O me! O life! of the questions of these recurring,
Of the endless trains of the faithless, of the cities fill’d with the foolish,
Of myself forever reproaching myself, (for who more foolish than I,
and who more faithless?)
Of eyes that vainly crave the light, of the objects mean,
of the struggle ever renew’d,
Of the poor results of all, of the plodding and sordid crowds
I see around me,
Of the empty and useless years of the rest, with the rest me intertwined,
The question, O me! so sad, recurring – What good amid these, O me, O life?
Answer
That you are here – that life exists and identity,
That the powerful play goes on, and you may contribute a verse.
W. Whitman
Scrivere una tesi
Scegliere un tema di tesi non è cosa semplice, quanto meno non lo è stato per me. Dietro
l’inflazionata espressione “tesi di laurea” ci stava, a mio parere, l’argomentazione
sostanziale di una linea di pensiero che avessi condiviso, l’analisi di un tema che mi
avesse realmente segnato e coinvolto lungo il percorso universitario. Non un orpello al
cammino di studi del neodottore, né la recita di una maschera di comodo della durata di
qualche mese.
Così, quando lo scorso anno ho cominciato a imbastire questo progetto, sono stati
molti i fattori che sono entrati in gioco: i temi più interessanti, i corsi più appassionanti,
i richiami di sempre, le voci del mondo, i consigli degli amici, la cosiddetta vocazione, le
speranze per un lavoro futuro… Non ultimo il fatto di portare a termine, almeno
formalmente, un percorso di studi cominciato diciassette anni or sono. E la volontà di
concluderlo nel modo più significativo.
I miei demoni
Ci sono voluti alcuni ripensamenti e riaggiustamenti prima di intraprendere una
decisione. Mi sono lasciata a maggese per qualche tempo, così che i diversi richiami
potessero sedimentare. Ed è rimasto – sul fondo e a fondamento – un tema che mi sta a
cuore, di cui avverto l’imperante urgenza e la cui scommessa starà poi nel saperne
praticare la teoria. Il legame che unisce in una comunione profonda tutti gli esseri della
Terra: questa sarebbe stata l’idea madre del mio percorso.
Non si tratta di un’influenza New Age o di propositi buonisti nell’era della
globalizzazione: il richiamo veniva da molto lontano. Prima di ogni altro elemento,
credo sia stata la religione ad avermi fatto sentire legata a tutti gli altri abitanti della
Terra. Il gioco mimetico, fin da piccola, mi suggeriva che c’erano tanti altri bambini
come me nel mondo, e le fotografie – scheletriche – sui mensili missionari a cui mia
nonna era abbonata, mi dicevano che molti vivevano nell’indigenza. Mi era stato
insegnato che siamo tutti fratelli, e mi sforzavo di immaginarmi virtualmente
imparentata ad una tribù africana. Poi c’erano gli incontri con le altre persone. In classe
con noi, alle medie, c’era Hosni, della Tunisia, che nell’intervallo ci insegnava a scrivere il
11
nostro nome in arabo. A tredici anni, con buona pace del mio ragazzo dai capelli rossi,
ero certa che avrei sposato una persona di colore, perché ero contro il razzismo e a
favore dell’intercultura. L’amicizia più grande che tutt’ora coltivo attraversa un ponte di
oltre 10.000 chilometri.
L’amore per la natura, se certo traduceva il rispetto per il creato, aveva assunto una
connotazione ben precisa quando, in quarta elementare, la maestra mi fece leggere “Susy
e l’ecologia”; ma, fondamentalmente, è un debito immenso alle mie estati nei prati di B,
alle pareti di ceresio translucide nel sole del primo mattino, alla terra nera da coltivare,
ai mucchi di fieno profumati nelle sere di giugno, quando i rintocchi del cuculo si fanno
sentire al limitare del bosco…
Perché Morin
La prima volta che ho avuto a che fare con questo autore risale ormai all’estate 1999,
quando, terminata la maturità pochi giorni prima, cominciai a dare un’occhiata ai due
testi che la presentazione in Internet del corso di laurea in Scienze dell’Educazione – al
quale ero intenzionata ad iscrivermi – indicava come fondamentali: Il paradigma perduto
1
e
La danza che crea
2
.
L’idea di mantenere come riferimento centrale l’opera di Morin deriva da una
duplice esigenza: da un lato la volontà di scandagliare in profondità il solido percorso di
un autore chiave per il mio percorso di studi. Anni fa mi avevano insegnato che J.S.
Bach, prima di arrivare a comporre il suo Clavicembalo ben temperato, avesse trascritto per
anni e anni le partiture dei maestri di contrappunto. Molto più umilmente, il mio
procedere voleva provare – attraverso un’immersione nelle parole e nel metodo di Morin
– a respirare un poco lo stile della complessità che indaga le questioni dell’uomo nel
mondo. Non nego che il rischio di inebriamento possa a volte aver nascosto quello di
intossicazione. Dall’altro, poiché sono molte le cose che mi interessano (e che mi in-
tessono) e alle quali avrei voluto dedicare un lavoro di tesi, quest’analisi mi ha
consentito di trattare contemporaneamente, di connettere e di “tenere insieme” – sparsa
colligo, dice lo stesso Morin – gli elementi che avvertivo come i più importanti: la
relazione empatica con ogni individuo della specie umana, l’istanza religiosa, la
questione ecologica, la missione dell’educazione, i timori sul futuro, la riscoperta del
passato, l’amore per la Terra e per l’uomo e il loro legame con il cosmo. La saggezza
simbiosofica, il sentimento matri-patriottico, l’idea di relianza, la comunità di destino
sono concetti che hanno saputo ospitare e incarnare quanto mi stava più a cuore e che,
da sola, non avrei saputo esprimere.
La comunità di destino
L’idea di comunità di destino mi è sembrata l’espressione più aperta e adatta a
comprendere in sé tali questioni, come se potesse indicare la strada verso cui muovere i
passi tentennanti nel presente panorama di incertezza. Nella stesura della tesi, questo
concetto ha certamente subito una traduzione (e forse un tradimento) da parte della
sottoscritta rispetto all’accezione originaria indicata da Morin. Lavorare su questo tema
mi ha dato la sensazione di sentirmi legata, come dice Panikkar, alla Terra sotto, agli
1
Morin, Il paradigma perduto, op. cit..
2
Ceruti, La danza che crea, op. cit..
12
uomini al mio fianco e ai cieli in alto, e ha presuntuosamente insinuato in me il pensiero
di aver intarsiato un frammento del contributo alla causa umana.
Ciò che più mi ha affascinato è il fatto che la comunità di destino porta in sé un che
di escatologico, ricordandoci che non sarà più solo il passato, lo “ieri”, ad unirci: sarà il
domani. Per la mia generazione, nata in una seconda età dell’oro, non avrebbe senso
rivangare odi antichi. Piuttosto, ci aspetta l’oneroso compito di migliorare un mondo
attraversato da conflitti e rancori, soffocato dai fumi del progresso, di costruire una
nuova convivialità tra i popoli, di ricucire legami, di coltivare la speranza, di preservare
il futuro costruendo un presente vivibile. La comunità di destino si colloca all’interno di
questo doppio movimento: la coscienza di ciò che lega le origini conflittuali al presente
travagliato in vista di un futuro solidale.
E’ come se sposassimo la causa umana. Perché nel matrimonio la promessa, e la
scommessa, riguardano il “d’ora in poi…”, un impegno di vita che si apre su un futuro da
costruire insieme. Amare la Terra (i suoi abitanti, la biosfera, il cosmo) e onorarla nella
gioia e nel dolore, in salute ed in malattia. Fino alla fine dei tempi. E’ questa promessa a
riconnettere il nostro frammento di storia alla vicenda dell’umanità, della Terra, del
cosmo, che inesplicabilmente e inaspettatamente hanno intrapreso il cammino la cui
continuazione è affidata oggi alle nostre orme.
13
Introduzione
Nell’era planetaria, qualsiasi evento accada nel punto più remoto della Terra ha
ripercussioni su tutto il resto del pianeta. Ora che il mondo è divenuto il villaggio
globale, l’interdipendenza delle azioni individuali genera una sorta di teatro collettivo
in cui si agitano istanze di molteplice provenienza. Attori di storie uniche e diverse, ci
ritroviamo oggi ad essere allo stesso tempo protagonisti della medesima vicenda: quella
della specie umana sul pianeta Terra. Certamente, la vita di homo sapiens è stata da
sempre interconnessa a quella del pianeta, ma una particolare discontinuità storica oggi
evidenzia con maggior forza tale condizione: la specie umana, avendo prodotto
perturbazioni radicali al sistema Gaia da cui dipende, è ora in grado per la prima volta
di annientare se stessa.
E’ questa la premessa da cui muove il mio lavoro di tesi che si contestualizza
all’interno del pensiero della complessità e ha come riferimento fondamentale l’opera di
Edgar Morin. Attraverso una rilettura del versante antropologico della vasta bibliografia
moriniana, lo studio assume come idea guida il concetto di comunità di destino – la
prospettiva secondo cui sul futuro di ciascuno gravano minacce che legano il destino
individuale a quello comune.
La tesi è articolata in due parti. La prima (“L’età del ferro planetaria”), si sofferma sul
processo che fa dell’epoca attuale un tempo di interdipendenza e, in particolar modo,
analizza, attraverso l’interpretazione di Morin, le conseguenze antropologiche del
fenomeno per cui ciascun membro della specie umana, dopo una diaspora di decine e
decine di migliaia di anni, si ritrova in connessione – nel circuito della miseria o del
comfort – con tutti gli altri frammenti dell’umanità dispersi sul pianeta. Quest’unità
intersolidale, che tuttavia non riesce a risvegliare negli individui e nelle società il
sentimento di appartenenza all’umanità, ci impedisce – poiché privi di una coscienza di
specie – di uscire dall’età del ferro planetaria e di individuare e portare a compimento i
tratti comuni che definiscono l’umanità dell’umanità.
L’unità originaria della specie viene però oggi ribadita, in modo quasi ultimativo,
dal nostro essere compartecipi e corresponsabili di un destino comune su cui è sospesa
una spada di Damocle. Il degrado ecologico, lo spettro del terrorismo, la disseminazione
e la miniaturizzazione dell’arma atomica, le derive di uno sviluppo sottosviluppato,
l’alleanza delle vecchie e nuove barbarie travalicano i confini nazionali, minacciando
indiscriminatamente l’intera specie umana, oggi per la prima volta nelle condizioni di
annientare se stessa. Posta di fronte al nulla nudo dello sterminio, l’umanità potrebbe
forse finalmente assumere la propria comunità di destino planetaria e trasformarla –
conscia del proprio essere perduta in un mondo e in un cosmo votati anch’essi alla
perdizione – in una comunità di progetto che realizzi la saggezza del vivere insieme nella
sola casa comune: la Terra-Patria.
Com’è possibile tradurre in azione tali propositi? Proviamo a rispondere a questa
domanda nel corso della seconda parte (“Le finalità terrestri: sfide incrociate”), nella quale
analizziamo, nello specifico, due settori ritenuti da Morin fondamentali al fine di
coltivare e assumere la coscienza di comunità di destino.
Il primo, che concerne la politica, considera come le molteplici questioni –
propriamente antropologiche – che oggi rientrano nella sua sfera dovrebbero
riconoscere ad essa una funzione e un contesto multidimensionali che possano
consentirle di farsi carico della questione antropologica nella sua complessità. Poiché i
15
problemi che interrogano la Terra (a partire dalla questione dello sviluppo) richiedono
regolazioni planetarie, la presa in carico del destino comune diventa oggi una priorità di
carattere politico. La scommessa per una politica che diventa così un’antropolitica, una
politica dell’uomo, una politica di civiltà, si misura oggi in risposta alla domanda sul
come agire per la specie umana.
Il secondo, analizzando le caratteristiche di un metodo che prova ad indagare la
complessità del reale, considera l’evento educativo come elemento cardine di una
riforma di pensiero che conservi la circolarità, connetta ciò che era disgiunto, ricerchi
l’interdipendenza e la solidarietà, ecologizzi le idee. A sua volta, proprio questo
cambiamento paradigmatico dovrebbe innescare una riforma dell’educazione che,
insegnando a conoscere la conoscenza, a cogliere i principi di una conoscenza
pertinente, ad affrontare le incertezze, a comprendere la condizione umana, ad
assumere l’identità terrestre, a praticare la comprensione e a coltivare un’etica del
genere umano, possa contribuire a formare negli studenti teste ben fatte.
In un panorama incerto e minaccioso, le missioni a cui l’umanità è chiamata (salvare
il pianeta, civilizzare la terra, compiere l’unità umana e salvaguardarne la diversità) e a
cui la politica e l’educazione possono provare a rispondere, si contestualizzano
all’interno di un mondo e di un cosmo votati, come d’altra parte l’umanità stessa, alla
perdizione. Solo il riconoscimento di questa nostra comunità di destino potrebbe
permetterci di coltivare un’antropoetica e di compiere le nostre finalità terrestri,
facendo appello ad una forza – la relianza – che comunicando e facendo comunione
sviluppi solidarietà, fraternità e compassione reciproche su scala planetaria. Questo
potrebbe consentirci, se non di ovviare, almeno di resistere alla crudeltà del mondo.
16
Parte prima
L’età del ferro planetaria
“La presa di coscienza delle nostre radici terrestri
e del nostro destino planetario
è una condizione necessaria
per realizzare l’umanità e civilizzare la Terra.
In questo senso
il nuovo radicamento terrestre è un fine in sé.
Tutto si tiene:
l’elaborazione delle nostre finalità terrestri comporta
la conoscenza e il riconoscimento del nostro dasein cosmico,
della nostra identità terrestre,
della nostra condizione antropologica,
dell’età del ferro planetaria”.
Edgar Morin
17
1. L’età del ferro planetaria
Les nuits sont enceintes
et nul ne connaît
le jour qui naîtra.
Proverbio turco
La solita storia
Dire storia planetaria è narrare il racconto singolare della Terra e dei suoi abitanti. Della
Terra intera, e di tutti i suoi inquilini. Ma che io mi ricordi, a scuola la storia diventava
planetaria solo in tre occasioni. In principio era il caos, e i ribollimenti magmatici
piuttosto che le grandi glaciazioni interessavano la pangea nel suo complesso, senza
discriminazioni di penisole privilegiate. Con uno scarto di milioni di anni, toccava
all’errore nautico di Colombo inaugurare l’epoca delle scoperte dei mondi nuovi su un
pianeta rotondo. E con un ultimo balzo di cinquecento anni si atterrava nella prima
metà del XX secolo, per affondare nella barbarie di due guerre mondiali il terzo evento
della storia planetaria. La morale, per ragazzini pragmatici – pur farcita della ricchezza
della diversità – si riassumeva nel motto “gli eventi planetari sono, due volte su tre, pericolosi”.
Forse è anche a seguito di questo timore che l’insegnamento storico si è concentrato
per lo più sugli eventi nazionali o, al massimo, sulle interferenze (più che interazioni)
con i paesi limitrofi piuttosto che alla storia planetaria: la democrazia francese, la
monarchia e il parlamento inglese, la Grande Germania, le colonie belghe e danesi, le
conquiste spagnole e portoghesi, l’indipendenza americana, accenni alla rivoluzione
russa e una sbavatura sul Giappone a seguito della bomba atomica. La restante parte
delle terre emerse era avvolta nella nebbia dell’indifferenza. Cosa avvenisse lungo la
costa orientale dell’Adriatico, oppure al di là degli Urali, o nella penisola indiana non si
è mai saputo. Il continente africano – indifferentemente considerato, a Nord come a
Sud, sull’Atlantico come sull’oceano Indiano – si trovava in uno stato permanente di
carestia e lotte tribali. In America latina vivevano gli Indios dell’Amazzonia a cui le
multinazionali sottraevano ingenti porzioni di foresta. Dalla Grecia fino all’India si
estendeva una vasto cono d’ombra – il Medioriente e la penisola arabica – di cui si
intuiva solo la posizione di Israele e Palestina perché nell’ora di religione ci venivano
indicati sulla cartina geografica. L’Oriente è sempre stato famoso per le stoffe e per le
spezie, ma che storia avessero quelle terre così densamente popolate non l’avrei saputo
dire.
Improvvisamente ci si risveglia ad una nuova storia. Quello che i libri di scuola non
hanno raccontato lo si comincia a percepire di persona. Anche sulle prealpi orobiche
soffia ormai il vento del divenire planetario.
L’influenza del XXI secolo
21 Febbraio 2003. Un medico sessantaquattrenne dell’Università Zhongshan, nella
provincia cinese del Guandong, arriva ad Hong Kong per partecipare ad un matrimonio.
Alloggia nella camera 911 al nono piano del Metropole Hotel. Accusa lievi disturbi
respiratori, ma sta abbastanza bene per visitare la città e fare compere insieme al
cognato cinquantatreenne, che risiede ad Hong Kong. Nei giorni precedenti, la sede di
Beijing dell’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva ricevuto la segnalazione di una
19
strana epidemia contagiosa che aveva già causato la morte, nell’arco di una settimana, di
oltre 100 persone nella provincia del Guandong
3
.
22 Febbraio. Il medico cerca cure urgenti al Kwong Wah Hospital di Hong Kong ed è
ricoverato in terapia intensiva per insufficienza respiratoria. Nei giorni precedenti la
sua partenza aveva curato pazienti affetti da una strana polmonite.
23 Febbraio. Una turista canadese settantottene che alloggiava al Metropole Hotel,
torna a casa a Toronto, dove viene accolta da tutta la famiglia ansiosa di ascoltare le
avventure del viaggio.
24 Febbraio. A Hong Kong, un ragazzo ventiseienne manifesta i sintomi di un’infezione
respiratoria, ma evita di farsi visitare. Dal 15 al 23 febbraio ha fatto visita ad una sua
conoscenza che alloggiava al nono piano del Metropole Hotel.
26 Febbraio. Un uomo d’affari americano di origine cinese viene ricoverato all’ospedale
francese di Hanoi in seguito a tre giorni di febbre e disturbi respiratori. Il suo recente
viaggio ha toccato le città di Shangai, Guandong e Macao, facendo tappa ad Hong Kong
e ad Hanoi. Poco prima della sua partenza da Hong Kong aveva pernottato presso il
Metropole Hotel, nella stanza sul corridoio limitrofo a quella in cui pernottò il dottore
di Guandong. L’uomo è curato da un ufficiale dell’Organizzazione Mondiale della
Sanità, dott. Carlo Urbani.
1 Marzo. Il cognato del dottore del Guandong viene ricoverato. Una donna ventiseienne
viene trasportata d’urgenza presso l’ospedale di Singapore accusando disturbi
respiratori. Era stata ospite di una amica che alloggiava al nono piano del Metropole
Hotel.
4 Marzo. Il dottore di Guandong muore in seguito ad una polmonite atipica.
Contemporaneamente, l’uomo d’affari americano viene trasferito all’ospedale di Hong
Kong. Sette operatori sanitari che l’avevano assistito ad Hanoi si ammalano. Nel
frattempo, la turista canadese muore all’ospedale di Toronto. Cinque membri della sua
famiglia vengono ricoverati per infezione respiratoria.
18 Marzo. Entro questa data casi di polmonite atipica verranno segnalati in Canada,
Germania, Taiwan, Tailandia e Regno Unito, così come in Hong Kong, Vietnam,
Singapore. Gli inviti ad evitare i viaggi nel Sud-Est asiatico si rincorrono e per le
compagnie aeree si profilano tempi ancor più duri. Un blocco negli scambi, di questi
tempi, è assolutamente impensabile e i singoli paesi sospendono il giudizio, tentennanti
tra le istanze di sanità pubblica e gli interessi economici.
Viviamo una storia planetaria. Ciò che accade in un punto remoto del mondo incide
sugli eventi di tutto il pianeta. Parafrasando il noto effetto farfalla di Lorenz, uno starnuto
a Pechino influenza il bilancio della compagnia aerea di Montreal. Restare indifferenti
di fronte agli eventi locali può portare a conseguenze molto pericolose, anche nel punto
più distante dall’origine. La storia di ciascuno è diventata la storia di tutti, e viceversa.
Ce ne rendiamo conto per gli eventi più tragici, come appunto in questi casi. Ma nel
bene e nel male ci troviamo tutti a fare i conti con un’interdipendenza su scala
planetaria. Eppure sono oltre cinquecento anni che siamo entrati in questa era – l’era
anche delle unificazioni microbiche. Contestualizzarne la storia attraverso la
l’interpretazione di Edgar Morin è la finalità di questo capitolo.
3
Fonte dati: WHO website.
20
1.1 Una storia planetaria
1.1.1 Il Nuovo Mondo e un mondo nuovo
L’era planetaria, afferma Morin, ha inizio alla fine del XV secolo, allorché quella piccola
appendice dell’Eurasia – forte delle tecniche mediorientali acquisite nel corso del
Medioevo – scopre un continente popolato da culture e divinità sino ad allora ignote
4
.
Le prime interazioni microbiche e umane, gli scambi vegetali e animali e il
commercio fra Antico e Nuovo Mondo, la conoscenza e la progressiva diffusione di
tradizioni e nuovi sincretismi inaugurano un’epoca in cui ogni elemento si trova
contestualizzato nella scena mondiale. Lo slancio impetuoso di quelle giovani e piccole
nazioni d’Europa che si lanciano alla conquista del globo costituisce dunque l’incipit di
un’epoca nuova che, attraverso l’avventura, la guerra, la morte, mette in comunicazione i
cinque continenti nel bene e nel male
5
. Dal 1492, in modo irreversibile, le società, le
culture, le lingue, le civiltà comunicano tra loro e diventano interdipendenti,
mantenendosi d’ora in avanti in contatto stabile.
La colonizzazione di terre sconosciute rivela la presenza di popolazioni di cui si
ignorava l’esistenza. L’abbattimento delle barriere tra Europa e America, Asia e
America, Europa e Africa sub-sahariana consente l’instaurarsi dei primi approcci di
economia globale. Le colture, tradizionalmente legate ad un contesto regionale, si
omogeneizzano diffondendosi nei diversi continenti e modificando le abitudini
alimentari delle popolazioni. Lo sbarco sulle coste americane avvia una catastrofe
umanitaria determinata altresì dal contagio di nuovi virus, trasmessi il più delle volte
agli indigeni dagli animali addomesticati introdotti dagli europei. Questi ultimi, inoltre,
esportano nel nuovo mondo l’utilizzo delle lingue originarie: spagnolo, portoghese,
francese, inglese.
In meno di cento anni, il pianeta – che si scopre frammentato e inciso da diversità
impensate – trova nell’unificazione agricola, microbica e linguistica una nuova
ricomposizione. Nei medesimi decenni, Magellano prova la sfericità del globo (1521)
mentre Copernico (1473-1543) formula le intuizioni fondatrici di un sistema eliocentrico.
Dalla conquista delle Americhe alla rivoluzione copernicana, un pianeta è nato e un cosmo è
crollato
6
.
Il mondo nuovo che scopre se stesso cerca ora le parole per raccontarsi e
comprendersi. Come hanno scritto Gianluca Bocchi e Mauro Ceruti
7
:
L’età moderna si aprì con la difficile impresa di estendere le conoscenze dal mondo chiuso
all’universo infinito. Ma si aprì anche con l’impresa, altrettanto difficile, di imparare a vivere e
ad abitare in un pianeta disperso nell’universo infinito, in un mondo contemporaneamente chiuso
e aperto rispetto alle immense estensioni degli spazi siderali. Nelle origini stesse dell’età nuova,
segnate dall’esplorazione di terre e di mari e dalla rivoluzione nei cieli, era presente una tensione
4
Morin, L’età del ferro planetaria, in Pensée aujourd’hui, supplemento a Nouvel Observateur, ottobre 1990.
5
Morin, L’identità umana, op. cit., p. 212.
6
Ibidem.
7
Bocchi-Ceruti, Origini di storie, op. cit., pp. 106-108.
21
fondatrice tra finito e infinito, fra chiusura e apertura, tra i confini delle collettività locali e le
nuove reti di relazioni planetarie e cosmiche.
Se dunque l’era planetaria non può fare tabula rasa del passato, è certo però che essa
inaugura un nuovo corso storico, di cui la scoperta dell’alterità, la perdita delle certezze
e una nuova tipologia relazionale costituiscono gli elementi cardinali.
1.1.2 Il processo di interrelazione su scala planetaria
Una prima mondializzazione all’insegna della conquista
Gli europei entrano nell’Età moderna attraverso l’esperienza dell’alterità, l’incontro con
la diversità, il proliferare della varietà, l’apertura di spazi sconfinati. Questo impatto
pone gravi e inquietanti problemi, teorici e pratici, etici e cognitivi. La tendenza
prevalente è stata quella di interpretare alterità e differenze stabilendo gerarchie,
relazioni di dominazione e di subordinazione, giudizi di superiorità o inferiorità
8
.
L’immigrazione degli europei nelle Americhe e in Australia e l’importazione del modello
europeo, delle sue armi, tecniche, concezioni in tutti gli avamposti, dissemina la civiltà
– e la barbarie – in ogni angolo del pianeta.
La planetarizzazione stimola la conquista: essa rappresenta ciò che Morin definisce
la prima elica del processo planetario
9
, quel motore che lo alimenta attraverso la violenza,
la distruzione, la schiavitù, lo sfruttamento feroce, in primo luogo delle Americhe e
dell’Africa. Nel XIX secolo l’imperialismo europeo – che ha nel colonialismo il proprio
apice – segna un ulteriore passaggio dell’era planetaria
10
.
Sempre più tumultuoso e conflittuale, il processo di mondializzazione fa della
guerra del 1914-1918 il primo grande denominatore comune dell’umanità, unità, questa
volta, nella morte. Così l’Europa, colei che aveva inaugurato e diretto il vivace processo
delle interazioni su scala mondiale, sprofonda nell’abisso. Il suo declino apre una nuova
fase dell’era planetaria, le cui convulsioni – cominciate nel 1914 e poi rilanciate nel 1917
– non cesseranno, attivandosi anzi vicendevolmente.
La solidarietà economica globale rivela palesemente il suo prezzo durante la crisi
del 1929, mentre sulla scena politica mondiale si vanno affermando quei movimenti
(nazismo, fascismo, comunismo) che, degenerati in totalitarismi, marchiano
irreversibilmente il cammino dell’umanità, scrivendo col sangue, col fuoco e, per la
prima volta, con la bomba atomica le pagine più buie della propria storia. La tremenda
scoperta delle conseguenze su Hiroshima e Nagasaki (1945) fanno dell’arma atomica
l’elemento aleatorio ormai disseminato e miniaturizzato che, minacciando l’umanità
intera, impone una relativa tregua ai bellicismi, paventando un autoannientamento
della specie. L’Organizzazione delle Nazioni Unite – istituita nel 1945 dalla coalizione
vittoriosa al fine di mantenere la pace e la sicurezza internazionale, garantire
l’uguaglianza e l’indipendenza di tutti i popoli, sviluppare la cooperazione tra gli Stati
nel campo economico, sociale, culturale e tutelare i diritti dell’uomo e le sue libertà
fondamentali – viene presto paralizzata dalla rapida cristallizzazione del mondo in due
blocchi che entreranno in conflitto in tutti i punti del globo.
8
Ibidem, pp. 101 e ss.
9
Morin, L’identità umana, op. cit., p. 212.
10
Morin–Kern, Terra-Patria, op. cit., pp. 8 e ss.
22
La decomposizione del totalitarismo innesca una crisi profonda in tutti i paesi
dell’ex impero sovietico. Le convulsioni del postcomunismo accelerano e amplificano un
formidabile processo di ritorno al passato, alla tradizione, alla religione, all’etnia,
processo nato, un po’ ovunque nel mondo, dalla crisi del futuro e dai sussulti identitari
contro l’omogeneizzazione
11
.
Il 1989, liberando il mondo dalla minaccia totalitaria dell’URSS, apre all’Europa
l’opportunità di coltivare la propria comunità di progetto in un’ottica di respiro più
ampio. Ma gli anni Novanta sono anche il teatro della tragedia jugoslava, dei massacri
africani, della crisi economica nel Sud-Est asiatico.
La speranza è affidata al Nuovo Millennio, occasione propizia per un
ricominciamento. Ma già il primo anno del XXI secolo è straziato dall’attacco
terroristico al World Trade Center di New York: due aerei kamikaze si schiantano
contro le Torri Gemelle, trucidando oltre 3.000 persone. Il bollettino del dramma
prosegue con la guerra in Afghanistan, il dramma ceceno, la crisi mediorientale e, ora,
iraqena.
Una seconda mondializzazione all’ nsegna della dignità universale i
Inestricabilmente legata a questo vortice di conquista, la mondializzazione è sospinta
altresì da una seconda elica, complementare ma soprattutto antagonista a quella che
muove la macchina dominatrice
12
. Culture e civiltà, portatrici di cosmologie, storie,
sistemi di valore, usanze, tecniche differenti entrano per la prima volta in contatto,
avviando un processo di confronto, fecondazione, od omologazione. L’esistenza di un
panorama estremamente variegato ha introdotto la percezione, nella cultura europea, di
non essere che una delle matrici presenti sul pianeta.
Fin dagli albori dell’era planetaria, le idee universaliste dell’umanesimo europeo,
anche all’interno dello stesso Occidente, hanno progressivamente messo in questione i
fondamenti religiosi e culturali della propria dominazione. Da Bartolomé de Las Casas
13
a
Montaigne, il riconoscimento dignitoso dell’alterità smuove le pale di questa seconda
elica e sviluppa le potenzialità universali dell’umanesimo europeo. I movimenti di
emancipazione dallo sfruttamento, dalla dominazione, dalla colonizzazione – istanze
poste con forza anche dalle Internazionali socialiste – si attualizzeranno nell’abolizione
della schiavitù, nell’affermazione dei diritti dell’uomo, del diritto dei popoli a disporre
di se stessi, nelle idee di libertà, uguaglianza, fraternità, nel valore universale della
democrazia, nella solidarietà umana. Seppure inizialmente ristretti all’Occidente
maschile, questi principi emancipatori – che riconoscono i diritti identici e uguali di
tutti gli esseri umani – si allargano ed espatriano nel corso del XIX secolo.
E’ a partire dagli anni Sessanta del XX secolo che questa seconda mondializzazione
riprende vigore. L’operato di nuove associazioni non governative (come Amnesty
International, Survival International, Greenpeace…), rende visibile l’urgenza di un
riconoscimento e di una presa in carico dei problemi comuni a tutta l’umanità.
Lentamente, nelle diverse parti del mondo prendono forma delle cosiddette
controcorrenti che, con modalità differenti, contestano i caratteri dominanti della società
moderna, proponendosi di adottare stili di vita maggiormente responsabili e solidali nei
confronti della Terra e dell’uomo. Tra queste Morin segnala:
11
Ibidem, p. 20.
12
Morin, L’identità umana, op. cit., pp. 217 e ss.
13
Si veda a proposito l’analisi compiuta da Todorov in La conquista dell’America, op. cit.
23
- la controcorrente ecologica, che purtroppo non può essere accresciuta che
dall’aumento del degrado della biosfera, e che costituisce già uno dei motori
della seconda mondializzazione;
- la controcorrente di resistenza all’invasione generalizzata del principio quantitativo,
che si dedica alla preservazione del principio di qualità in tutti i campi a
cominciare dalla qualità della vita. Tale corrente trae vigore dalle calamità
provocate dalla trasformazione degli animali di consumo in oggetti
industriali, dallo stravolgimento della loro alimentazione, effettuata con
scarti della stessa industria alimentare (vedasi il caso “mucca pazza”);
- la controcorrente di resistenza al primato del consumo standardizzato, che pure si
manifesta sia con la ricerca della qualità, sia con la ricerca di un’intensità
vissuta (“consumo”) o con la ricerca di una frugalità e di una temperanza;
- la controcorrente della salvaguardia delle identità e delle qualità culturali,
sviluppatasi come reazione all’omogeneizzazione planetaria;
- la controcorrente, ancora timida, di emancipazione nei confronti della tirannia
onnipresente del denaro, che si cerca di controbilanciare attraverso relazioni
umane e solidali, con scambi di servizi, facendo arretrare il regno del profitto;
- la controcorrente di resistenza alla vita prosaica puramente utilitaristica, che si
manifesta attraverso la ricerca di una vita poetica, votata all’amore,
all’incanto, alla passione, alla festa;
- la controcorrente, ancora fragile, che, in reazione allo scatenarsi della
violenza, alimenta etiche della pacificazione delle anime e delle menti
14
.
1.2 Descrivere l’era planetaria
L’era planetaria, l’abbiamo appena visto, è una realtà di fatto. Le vicende storiche la
testimoniano, ma ciò non implica che il nostro paesaggio mentale abbia imparato ad
ospitarla. Conoscere i fatti è certamente il primo passo perché possiamo cominciare a
comprenderli, ma, oggi, prendere coscienza di appartenere ad una storia planetaria
comporta un ridimensionamento e un rimescolamento nei paradigmi tradizionali finora
coltivati. Una coscienza planetaria richiede che ogni singolo individuo percepisca di
essere inscindibilmente connesso, sotto ogni punto di vista, a tutti gli altri esseri umani
della Terra e al pianeta stesso.
Abbozzi – come li chiama Morin – di coscienza planetaria hanno iniziato a delinearsi
solo a partire dalla seconda metà del XX secolo. Essi sono la conseguenza di una serie di
elementi, quali:
1. La persistenza di una minaccia nucleare globale. Il richiamo alla grande paura virulenta
del periodo 1945-1962 – dopo la disseminazione dell’arma atomica in nuovi stati
– resta un forte fattore di coscienza planetaria.
2. La formazione di una coscienza ecologica planetaria. Lo sfruttamento illimitato e
scriteriato delle risorse, un inquinamento esponenzialmente crescente e una
degradazione progressiva minacciano di annientare la biosfera, di cui la specie
umana è parte. A partire dagli anni Settanta, l’ecologia si pone come la scienza
che studia la casa umana: la biosfera nel suo insieme. All’umanità è chiesto di
preservarla, se vuole preservare se stessa.
14
Morin, L’identità umana, op. cit, p. 219.
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3. L’entrata nel mondo da parte del terzo mondo. La decolonizzazione degli anni ’50-’60
ha fatto apparire sul proscenio del globo un miliardo e mezzo di esseri umani
fino ad allora relegati dall’Occidente nei bassifondi della storia. I due terzi del
mondo, che noi chiamiamo terzo mondo, sono entrati nel mondo. Che questa
umanità ispiri paura o compassione, le sue tragedie, le sue penurie, la sua massa
ci spingono continuamente a relativizzare le nostre difficoltà euro-occidentali, a
mondializzare la nostra percezione e la nostra concezione delle cose umane. Di
fatto, i problemi del terzo mondo (demografia, alimentazione, sviluppo) sono
sempre più sentiti come i problemi del mondo stesso. Allo stesso tempo, e
malgrado tutte le rinnovate chiusure etnocentriche, l’era planetaria induce a
riconoscere sia l’unità dell’uomo che l’interesse delle culture che hanno
diversificato questa unità.
4. Lo sviluppo della mondializzazione della civiltà
15
. E’ una tendenza che si sviluppa nel
bene e nel male, comportando distruzioni culturali irrimediabili: omogeneizza e
standardizza i costumi, le usanze, i consumi, i cibi (fast food), i viaggi, il
turismo; estingue lingue, culture, specie. Parallelamente, questa
mondializzazione opera anche nel bene, poiché genera usanze, costumi, stili di
vita comuni attraverso le frontiere nazionali, etniche e religiose che consentono
di oltrepassare un certo numero di barriere di incomprensione fra individui o
popoli. Sviluppa vasti settori di laicizzazione e di razionalità dove non
intervengono più divieti e maledizioni religiose. Tuttavia crescono anche le
controtendenze che, sacralizzando la nazione e l’etnia, ristabiliscono le chiusure
e i rifiuti.
5. Lo sviluppo di una mondializzazione culturale. La scienza, la tecnica, la razionalità, la
laicità erano prodotti storici singolari della cultura occidentale prima di
diventare elementi di civiltà che si sono universalizzati. La successiva diffusione
di questa civiltà, generalizzando nuovi modi di vita e di pensiero, crea alla fine
una cultura cosmopolita, una cultura dell’era planetaria. Anche in questo caso,
l’ambivalenza tra gli aspetti omogeneizzanti e degradanti e la possibilità di
nuovi sincretismi, è consustanziale al processo.
6. La formazione di un folclore planetario. Nel corso del XX secolo i media hanno
prodotto, diffuso, mescolato il cinema, la musica, il canto, le danze e i colori del
mondo in un folclore mondiale a partire da temi originali nati da culture
differenti.
7. La tele-partecipazione planetaria. Dagli anni Cinquanta e Sessanta la diffusione del
mezzo televisivo ha fatto sì che il mondo arrivi quotidianamente nelle case in
modo caleidoscopico, all’ora dei pasti, attraverso le immagini di inondazioni,
cicloni, colate di lava o di fango, carestie, massacri, rivoluzioni di palazzo,
attentati, olimpiadi, campionati mondiali e internazionali. Ormai non c’è evento,
avvenimento, catastrofe che non sia captato da una telecamera e inviato a ogni
15
Va premessa una precisazione in relazione al significato che Morin attribuisce al termine civiltà.
Richiamando l’etimologia tedesca, egli la definisce come “tutto ciò che può essere acquisito e trasmesso da una
società all’altra, a differenza della cultura, ossia ciò che è singolare e specifico in una società. Pertanto, se la cultura è
generica, la civiltà è generalizzabile; la cultura si sviluppa nella tradizione e nella fedeltà ai suoi principi specifici, la civiltà
accumulando le proprie esperienze, in altri termini progredendo. Se inoltre la civiltà si oppone in particolare alla barbarie, la
cultura si oppone alla natura. Cultura e civiltà determinano due polarizzazioni: ai termini singolarità, soggettività e
individualità della prima corrispondono quelli di trasmissibilità, obiettività e universalità della seconda” (in Morin,
Pensare l’Europa, op. cit., p. 58).
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latitudine in centinaia di milioni di istantanee. Strana mondializzazione, dice
Morin: si consumano da spettatori le tragedie, l’ecatombe, gli orrori di questo
mondo ma, allo stesso tempo, si partecipa alla vita degli altri e ci si commuove
per le altrui sofferenze. Non fosse che il tempo di un flash, l’emozione umana si
manifesta, e si portano vestiti e offerte agli uffici internazionali di soccorso, alle
missioni umanitarie. Il dramma è tuttavia una salvezza: oggi ci si interessa, si ha
compassione per le miserie degli altri perché li si vede (ma solo quando li si
vede); allora aiuti medici e alimentari si incamminano verso lontani luoghi di
sofferenza.
8. La Terra vista dalla Terra. Tra il 1957 e il 1969, grazie ai primi lanci nello spazio,
l’umanità ha potuto non solo immergersi nel cosmo, ma addirittura contemplare
il proprio pianeta. La Terra ha trovato un punto esterno da cui osservarsi e, per
la prima volta vengono concretizzandosi – malgrado fissazioni particolaristiche,
localistiche, etnocentriche, malgrado l’incapacità di contestualizzare i problemi,
malgrado percezioni parcellari, visioni unilaterali e focalizzazioni arbitrarie – la
percezione di un’entità planetaria alla quale tutti apparteniamo e l’esistenza di
problemi propriamente mondiali, elementi che portano in sé un’evoluzione verso
la coscienza planetaria.
1.2.1 Come punti di un ologramma
Le interazioni su scala globale che abbiamo visto caratterizzare l’era planetaria fanno sì
che non solo ogni parte del mondo faccia sempre più parte del mondo, ma il mondo stesso
come un tutto sia sempre più presente in ciascuna delle sue parti
16
. Questo si verifica non
soltanto per le nazioni e i popoli, ma anche per gli individui.
Così come ogni punto di un ologramma contiene l’informazione del tutto di cui fa parte, così
ormai ogni individuo riceve o consuma le informazioni e le sostanze che vengono da tutto
l’universo
17
.
Il circuito planetario del comfort…
L’interdipendenza di tutte le dimensioni dell’agire umano viene esemplificata da Morin
con una descrizione tratta dall’ordinario.
L’europeo si sveglia ogni mattina accendendo la sua radio giapponese da cui riceve gli eventi del
mondo. Eruzioni vulcaniche, terremoti, colpi di stato, conferenze internazionali gli arrivano
mentre prende un tè di Ceylon, dell’India o della Cina, a meno che non si tratti di una moca
dell’Etiopia o di un’arabica dell’America Latina. Si immerge in un bagno schiuma di oli taitiani
e usa un dopobarba dai profumi esotici. Indossa maglione, slip e camicia di cotone egiziano o
indiano; porta giacca e pantaloni di lana d’Australia, trattata a Manchester e poi a Roubaix-
Tourcoing, oppure un giubbotto di cuoio venuto dalla Cina su jeans di stile americano. Il suo
orologio è svizzero o giapponese. I suoi occhiali sono di tartaruga delle Galàpagos. Il suo
portafoglio è di pecari dei Carabi o di rettile africano. Può trovare sulla sua tavola in inverno le
fragole dell’Argentina o del Cile, i fagiolini freschi del Senegal, gli avocado o gli Ananas
dell’Africa, i meloni di Guadalupe. Ha, a volontà, il rhum della Martinica, la vodka russa, la
16
Morin-Kern, Terra-Patria, op. cit., pp. 22 e ss.
17
Ibidem, p. 23.
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