranno il giacobinismo o le
democrazie popolari dei giorni nostri...”
28
, cioè una concezione gerarchica della società ed una
sostanziale intolleranza verso i dissidenti. Enrico III non aveva compreso come la Lega non era solo
l’opera dei Guisa ma anche un grande afflato di massa. I sedici quartieri di Parigi elessero un
comitato insurrezionale che dichiarò il re decaduto e spergiuro, istruendo un processo davanti al
Parlamento cittadino. Monarca fu proclamato il duca di Mayenne, fratello del defunto Enrico di
Guisa.
Non restò al re spodestato che allearsi con Enrico di Navarra e con gli ugonotti. Costui aveva
già dato prova del suo genio politico e della sua nobiltà d’animo con un mirabile documento
lanciato ai tre Stati di Francia nel giugno 1589, in cui invitava gli ordini del paese alla concordia ed
all’unione, in cui sanciva la sua definitiva appartenenza al calvinismo, poi rinnegata, e garantiva
ampia libertà di culto ai cattolici, questa volta religione non ufficiale del regno ugonotto che si
profilava all’orizzonte storico. Grazie a questo accordo Parigi fu stretta d’assedio e la vittoria
sembrava profilarsi all’orizzonte della coalizione. Proprio in quel momento Enrico III fu assassinato
da un monaco, Jacques Clément, con una pugnalata che rimase nella storia, il 1° agosto 1589. Prima
di morire Enrico nominò futuro Enrico IV il principe di Navarra, obbligandolo, almeno moralmente
a farsi cattolico. Vissuto sempre sotto il controllo di qualcuno, non riuscendo a svolgere una politica
autonoma e di progredire nell’assolutizzazione del paese, troppo lacerato dagli scontri dottrinari,
Enrico III morì delegando il suo erede a sanare la divisione del regno con l’abiura pubblica del suo
culto. Come dice Pirenne, ad Enrico IV “...non restava che da conquistare il suo regno...”
29
.
Egli compì questa impresa dopo una lunga guerra contro Filippo II, imperatore di Spagna,
che appoggiava col suo esercito la Comune Insurrezionale di Parigi, durata fino al 1593 e con
riappropriazione palmo a palmo del territorio della Francia a partire dalla roccaforte normanda. In
quell’anno morì il Cardinale di Borbone e gli stati Generali si riunirono per eleggere il successore.
Contro Filippo II che voleva imporre sua figlia Isabella, una donna e perdipiù straniera, il pessimo
ricordo di Caterina e la legge fondamentale del regno consentirono ad Enrico di diventare il vero
monarca del suo popolo. Era la prima volta dopo l’esplosione della Riforma che il problema della
libertà di coscienza non coinvolgeva solo i sudditi ma un re. Abiurando il protestantesimo, con la
famose frase “Parigi val bene una messa” egli tornò cattolico e la maggior parte del regno lo
riconobbe. I restanti oppositori furono comprati, la sottomissione valse loro 20 milioni di lire: la
guerra di religione, iniziata per profonde divergenze ideali finiva per concludersi grazie ad un
pagamento, che accontentava tutti, sfiniti dai combattimenti. La guerra interna fu vinta non con le
armi, o non solo con quelle, ma con l’evidenza dei fatti: la nazione non avrebbe mai accettato un re
protestante. La guerra con Filippo II continuò fino alla pace di Vervins del 1598, che riconfermava
le posizioni reciproche di Spagna e Francia ottenute 30 anni prima a Cateau - Cambresis. Lo stesso
anno la pacificazione religiosa poneva termine a tre decenni di aspre lotte intestine che avevano
sconquassato le fondamenta del paese, portandolo sull’orlo della dissoluzione. L’Editto di Nantes,
che sarebbe durato fino alla solenne Revoca del 1695, chiudeva la fase del cambiamento cruento
delle istituzioni e del pensiero politico - religioso in terra di Francia ed apriva il secolo nuovo con la
sua voglia di ricostruire su nuove basi il regno.
Fondamentale fu il periodo di Enrico IV, finalmente re di tutti i suoi sudditi, per questo
scopo di renovatio etico - sociale. Egli era stato fino al 1576 un semplice strumento nelle mani di
Caterina dè Medici. Avendo giurato fedeltà alla causa degli ugonotti, fu in pericolo quella notte del
24 agosto, ma Carlo IX lo fece salvare. Dovette però abiurare la fede calvinista e fu quasi tenuto
prigioniero presso la corte. Fuggì nel febbraio del 1576 e cercò di ricostruire la monarchia di
Navarra, ormai sottomessa, come tutte le grandi casate, al potere monarchico. In giugno di
quell’anno ritornò al protestantesimo, acquistando sempre maggior prestigio tra i riformati. Infatti
condusse brillantemente una guerra di religione e firmò la pace dei Bergerac nel 1577. Dal 1584
iniziò una vera e propria lotta all’ultimo sangue con la famiglia dei Guisa, venendo scomunicato dal
Papa nel 1585 e vedendo l’anno successivo il proprio territorio invaso dalle truppe filo - cattoliche.
Solo con l’abiura del 1594 riuscì a diventare il monarca effettivo del paese, dopo aver volto a
proprio favore le contraddizioni e le debolezze del 1593 tra le fila leghiste per diventare l’erede al
trono legittimo. Entrò a Parigi il 22 marzo 1594, ponendo fine ad un’epoca fra la più buie nella
storia del popolo francese e facendo seguire un periodo di eccezionale attività per ristabilire la pace
interna e l’autorità monarchica, ridando il ritmo ottimale alle forze produttive della nazione
francese. Negli anni successivi seppe governare saggiamente il proprio paese, grazie all’aiuto di
consiglieri capaci sui cui riponeva un’estrema fiducia, quale il Sully. Finirà i suoi giorni nel 1610,
assassinato da Francois Ravaillac, un ex frate dominato da fanatismo religioso, quando era in grado
di dispiegare nella sua politica doti eccezionali e grande carattere accostati ad una accortezza
notevole. Ma ormai la Francia diveniva il modello della monarchia moderna e assoluta e la politica
sciolta dalle spire teologiche contribuiva al progresso economico e sociale dell’intera nazione
durante tutto il XVIIesimo secolo.