meridionale. Alla luce di tali timori, quello del confine orientale italiano
divenne un problema assai ostico da trattare: a partire dal 1947, gli Alleati
si convinsero che se Trieste fosse caduta in mano jugoslava l’influenza
comunista si sarebbe potuta espandere facilmente in tutta l’Italia
settentrionale, e forse anche più in là, in omaggio ad una sorta di “teoria del
domino.” Nell’ambito di tale impostazione generale la situazione giuliana
venne considerata sotto il profilo della sua funzionalità alla strategia
occidentale; la questione di Trieste venne così inserita nella guerra di
propaganda tra i due blocchi contrapposti e la città venne considerata dagli
Alleati un bastione importantissimo della linea occidentale in Europa.
Trieste quindi dovette affrontare nell’immediato dopoguerra problemi
comuni a quelli di tante città italiane, come la miseria e la disoccupazione,
ma si trovò isolata dal resto d’Italia, sottoposta ad un’occupazione straniera
e addossata ad un confine incerto, priva di sbocchi e di prospettive; in
questa cornice la città fu teatro di rilevanti e sofferti avvenimenti,
divenendo oggetto di ripetute crisi internazionali.
Anche dal punto di vista sindacale la situazione di Trieste e della
Venezia Giulia si segnalò per la sua peculiarità: dopo la Liberazione infatti,
la ripresa del movimento sindacale giuliano avvenne sotto il segno della
divisione e per le organizzazioni sindacali di Trieste si aprì una pagina
nuova ed anomala rispetto al resto d’Italia, un caso unico, che evidenziò la
specificità della realtà locale.
La storia dei sindacati di Trieste non presenta infatti alcuna analogia
con il processo di unità e di fusione sindacale avviato a livello nazionale
già nel corso del 1944, ma è percorsa da aspri contrasti e da divisioni
laceranti, che riflettono il particolare status vissuto per anni dalla città: oltre
alle battaglie sindacali per il salario e per l’occupazione, il mondo del
lavoro giuliano ed i sindacati di Trieste furono protagonisti di numerosi
scontri politici ed ideologici, che divisero la città e che portarono molto
spesso alla subordinazione delle lotte sindacali per il miglioramento delle
condizioni dei lavoratori alle strategie generali delle parti in causa.
Affrontare quindi il problema sindacale della Venezia Giulia
nell’immediato dopoguerra non significa solo analizzare il contesto
economico in cui versava la regione, i problemi del mondo del lavoro e dei
lavoratori, ma soprattutto vuol dire comprendere la storia di una terra
lacerata dai contrasti nazionali e dal destino incerto, un periodo di grande
tensione sociale che addensava mille incognite sul futuro di Trieste, una
città ormai declassata, a cui la storia aveva voltato le spalle.
Obiettivo di questa ricerca è ripercorrere le principali vicende
sindacali dal 1945 al 1947, un arco di tempo relativamente breve, ma denso
di avvenimenti che si riflessero sulla vita sindacale e che segnarono
pesantemente il destino del proletariato giuliano: si tratta di un periodo che
inaugurò una lunga stagione di lotte che continuarono fino agli anni
Sessanta, ma caratterizzato anche da tentativi di collaborazione tra i due
sindacati di Trieste, brevi parentesi in una realtà di tensioni, divisioni e
violenze. I rapporti tra i dirigenti dei due sindacati operanti a Trieste nel
dopoguerra furono improntati continuamente alla diffidenza, alle
polemiche reciproche ed ai rancori del passato, il che impedì un dialogo
costruttivo ed ostacolò il processo di unità sindacale: tutti i tentativi unitari
furono condizionati dalla precaria situazione politico-istituzionale in cui
versava la città e dalle pregiudiziali avanzate dai due sindacati.
A Trieste quindi la strada dell’unità sindacale non venne percorsa per
parecchi anni e le cause della mancata realizzazione di un fronte sindacale
unitario sono molteplici: innanzitutto bisogna tenere presenti i decenni di
aspra contrapposizione tra le due etnie autoctone della regione, l’italiana e
la slava, dovuta alla politica fascista di oppressione nazionale nei confronti
degli slavi residenti nella Venezia Giulia, politica che alimentò le
spaccature già esistenti in una zona etnicamente mista e che contribuì a
comporre un’equazione che identificava l’Italia con il fascismo e gli slavi
con il comunismo. Le radici affondano dunque nella storia della Venezia
Giulia ed in particolar modo nel periodo della Resistenza, uno dei capitoli
più delicati della travagliata storia della regione, che mise in evidenza le
fortissime contraddizioni presenti sul territorio e la tensione esistente tra
italiani e slavi, che avanzarono soluzioni contrastanti in merito alla futura
appartenenza statale della Venezia Giulia, ed in particolar modo di Trieste.
I disegni politici miranti a realizzare le rispettive rivendicazioni
nazionali impedirono infatti ai resistenti italiani e slavi operanti nella
Venezia Giulia di collaborare stabilmente; anche quando si raggiunse
un’intesa per una cooperazione tra il movimento di liberazione jugoslavo e
la Resistenza italiana e tra i due partiti comunisti operanti a Trieste, il
partito comunista italiano ed il partito comunista sloveno, la questione del
confine orientale riaffiorò ed obbligò le forze politiche ad una ridefinizione
delle scelte strategiche. La collaborazione tra i due movimenti di
liberazione operanti nella Venezia Giulia non si rivelò quindi molto solida
e finì per approdare ad un duro contrasto tra la componente comunista,
progressivamente compattatasi attorno alle rivendicazioni jugoslave su
Trieste, e le forze antifasciste italiane non comuniste, impegnate a
difendere la sovranità italiana. Ma serie difficoltà si registrarono anche tra i
comunisti italiani ed jugoslavi: anche se infatti gli orientamenti di fondo
erano simili, le condizioni in cui i due partiti rivoluzionari di indirizzo
marxista–leninista erano nati, le realtà storiche cui facevano riferimento
erano notevolmente diverse: i reciproci rapporti furono perciò assai
complessi ed anche nella fase della massima unità – che a Trieste si
realizzò a partire dall’autunno del 1944 con la subordinazione del partito
comunista italiano a quello sloveno – le difficoltà si accumularono, per
precipitare poi nel 1948, quando – a seguito della crisi del Cominform - si
arrivò ad una rottura tra i due tronconi del comunismo locale.
La Resistenza quindi nacque divisa nei territori della Venezia Giulia
e a Trieste operarono due movimenti di liberazione; si trattava di due
posizioni diverse nel concepire la lotta contro il nazifascismo: una
tradizionale, facente capo al PCI ed ai partiti del fronte italiano; l’altra,
nuova e rivoluzionaria, ispirata dal comunismo jugoslavo, esaltava e
perseguiva la rivoluzione sociale come unico mezzo per liberare i popoli
oppressi. Queste differenti posizioni e questa diversità di programmi e di
impostazione strategica giocarono un ruolo molto importante anche dopo la
Liberazione, quando i comunisti giuliani continuarono a percorrere una
strada a senso unico anche in campo sindacale, una strada che non
permetteva deviazioni e soprattutto non ammetteva nessun ripensamento
sul modo di concepire la lotta rivoluzionaria per la costruzione del
socialismo nella Venezia Giulia. A Trieste quindi si crearono due
schieramenti politici contrapposti, fra i quali non esisteva nessuna
possibilità di dialogo e di confronto al di fuori della contrapposizione
frontale: le caratteristiche del contesto politico locale si riflessero anche
sulle organizzazioni sindacali costituite a Trieste, per le quali il principale
elemento di distinzione fu la connotazione politica: da una parte ci furono i
Sindacati Unici, uno degli strumenti di potere popolare creati dal fronte
filoslavo per assicurare l’adesione di massa alle iniziative del partito
comunista jugoslavo e per realizzare l’annessione della regione Giulia alla
Jugoslavia come settima repubblica federativa. Sull’altro fronte si
costituirono i Sindacati Giuliani (riconosciuti dalla CGIL come Camera
Confederale del Lavoro nel gennaio 1946), legati allo schieramento dei
partiti non comunisti (partito socialista di unità proletaria, partito d’azione,
democrazia cristiana) e favorevoli alla soluzione italiana della vertenza
territoriale.
Alla fine della guerra, la ricostruzione dei sindacati liberi a Trieste
avvenne dunque sotto il segno delle fratture creatisi durante la Resistenza,
in un’atmosfera turbata e logorata dalle lotte per la conquista della città: i
sindacati sorti a Trieste si trovarono ad operare in una dimensione
prettamente politica e molto spesso, nella linea seguita dalle due
organizzazioni sindacali, vennero a confluire ed a confondersi motivazioni
di natura politico-ideologica ed economico-sociale.
Lo stretto legame tra attività sindacale ed attività politica e la diversa
matrice politico-ideologica dei due sindacati impedirono la creazione di un
fronte sindacale unitario a Trieste e resero inevitabile lo scontro, che
assunse immediatamente carattere di contrapposizione ideologica; i
sindacati divennero strumenti di potere in mano ai partiti e la
subordinazione delle linee sindacali agli interessi strategici dei partiti a cui
le organizzazioni sindacali facevano riferimento fu subito evidente: le
rivendicazioni economiche dei lavoratori, le proteste, i numerosi scioperi
che vennero organizzati non furono molto spesso manifestazioni di lotta
sindacale, ma solo un mezzo per mobilitare le masse, un’espressione di
un’iniziativa politica volta a mascherare la vertenza territoriale dietro il
volto di questioni essenzialmente economiche e sindacali. Questo si
verificò soprattutto con i Sindacati Unici, che sorti come forza di supporto
al partito comunista per la battaglia politica in corso nella Venezia Giulia,
dovettero svolgere un’intensa propaganda ed agitazione tra le masse
popolari per la costituzione di un ampio fronte e per preparare i lavoratori
alla conquista della democrazia popolare, l’unico sistema che, a detta dei
comunisti, avrebbe garantito al popolo lavoratore la realizzazione delle sue
aspirazioni politiche ed economiche, nazionali e culturali.
L’accento venne quindi posto sui compiti di elevazione culturale del
popolo che spettavano al sindacato; le questioni economiche furono
considerate importanti, ma non essenziali: l’obiettivo primario del
sindacato era infatti un altro e cioè l’unione di Trieste alla Jugoslavia,
un’unione che – i comunisti tenevano a precisare – era voluta e desiderata
da migliaia di lavoratori italiani e slavi della Venezia Giulia, che avevano
scelto di aderire alla Jugoslavia di Tito. In realtà solo una minima parte dei
lavoratori giuliani fu attratta dal sogno rivoluzionario: molti altri erano
disorientati per il degrado sociale ed economico di Trieste, convinti che il
ricongiungimento di Trieste all’Italia avrebbe posto seri problemi di
reinserimento economico della città nell’ambito nazionale e soprattutto
attirati dal motto dei comunisti: “In Italia avrete fame, in Jugoslavia pane,
pace e lavoro.” Buona parte degli operai giuliani non aderì quindi ai
Sindacati Unici perché allettata dall’idea di essere annessa alla Jugoslavia
socialista, ma perché il sindacato rappresentava la legittima continuazione
di Unità Operaia, un’organizzazione che, ponendosi a capo delle masse
lavoratrici e guidandole nella lotta contro il nazifascismo, aveva costituito
uno strumento fondamentale per il movimento partigiano; creando una rete
di strutture, come i comitati di fabbrica ed i comitati di quartiere, Unità
Operaia era diventata la guida di tutti coloro che nella lotta di liberazione
vedevano l’arma per realizzare le loro aspirazioni democratiche ed aveva
stretto attorno a sé tutto il proletariato giuliano.
Quando però il modello di ricostruzione esaltato dai comunisti perse
terreno, inevitabili furono le conseguenze sul movimento sindacale: i
lavoratori, che avevano sempre risposto bene agli appelli del sindacato,
ogni volta che venivano chiamati a scioperare, manifestarono una certa
stanchezza e sfiducia, preoccupati soprattutto del modo di condurre le lotte
e delle ripercussioni sul mondo del lavoro. Alcuni dirigenti sindacali
presagirono il pericolo di un isolamento del sindacato e invitarono a
cambiare strategia, ma la linea del Partito prevalse ancora una volta: nel
corso del 1946 – come vedremo meglio nei prossimi capitoli -
l’allontanamento di Ernesto Radich dalla presidenza dei Sindacati Unici fu
l’estremo atto della netta subordinazione del sindacato al Partito.
Ogni tentativo di collaborazione ed accordo tra Sindacati Unici e
Sindacati Giuliani venne concepito dai dirigenti sindacali e dalle segreterie
di partito come un cedimento, come una rinuncia agli obiettivi politici ed
alle aspirazioni nazionali dei lavoratori, di cui le organizzazioni sindacali
erano interpreti e portavoce; queste posizioni intransigenti portarono ad una
crescente rottura tra i due sindacati, ma, nonostante l’aspra
contrapposizione tra le due organizzazioni sindacali di Trieste, un tentativo
di collaborazione venne attuato e fu rappresentato dall’esperienza della
Commissione Centrale di Intesa Sindacale:
1
la CCIS fu creata nell’autunno
del 1946 per iniziativa della Federazione Sindacale Mondiale, dopo un
intervento della CGIL, con lo scopo di realizzare la fusione sindacale anche
a Trieste e nella Venezia Giulia.
Il progetto della FSM di uniformare la particolare situazione giuliana
alla realtà italiana era molto ambizioso, ma difficile da realizzare:
l’unità sindacale e l’unità delle masse lavoratrici rappresentavano un
elemento fondamentale per la soluzione dei problemi economici e sociali di
Trieste, ma i due sindacati operanti in città si rivelarono immediatamente
organizzazioni concorrenti ed impostarono la questione della ricostruzione
e della ripresa economica da un punto di vista politico: risolvere
tecnicamente il problema della ricostruzione significava
contemporaneamente risolverlo politicamente e sciogliere cioè la vertenza
territoriale, che animava la città, dando vita a continui disordini e scontri di
piazza.
Nel secondo dopoguerra Trieste e molti territori della Venezia Giulia
furono infatti teatro di violenti scontri ed aggressioni tra i fautori della
Jugoslavia ed i sostenitori dell’annessione della Venezia Giulia all’Italia:
sulla questione giuliana e sulle tragedie vissute da Trieste dopo il secondo
1
L’organismo creato per realizzare la fusione sindacale a Trieste venne chiamato Commissione Centrale
di Intesa Sindacale; in alcuni documenti l’organizzazione è indicata al maschile e si parla di Comitato
Centrale di Intesa Sindacale: nei capitoli successivi si potranno perciò trovare entrambe le diciture.
conflitto mondiale si è scritto molto e la bibliografia è particolarmente
ricca. In merito a questo difficile periodo vissuto dalla Venezia Giulia sono
scarsi invece gli studi relativi alla situazione sindacale: la penuria di
documenti ha ostacolato finora uno studio ed un’analisi sistematica
dell’argomento, necessari per ricostruire con chiarezza e precisione le
vicende sindacali di Trieste, e gli unici lavori di una certa rilevanza sono
rappresentati dai saggi di T. Matta, di P. Sema - C. Bibalo e di F. Bednarz
(si veda la bibliografia a p. 228 di questo volume).
La disponibilità di materiale inedito, gentilmente concessomi dal
dottor Paolo Sema, ha reso possibile uno studio accurato dell’esperienza
della CCIS e dei vari tentativi di intesa sindacale, peraltro tutti abortiti, in
quanto non sentiti vivamente dai dirigenti sindacali, ma nati da forti
pressioni esterne, in particolar modo dalla FSM e dalla CGIL, che
premettero continuamente sui sindacati di Trieste per realizzare la fusione
sindacale, al fine di placare una situazione burrascosa.
Oltre all’analisi della stampa dell’epoca e del “fondo Destradi”,
disponibile presso l’archivio dell’Istituto regionale per la storia del
movimento di liberazione nel Friuli–Venezia Giulia di Trieste, la
consultazione di parecchi documenti dell’archivio privato del dottor Paolo
Sema, acquisiti in fotocopia, ha permesso un’analisi del rapporto tra le due
organizzazioni sindacali di Trieste, ma soprattutto del peso che i conflitti
politici ed ideologici hanno avuto nel condizionare il movimento operaio
ed il destino del proletariato giuliano.
I documenti forniscono infatti un quadro dettagliato delle
organizzazioni sindacali giuliane e delle lotte sociali nel dopoguerra
triestino: le lettere, gli opuscoli, il memoriale di Ernesto Radich, ma
soprattutto i quattro volumi dei verbali delle sedute della CCIS, svolte dal
primo novembre 1946 al 13 ottobre 1947 – disponibili ora presso l’IRSML
di Trieste - dimostrano che verso la fine del 1946 qualche timido passo in
avanti lungo la via unitaria si compì, ma che la volontà di boicottare il
progetto unitario da parte dei vertici sindacali era molto forte. La formula
“unità dall’alto, unità alla base” venne ripetuta in continuazione dai
dirigenti sindacali, ma non si fece nulla per sanare una spaccatura che
permaneva non solo ideologicamente, ma anche materialmente: le due
organizzazioni sindacali mantennero strutture, sedi e tessere separate anche
durante il periodo dei lavori unitari della CCIS e nelle fabbriche continuò la
separazione tra i comitati di fabbrica dei Sindacati Unici e le commissioni
interne della Camera del Lavoro, fatto che impedì i contatti tra i due gruppi
di rappresentanti dei lavoratori presenti nello stesso luogo di lavoro. Le
divisioni erano tanto evidenti quanto le manovre per affondare il processo
unitario attuate dai vertici sindacali, che non intendevano piegarsi ad una
collaborazione che equivaleva a compromessi continui e rinunce delle
rispettive pregiudiziali.