9
necessità di azioni “miste” in cui si hanno elementi comuni e aree
di sovrapposizione tra i tipi di intervento: questo avviene perché
le funzioni assegnate sono divenute più numerose, varie e
complesse. L’elemento che le contraddistingue comunque è
l’obiettivo perseguito dall’azione, quale risulta dal mandato
conferito dagli organi competenti delle NU.
“Le operazioni per il mantenimento della pace (peace-keepeng
operations) si qualificano in astratto come un tertium genus, un
intermedio, rispetto ad altri due tipi di azione delle Nazioni
Unite, le missioni di osservazione (observation missions) e le
azioni coercitive (enforcement actions)”
1
.
Le operazioni di osservazione sono qualificate dall’obiettivo di
controllare una determinata situazione o il regolare svolgimento
di una procedura, ad esempio le elezioni politiche (“electoral
monitoring”), e di fare in proposito rapporto ai competenti organi
delle NU; le caratteristiche di tali operazioni sono pertanto
l’“accertamento” e il “riferimento” oltre al loro carattere
intrinsecamente “civile”, non militare, poiché il personale svolge
le sue funzioni disarmato.
“Le operazioni per il mantenimento della pace sono una vera e
propria invenzione delle Nazioni Unite come ebbe a definirle il
Segretario Generale, Boutros Ghali nel 1992”
2
, poiché nessuna
norma della Carta delle Nazioni Unite le contempla
esplicitamente: esse risultano essere più che altro uno strumento
flessibile facilmente adattabile alle diverse esigenze che si
possono evidenziare di volta in volta nelle particolari circostanze
e situazioni contingenti.
1
Cfr. Laura Pineschi, Le operazioni delle Nazioni unite per il mantenimento della pace,
Cedam Padova 1998, pag.23.
2
Cfr. ibidem, pag. 17.
10
Non ne esiste neppure una definizione generalmente accettata,
soprattutto per gli svariati obiettivi perseguiti: dall’interposizione
di forze imparziali tra le parti in conflitto al controllo
sull’attuazione di accordi di riconciliazione nazionale tra governi
e movimenti rivoluzionari; dalla sorveglianza sulla distribuzione
di aiuti umanitari alle popolazioni dei territori lacerati dalla
guerra civile alla messa in opera di un vero e proprio processo di
riorganizzazione della vita civile del paese uscente da un
conflitto; in altri casi possono essere chiamate ad operare a titolo
preventivo, all’interno di uno Stato e su richiesta di quest’ultimo,
nel timore che possa scoppiare a breve termine un conflitto
interno o con uno Stato confinante; in generale hanno lo scopo di
evitare che situazioni di conflitto localizzato possano ampliarsi e
acutizzarsi fino a minacciare la stabilità di una data regione e
sfociare così in conflitti estesi ad altri Stati.
Ciò che è certo sono le caratteristiche e i limiti che le
contraddistinguono:
1. Il consenso delle parti in conflitto per divenire
operative;
2. l’imparzialità delle operazioni;
3. il divieto dell’uso della forza militare per scopi diversi
dalla legittima difesa.
“Oltre ad essere state realizzate in molti casi dall’ONU in
quanto tale, con contingenti messi a disposizione dagli SM, in
varie situazioni l’ONU si è limitata ad autorizzare o
raccomandare di agire, con contingenti militari propri, singoli
Stati uniti in coalizioni militari multinazionali o nel quadro di
Organizzazioni Internazionali Regionali eventualmente integrati
o agenti in parallelo con elementi non strettamente militari,
11
spogliandosi così del suo ruolo di comando e controllo”
3
. In tali
casi si creano situazioni in cui gli Stati agiscono con contingenti
nazionali posti sotto il proprio comando e controllo non per fini
particolari, bensì per scopi di interesse generale in quanto
“autorizzati” da Risoluzioni dell’ONU.
Tutto ciò non ha mancato di suscitare discussioni circa la
legittimità e l’inquadramento di tali operazioni nel sistema della
Carta delle NU e quindi sulla loro base giuridica. La prima
traccia storica delle peace-keeping operations risale al 1956 con
la crisi in Egitto e la creazione dell’UNEF, un’unità operativa da
interporre tra le parti in conflitto; quel fatto può essere
considerato la nascita di tale strumento che da allora ha avuto
un’evoluzione quarantennale tuttora in corso. Anche per questo
una definizione incorrerebbe nell’errore e nel rischio di irrigidire
un concetto che potrebbe avere ulteriori sviluppi pratici.
Dalla pratica degli organi dell’ONU non è possibile trarre
alcuna indicazione precisa per chiarire la questione
dell’inquadramento nelle norme della Carta poiché essi non
hanno fornito indicazioni precise sulla base giuridica delle loro
decisioni. La CIG nel parere consultivo del 20 luglio 1962
4
concernente “certe spese delle Nazioni Unite” accolse
3
Cfr. Paolo Benvenuti, “Forze multinazionali e diritto internazionale umanitario” in
Comando e controllo nelle forze di pace e nelle coalizioni militari, Franco Angeli, Milano
1999, pag. 222-223.
4
Nella fattispecie, l’Assemblea Generale chiedeva alla Corte di determinare se le spese
autorizzate dalla stessa Assemblea allo scopo di coprire i costi derivanti dalle operazioni
delle NU in Congo (ONUC) e in Medio Oriente (UNEF) potessero essere considerate
“spese dell’Organizzazione” ai sensi dell’art. 17 par. 2, della Carta ONU. E’ quindi soltanto
in via incidentale, allo scopo cioè di stabilire se l’Assemblea Generale fosse competente ad
imporre obblighi in materia di spese per il mantenimento della pace e della sicurezza
internazionale, che la Corte si sofferma brevemente sul problema della legittimità
dell’UNEF e dell’ONUC:
“It is not possible to find in this description of the functions of UNEF, as outlined by the
Secretary General and concurred in by the General Assembly without a dissenting vote, any
evidence that the Force was to be used for purposes of enforcement. Nor can such evidence
be found in the subsequent operations of the Force, operations which did not exceed the
scope of the functions ascribed to it. It could not therefore have been patent on the face of
the resolution that the establishment of UNEF was in effect “enforcement action” under
Chapter VII. On the other hand, it is apparent that the operations were undertaken to fulfil a
prime purpose of the United Nations, that is, to promote and to maintain a peaceful
settlement of the situation.” (ICJ Reports 1962, pag. 171-172)
12
indirettamente la legittimità delle operazioni di mantenimento
della pace e riconobbe che queste erano state intraprese per
realizzare uno dei fini principali della Carta consistente nel
favorire e assicurare il regolamento pacifico delle situazioni di
crisi internazionali, perciò risultavano pure perfettamente lecite.
Non potendo individuare una base giuridica precisa, la lettera
delle norme della Carta deve intendersi in un senso conforme a
quello risultante dalla pratica effettivamente intercorsa secondo
un’interpretazione evolutiva consentita dalle regole del diritto dei
trattati, ciò alla luce per l’appunto di una prassi quarantennale
consolidata, in cui Stati appartenenti a diversi gruppi regionali, di
diverse concezioni ideologiche e diverso livello di sviluppo,
hanno di volta in volta sostenuto con il loro voto favorevole la
creazione di tali operazioni e fornito uomini e mezzi per il loro
svolgimento; per giunta nessuno Stato Membro ha mai contestato
esplicitamente la competenza dell’ONU a stabilire le operazioni.
Per quanto riguarda la legittimità delle funzioni assegnate e
degli obiettivi perseguiti dalle singole operazioni, questa è una
valutazione da effettuare di volta in volta, sulla base di un attento
confronto tra il contenuto del mandato con il quale la forza viene
istituita e i limiti stabiliti dalle norme della Carta. Una volta
accertata una violazione della Carta è comunque difficile farla
valere visto che non sono previste norme in materia di controllo
di legittimità, né tanto meno organi adibiti a tale controllo; perciò
potrà essere sanata attraverso pratica di accettazione o almeno di
non contestazione degli Stati Membri.
“La prassi degli Stati costituisce quindi un importante
fondamento all’interpretazione estensiva della Carta operata
dagli organi delle NU, attraverso la creazione di operazioni che
non sono esplicitamente menzionate nell’atto istitutivo ma che
perseguono obiettivi conformi all’oggetto e allo scopo della
13
Carta e svolgono funzioni di portata più limitata rispetto
all’ipotesi più grave delle azioni coercitive”
5
.
Esse sono esplicitamente regolate dalla Carta e i limiti in cui
sono consentite sono piuttosto ristretti: l’art. 2 al par.4 proibisce
l’uso della forza da parte degli Stati, tuttavia il ricorso ad essa è
ammissibile per l’autotutela individuale e collettiva in risposta ad
un attacco armato (art. 51) e nell’ambito del CAPITOLO VII su
autorizzazione del CDS
6
. A differenza delle operazioni di
mantenimento della pace, che sono di natura essenzialmente
cautelare e che sono attuate con il consenso dello Stato
territoriale, le azioni coercitive sono dirette contro uno Stato (o
più Stati) che sia autore di una minaccia o violazione della pace o
di un atto di aggressione; l’esempio storico di tali tipo di
operazioni è stato l’intervento in Corea nel 1950, dovuto
all’invasione della Corea del Sud da parte della Corea del Nord,
esso venne raccomandato dall’Assemblea Generale attraverso la
Risoluzione 377A (V) del 3 novembre 1950
7
.
5
Cfr. Laura Pineschi, ibidem, pag. 50-51.
6
Per un’analisi dettagliata si rinvia al Capitolo 3 del presente lavoro.
7
Secondo l’art. 11 par. 2: “l’Assemblea Generale può discutere ogni questione relativa al
mantenimento della pace e della sicurezza internazionale che le sia sottoposta da qualsiasi
Membro delle Nazioni Unite o dal Consiglio di Sicurezza ..”
Nel caso specifico, la questione venne sottoposta all’Assemblea Generale dagli Stati Uniti a
causa del veto posto dall’URSS in seno al CDS. L’Assemblea Generale, nella parte centrale
della Risoluzione 377A, affermò:
“if the Security Council, because of lack of unanimity of the Permanent Members, fails to
exercise its primary responsibility for the maintenance of international peace and security in
any case where there appears to be a threat to the peace, breach of the peace, or act of
aggression, the General Assembly shall consider the matter immediately with a view to
making appropriate recommendations to Member States for collective measures, including
in the case of a breach to the peace or act of aggression the use of armed force when
necessary, to maintain or restore international peace and security.”
Pertanto risulta chiaro che l’Assemblea Generale ha potuto deliberare in virtù del fatto che
si trovava di fronte ad un atto di aggressione di uno Stato nei confronti di un altro e per il
quale scattava il meccanismo dell’auto-tutela individuale e collettiva prevista dall’art. 51, e
pertanto ha raccomandato misure militari agli Stati Membri.
Bisogna sottolineare che tale Risoluzione è stata un caso isolato che non ha avuto seguito
nella prassi, infatti non si sono più verificati interventi implicanti l’uso collettivo della forza
sino a quello in Iraq del 1991, autorizzato dal CDS.
14
Gli accordi previsti dall’art. 43
8
avrebbero permesso al CDS di
avere a propria disposizione forze armate permanentemente
costituite nonché di possedere elementi necessari quali controllo,
comando, comunicazione e intelligence, sono però rimasti
inattuati come conseguenza del confronto dell’era della “guerra
fredda” in cui le grandi potenze, prive di fiducia reciproca sono
state incapaci di concluderli.
Le NU sono così costrette a delegare l’intervento agli Stati
singolarmente presi o aggregati in coalizioni o in Organizzazioni
Regionali (secondo il CAPITOLO VIII), poiché per ragioni di
sicurezza nazionale e di sovranità, gli SM che mettono a
disposizione uomini e mezzi, specialmente i più importanti,
rifiutano di metterli sotto il comando dell’ONU quando si tratta
di effettuare operazioni belliche, mentre non si oppongono se si
tratta di operazioni meno impegnative di peace-keeping.
Oltre alla fine della “guerra fredda”, un ulteriore elemento di
riferimento in cui va collocata l’azione del CDS in materia di
mantenimento e ristabilimento della pace è l’evoluzione che ha
portato il CDS ad interpretare la nozione di “minaccia per la
pace” in modo estensivo, così da ricomprendervi situazioni di
violazioni particolarmente gravi dei diritti umani e del diritto
internazionale umanitario.
8
Art. 43 CARTA DELLE NAZIONI UNITE:
“ 1. Al fine di contribuire al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, tutti i
Membri delle Nazioni Unite s’impegnano a mettere a disposizione del Consiglio di
Sicurezza, a sua richiesta e in conformità ad un accordo o ad accordi speciali, le forze
armate, l’assistenza e le facilitazioni, compreso il diritto di passaggio, necessarie per il
mantenimento della pace e della sicurezza internazionale.
2. L’accordo o gli accordi su indicati determineranno il numero ed i tipi di forze armate, il
loro grado di preparazione e la loro dislocazione generale, e la natura delle facilitazioni e
dell’assistenza da fornirsi.
3. L’accordo o gli accordi saranno negoziati al più presto possibile su iniziativa del
Consiglio di Sicurezza. Essi saranno conclusi tra il Consiglio di Sicurezza e i singoli
Membri, oppure tra il Consiglio di Sicurezza e gruppi di Membri, e saranno soggetti a
ratifica da parte degli Stati firmatari in conformità alle rispettive norme costituzionali.”
15
L’azione in favore dell’osservanza e quindi del rispetto del
diritto internazionale umanitario (jus in bello o diritto
internazionale dei conflitti armati) e dei diritti umani, nonché la
relativa punizione dei responsabili, possono implicare la
necessità dell’impiego della forza, e non avendo a disposizione i
mezzi materiali, il CDS ricorre all’autorizzazione o
raccomandazione rilasciata agli SM per l’intervento armato
diretto. Si assiste perciò ad una commistione delle due
dimensioni: tra lo jus contra bellum (l’uso della forza previsto
dalla Carta ONU secondo l’art. 51 e il CAP. VII) e lo jus in bello
(il diritto internazionale umanitario); la realizzazione del rispetto
del diritto umanitario e dunque la salvaguardia dei valori
umanitari messi in pericolo dal conflitto, appare non soltanto un
obiettivo che ha valore in sé stesso, bensì anche uno strumento
appropriato volto a tenere il terreno preparato a ristabilire la pace,
impedendo che conflitti interni si estendano fino a divenire
internazionali.
Nonostante il mutamento della realtà nell’equilibrio politico
mondiale le NU, non essendo in condizione di intervenire con
propri mezzi, oltre a spogliarsi esplicitamente della loro
competenza nel condurre operazioni coercitive autorizzando gli
SM all’intervento, in alcuni casi hanno assistito di fatto alla
gestione delle crisi attraverso azioni degli Stati operanti extra-
organizzazione, nel contesto dei loro tradizionali e reciproci
rapporti interpotenza.
In questa situazione di inefficienza e incapacità dell’ONU,
dovuta anche a una mancanza di accordo in seno al CDS, è
tornata in auge la tanto discussa quanto controversa teoria
dell’“intervento umanitario” (Humanitarian Intervention):
“Un’azione coercitiva che implica l’uso della forza armata da
parte di uno Stato o un gruppo di Stati nel territorio di un altro
16
Stato senza il consenso del suo governo e senza l’autorizzazione
del CDS, con lo scopo di impedire o fare cessare gravi e
massicce violazioni dei diritti umani o del diritto internazionale
umanitario”
9
.
Esso è da distinguersi nettamente dalle “azioni umanitarie”
condotte dalle organizzazioni non governative con lo scopo di
offrire protezione e assistenza alle vittime dei conflitti, in tutta
indipendenza, neutralità e imparzialità rispetto ai belligeranti
10
.
Per giunta è da distinguersi dall’“intervento in protezione dei
cittadini all’estero” e dall’“intervento per facilitare l’auto-
determinazione”.
Col primo ci si riferisce all’uso della forza da parte di uno
Stato contro un altro, nel cui territorio sono presenti cittadini
dello Stato intervenente; esso è giustificato come una forma di
auto-difesa e la violazione della sovranità territoriale è
temporanea, dura solo il tempo necessario per portare in salvo i
propri cittadini. Nel secondo caso si ha invece un intervento
armato di uno Stato in favore di un movimento di liberazione
nazionale che combatte contro il governo, costituito per attuare il
diritto di auto-determinazione di un popolo sotto dominazione
razzista o coloniale (“nazionalità oppressa”)
11
. L’ intervento per
facilitare l’auto-determinazione ha molti punti in comune con
l’intervento umanitario, esso sembra una sottospecie poiché
l’auto-determinazione è il diritto umano più elementare e
fondamentale, inoltre si considerino le politiche contrarie ai più
9
Rif. Ronzitti Natalino, “Uso della forza e intervento di umanità” in Nato, conflitto in
Kosovo e costituzione italiana,Giuffré editore, Milano 2000, pag. 28.
Anthony Clark Arend & Robert J. Beck, International law and the use of force,
Routledge, London 1993, pag. 128-129.
Humanitarian Intervention, DUPI, Copenhagen 1999, pag. 11.
10
Rif. Azione Umanitaria intervento umanitario- Pensiero umanitario ed intervento in
Gentili, Atti del convegno sesta giornata gentiliana 17 settembre 1994, Giuffré editore,
Milano1998, pag. 11.
11
Rif. Anthony Clark Arend & Robert J. Beck, ibidem, pag. 113-114.
Natalino Ronzitti, Rescuing nationals abroad through military coercion and
intervention on grounds of humanity, Martinus Nijhoff, Dordrecht 1985, pag. XV-XVI.
17
elementari diritti umani messe in atto dai governi che tentano di
ostacolare tali movimenti di liberazione. Risulta difficoltoso
pertanto tracciare una linea precisa tra “intervento umanitario” e
“ intervento per l’auto-determinazione”, l’unica cosa che risulta
chiara è che in quest’ultimo si può dire che lo scopo sarà quello
di creare un nuovo Stato indipendente, mentre con l’intervento
per scopi umanitari ciò non avviene necessariamente, può
avvenire anche solo un cambiamento di regime in carica.
La teoria dell’intervento umanitario è uno strumento estraneo
al sistema di sicurezza delle NU, c’è chi vede in essa un “ritorno
al passato” al sistema di relazioni internazionali in “stile secolo
decimonono”, altri uno strumento utile che permette di aggirare
l’incapacità decisionale del CDS, in tale ottica si è fatto ricorso a
pratiche di giustificazione giuridica attraverso la dottrina della
“guerra giusta” di Ugo Grozio (1583-1645) che legittimava la
resistenza alla tirannia di coloro che chiedevano aiuto a una
potenza straniera, e la “causa onesta” di Alberico Gentili (1552-
1608) che avanzava la competenza di ogni sovrano a difendere
l’umanità lesa; costoro ritengono che la tutela dei diritti umani
sia un obiettivo primario e come tale possa richiedere e
giustificare, oltre all’ingerenza negli affari interni di Stati
sovrani, anche l’accettazione del sacrificio di altre vite umane
(“danni collaterali”) durante le operazioni belliche.
Al riguardo non si può tralasciare di considerare che il
principio che proibisce l’uso della forza non esisteva prima del
ventesimo secolo e venne alla luce per la prima volta nel 1919
col Patto istitutivo della Società delle Nazioni, fu riaffermato
successivamente nel 1928 dal Patto Briand-Kellog, poi ribadito e
definitivamente sancito dalla Carta di San Francisco che istituiva
l’ONU nel 1945.
18
Dubbi circa la questione possono essere sollevati anche in
questi termini: se accettare degli effetti avversi relativamente
modesti sull’ordine internazionale in cambio della possibilità di
salvare potenziali vittime in un conflitto dato o se a lungo
termine i principi di “sovranità”, “non intervento” e “non utilizzo
della forza” potranno continuare ad essere cambiati senza
provocare instabilità internazionale.
Si tenga presente che le azioni di intervento molte volte
trovano giustificazione in motivazioni più politico-morali che
legali in senso stretto e che il concetto di sovranità è soggetto da
parecchio tempo ad un processo di erosione e ridefinizione per i
maggiori impegni convenzionali assunti a livello internazionale
anche nell’ambito della protezione dei diritti umani, considerata
oramai come un obiettivo fondamentale in sé e più in generale in
relazione al mantenimento della pace e della sicurezza
internazionale.
Secondo quanto affermato dalla CIG, il contenuto delle
convenzioni internazionali in materia di diritti umani è da
ritenersi oramai appartenente di fatto al diritto internazionale
consuetudinario, per cui tutti gli Stati risultano obbligati erga
omnes e non solo gli Stati firmatari
12
.
Durante tutti gli anni novanta si sono avute manifestazioni di
tale evoluzione nella difesa dei diritti umani con operazioni
dirette a tale scopo: Iraq (1991); Somalia (1992); Ex-Iugoslavia
12
Nel 1970 la Corte sostenne che gli obblighi degli Stati riguardo alla Comunità
Internazionale includono la protezione degli individui contro il crimine di genocidio così
come la protezione dei principi e delle norme concernenti i diritti basilari delle persone
umane, alcuni dei quali sono entrati a far parte del diritto internazionale generale, ad altri è
stato conferito carattere universale o quasi-universale dagli strumenti internazionali:
“In view of the importance of the rights involved, all states can be held to have a legal
interest in their protection; they are obligations erga omnes…” (Barcelona Traction Case,
ICJ Reports 1970, para. 33-34).
Nella sentenza Nicaragua contro Stati Uniti del 1986, la Corte confermò che basilari
clausole contenute nelle Convenzioni di Ginevra sul diritto internazionale umanitario sono
norme del diritto consuetudinario internazionale, che vincolano tutti gli Stati; Per la Corte
questi basilari principi appartengono alle “elementary considerations of humanity”
(Military and Paramilitary Activities Case, ICJ Reports 1986, para. 218).
19
(1991-’93); Ruanda (1994); Haiti (1993-‘94); Kosovo (1999);
Timor Est (1999). Alcuni di questi interventi rientrano nel
concetto di “uso collettivo della forza” previsto dal CAPITOLO
VII della Carta e autorizzato dal CDS; per due in particolare,
quello in Iraq e quello in Kosovo, si è trattato di azioni unilaterali
attuate da alcuni Stati al di fuori del sistema di sicurezza della
Carta, privi quindi di una norma autorizzativa o di una
Risoluzione permissiva del CDS.
Due problemi fondamentali sorgono in relazione a tali
interventi. Il primo è come conciliare le restrizioni legali all’uso
della forza nei casi in cui la decisione del CDS non sia efficace,
con la crescente domanda di protezione dei civili da estese e
massicce violazioni dei diritti umani. Il secondo problema
riguarda i limiti politici nonché strumentali e le restrizioni sulla
capacità effettiva di intervento della Comunità internazionale in
molte zone del globo, soprattutto quando si tratta di grandi
potenze come la Cina o la Russia, ciò inevitabilmente crea
ambiguità e problemi di opportunità nella protezione effettiva dei
diritti umani.
In termini strettamente giuridici risulta difficile conciliare la
relazione tra i principi del “non intervento” e del “non utilizzo
della forza” con la prevenzione internazionale di gravi e
sistematiche violazioni dei diritti umani che vede l’intervento
armato a volte indispensabile. Il problema evidentemente non ha
risposta univoca e richiede una discriminazione netta tra la
legalità e la legittimità dell’intervento; la questione della legalità
dell’intervento è determinata dalle norme del diritto
internazionale sia convenzionale che consuetudinario, questa è
una prospettiva puramente legale, ci si chiede alla luce del diritto
se l’intervento è lecito.
20
La legittimità di una data azione può invece essere determinata
essenzialmente da ragioni politiche e morali alle quali possono
essere incluse considerazioni legali accessorie. La nozione di
legittimità è un concetto multidisciplinare riferito ai principi
morali-filosofici, politici così come legali generali; in
quest’ottica ci si chiede se l’intervento è giustificabile.
Per cui, mentre la legalità è determinata da norme di diritto
internazionale, la legittimità è un concetto con vari significati,
può essere un concetto puramente politico-morale o un concetto
politico-legale, comunque più ampio.
Considerare un’azione più o meno legittima può avere
profonde conseguenze politiche oltre che dare uno spunto per la
desiderabilità e la possibilità di futuri cambiamenti,
promuovendo un’evoluzione del diritto internazionale
consuetudinario fornita dall’avvio di una nuova prassi. Si tenga
presente comunque che affinché possa emergere una nuova
norma consuetudinaria a livello internazionale deve esserci, oltre
che una prassi (diuturnitas) e perciò un comportamento costante
e uniforme degli Stati, anche la convinzione dell’obbligatorietà
del comportamento stesso (opinio juris sive necessitatis) e
inoltre, elemento non trascurabile, il comportamento deve essere
supportato dalla “più vasta maggioranza di Stati”.
Se uno sviluppo prenda piede o meno dalla pratica degli Stati
questo dipende dalle giustificazioni addotte ai loro atti, visto che
una rivendicazione di legittimità può essere avanzata o in forma
politico-legale o solo in forma politico-morale. Sotto tale
aspetto, una giustificazione anche legale può accampare
l’emersione di una nuova norma di diritto internazionale
consuetudinario e pertanto essa può essere considerata come un
“precedente” alla sua formazione, naturalmente tale
giustificazione deve essere supportata da una vasta maggioranza
21
di Stati; mentre una giustificazione puramente politico-morale
lascia le norme esistenti invariate
13
.
La domanda fondamentale che ci si pone è se esista oppure sia
mai esistito, e quindi ritornato in uso, un diritto di intervento per
scopi umanitari guardando alla prassi degli Stati durante gli
ultimi due secoli; perciò se gli eventi degli anni novanta sono da
interpretare come implementazioni di tale strumento oppure
come precedenti volti alla formazione di una nuova prassi che
contribuisce al mutamento della disciplina dell’uso della forza.
Tutto ciò tenendo in considerazione la particolare situazione
storica che vede l’ONU e con essa tutta la CI in generale
impegnate in una profonda ridefinizione di ruoli e funzioni
riguardo al nuovo contesto di relazioni internazionali e ai nuovi
problemi post-guerra fredda che fanno carico al nuovo secolo.
13
Rif. Humanitarian Intervention, DUPI, Copenhagen 1999, pag. 26.
Ronzitti Natalino, Uso della forza e intervento di umanità in “NATO, conflitto in
Kosovo e Costituzione italiana”, Giuffré editore, Milano 2000, pag.12.