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di ogni successo, la bellezza stroncata, l’infelicità dell’esistenza più
imbellettata.
Sulla vicenda l’immaginario comune innestò il suo dramma, il
sentimento di fatalità, il suo potere di identificazione.
L’evento metteva in scena valori e passioni estremamente popolari,
rispetto ai quali il pubblico si divideva e parteggiava apertamente.
Il linguaggio giornalistico usato contribuì a sottolineare gli aspetti
emotivi legati al delitto, sospendendo l’atteggiamento critico e
favorendo la spettacolarità della vicenda, trasformando il fatto di
cronaca nera in una storia da raccontare giorno per giorno, con i suoi
colpi di scena, come se fosse un romanzo d’appendice.
In un conto alla rovescia sempre più serrato fino alla sentenza, lo
scioglimento del dramma si delineò con chiarezza, e s’intuì il
possibile verdetto: l’uomo, l’assassino, era innocente.
Assolto per vizio totale di mente, la nuova logica dei giurati insegnava
che l’amore a cinque colpi di Cifariello andava perdonato. Ecco il
delitto meritorio, lo scultore aveva ucciso per troppo amore.
Sul banco degli imputati finì l’immagine della donna. Maria, maliarda
senza scrupoli, donna adultera, era la sola colpevole davanti alla
Legge e alla morale comune. Cifariello, il vero carnefice, era un’altra
sua vittima.
All’inizio del Novecento erano ben radicati nell’immaginario
condiviso la leggenda della donna fatale e dell’artista come essere
superiore.
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L’analisi svolta, al di là della semplice ricostruzione del delitto, mira a
restituire l’atmosfera del tempo, quel sentire comune che portò
all’assoluzione di un assassino.
La vicenda fu raccontata da parte dei media sottolineando e
rafforzando due stereotipi radicati nella cultura borghese: il valore di
un uomo d’arte e la bassezza morale di una cantante di caffè concerto.
Ad assumere importanza nell’intera storia erano sostanzialmente i
ruoli che i due protagonisti andarono a ricoprire e che avevano un
peso e un valore diverso nella società del tempo.
La pena era in fondo perseguibile in proporzione alla fama e alla
posizione del personaggio, e al turbamento prodotto nell’ordine
sociale. Il mondo aveva perso una chanteuse, ma attraverso
l’assoluzione di Cifariello aveva riacquistato un’artista: la differenza
era enorme.
Se nel Settecento gli spettatori della commedia dell’arte preferivano
un mondo fatto di caratteri più che di personaggi, così i contemporanei
di Cifariello preferivano avere a che fare con stereotipi, in grado di
favorire l’immobilismo mentale e l’acquiescenza a luoghi comuni.
La storia di quel triangolo maledetto appassionò l’Italia, una nazione
moralista, fortemente borghese, legata all’immagine di famiglia unita
e felice, abituata allo stereotipo di donna come moglie e madre fedele.
Maria de Browne, donna adultera, era colpevole davanti alla Legge e
alla morale comune.
Il lavoro svolto, non cerca di ricostruire in modo fedele l’evento
storico, quanto piuttosto di riprodurre l’epoca dell’avvenimento
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ricorrendo alle fonti ufficiali, alle dichiarazioni dei protagonisti e alle
testimonianze di uomini e donne di inizio Novecento. Ciò che si vuole
sottolineare è come l’episodio fu raccontato, ossia quale significato vi
si scorse, quali elementi suscitarono scalpore, attirarono l’attenzione,
favorirono l’assoluzione.
In tal senso la ricostruzione dell’uxoricidio non è obiettiva, ma reca
l’impronta di una mentalità ampiamente condivisa, che ritroviamo
negli applausi e nei petardi di gioia che seguirono l’assoluzione.
Se il Novecento si poneva come secolo delle innovazioni tecnologiche
e delle conquiste sociali, bisogna sottolineare come queste ultime
tardarono a sostituire concezioni retrograde.
Se in teoria, la borghesia era interprete e portavoce di una nuova
mentalità, la storia quotidiana dimostra, al contrario, come
sopravvivano stereotipi stolidi, leggi inadeguate e luoghi comuni
errati.
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CAPITOLO I
BIOGRAFIA DI FILIPPO CIFARIELLO
1.1 LA NASCITA DELL’ARTISTA
Filippo Cifariello nacque il 3 luglio 1864 a Molfetta dove conobbe fin
dall’infanzia continue privazioni e sofferenze che costrinsero suo
padre, modesto scultore, a trasferirsi a Napoli insieme alla famiglia.
Nel capoluogo campano Filippo guidato dal bisogno urgente e dalla
voglia di affermarsi, incalzato dalla miseria della sua famiglia e dagli
ostacoli, senza la guida di un maestro, di un metodo, di una scuola,
andava avanti a tentoni, in un modo abbastanza primitivo, dove l’idea,
il sentimento e l’esperienza segnavano le loro tracce nella creta.
Così imitò il padre nel plasmare pupazzi e pastori, mostrando fin da
subito grandi doti e buoni risultati.
A tredici anni la necessità di procurarsi un diploma e di migliorare la
propria tecnica lo spinsero ad entrare nell’Accademia di Belle Arti.
Per lui che aveva proceduto un po’ imitando suo padre, un po’
abbandonandosi ad intuizioni artistiche rudimentali, l’ordine e la
disciplina dell’accademia, le linee metodiche e scolastiche, lo
scoraggiarono fin dal principio.
In Cifariello l’attività artistica era tutta un’esplosione di genialità, di
plastiche istintive, appena disciplinate dal gusto innato dello scultore
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che s’era abbandonato, con tutta la frenesia della sua gioventù e del
suo temperamento esuberante, alla gioia del produrre.
Dalla sua terra d’origine egli ereditò quell’istinto d’appassionata e
aspra combattività che caratterizzò la sua vita e nella sua arte
lampeggiò come un’oscura fiamma.
Nelle reazioni inconsapevoli e negli scatti d’orgoglio, negli impulsi
spontanei all’operare, al costruire dal nulla, al congegnare con pochi
grezzi elementi, al trarre dall’informe argilla i primi segni espressivi,
c’erano gli sbocchi precoci del suo genio.
Cifariello aveva solo diciassette anni quando inviò all’Esposizione di
Belle Arti di Roma una statuina alta un metro raffigurante uno
“scugnizzo” che non passò inosseravata, mentre l’anno seguente alla
XX Esposizione Promotrice Salvator Rosa di Napoli, presentò l’opera
in bronzo “Piedigrotta” che richiamò l’attenzione di critici e visitatori
e venne acquistata dal Re per il Museo di Arte Moderna di
Capodimonte.
L’artista formatosi allo studio dei classici nel Museo Nazionale di
Napoli e all’amore intelligente dei quattrocentisti fiorentini, non aveva
mai dimenticato, senza rinunciare al suo innato sentimento moderno,
che la scultura, arte della terza dimensione, era per definizione l’arte
della forma: la più raffinata e difficile, in grado di racchiudere valori,
pensieri e sensazioni nell’armonia esteriore della forma stessa e del
suo movimento.
S’era dato ad una produzione eccessiva, faceva ritratti, riproduzioni
dal vero, febbrilmente tentava generi diversi d’arte.
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Andava avanti valutando se stesso, i pregi da raggiungere e i difetti da
correggere; rispetto alle sue opere diventava il giudice più severo, ma
solo in fondo alla sua coscienza, perché nell’audacia che aveva, egli
rivelava un concetto elevato della propria opera.
Dopo l’esposizione di Roma incominciò ad avere una maggiore
notorietà, allargò la cerchia delle sue conoscenze, non frequentò più
l’Accademia, ma vi s’ iscrisse come artista esterno.
In lui era intensissimo il desiderio di apparire diverso e più ricco di
quello che fosse in realtà. Abitava il Palazzo Odescalchi, il che
bastava a mantenergli una reputazione di lusso, ma pochi sanno che
egli viveva in una misera stanza all’ultimo piano.
Vestiva con ricercatezza, si mostrava di tanto in tanto in ritrovi
eleganti, aveva spesso delle avventure amorose, nelle quali sapeva
prendere tutte le misure idonee per non rovinarsi.
Questi episodi di vita mondana trovavano poi il compenso in lunghe e
silenziose privazioni da vero eroe di soffitta, dove ogni grido di dolore
e d’incertezza veniva soffocato dall’intraprendenza e dalla caparbietà.
Nei primi anni della carriera emerse il suo talento speculativo, si
scorsero le ragioni del suo successo: l’ingegno acuto e la voglia di
affermarsi, la capacità di non ubriacarsi delle vittorie e di saper
accettare le sconfitte.
Se da una parte le sue qualità gli facilitavano la via della notorietà e
gli davano un tornaconto, dall’altra crescevano le inimicizie e
prendeva sempre più credito la voce che egli plasmasse dal vero, il
che costituisce un trucco che gli scultori giudicano grave.
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Alle accuse che si facevano, non tanto alla sua opera d’artista quanto
ai mezzi insidiosi del successo, egli rispose con l’“Esposizione
Cifariello” che fu un guanto di sfida, e per molti un colpo d’audacia,
vanità ed orgoglio.
Nell’“Esposizione Cifariello” mostrò, ancora giovanissimo, alcuni
ritratti scultorei in cui la costruzione anatomica, il rivestimento
muscolare, la trama arteriosa e venosa, la sapienza dei piani e delle
penombre, dei più minuti caratteri dell’epidermide erano tali che
sbalordivano.
Il gran numero di soggetti esposti, le discussioni suscitate, il coraggio
di un’esposizione personale, fecero del nostro scultore un talento
prodigioso, precoce e fecondo.
Sentendosi contrariato a Napoli pensò di trovare a Roma uno sbocco
alla sua arte, ma anche qui la voce del trucco lo inseguiva nei concorsi
in cui partecipava mettendo in grave pericolo la sua reputazione.
In un concorso a Venezia la commissione esaminatrice lo accusò di
ricalco e di plagio per una classica testa di moro, meravigliosa
nell’insieme e nei dettagli.
L’accusa venne da un certo Dal Zotto, scultore veneto, alle cui
osservazioni, ricorda amaramente Cifariello “fecero coro tutti gli
artisti napoletani colà convenuti perché scartati in massa da
quell’esposizione alla quale ero stato invitato con tutti gli onori”.
L’episodio ebbe un grandissimo eco sulla stampa italiana e straniera.
Con molta spregiudicatezza e anticipando certe concezioni del
realismo, Cifariello in quell’occasione intelligentemente affermò:
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“ammesso che avessi realmente formato davvero la maschera del
moro, io avrei conservato il convincimento di non aver fatto nulla di
male se fossi riuscito a rendere un’espressione artistica mediante le
aggiunte e i cambiamenti apportati al primo elemento.
Il mio busto trasmette o no un’emozione estetica? Se si vuol dire che
l’artefice, servendosi di quella maschera, seppe comprendere più di
ogni altro l’oscura essenza del bello, chiuso in quel frammento di
natura…francamente affermo che, se fosse possibile, mi servirei senza
alcuno scrupolo, come meglio credessi, della natura, pur di riuscire a
creare vere opere d’arte…Si può formare quanto si vuole, se l’opera
non è sentita, non incanterà nessuno”.
1
Figura n. 1 – Fachiro. Proprietà Bondi, Roma 1895.
1
Cfr. P. Ricci, Arte e artisti a Napoli. Cronache e memorie di Paolo Ricci, Napoli 1981, pag. 100.
13
Amareggiato e indignato, lo scultore rispose con una beffa, un gesto
degno di un artefice rinascimentale: ritirò l’opera, copiata ma non
ricalcata da una maschera di moro acquistata da lui a Parigi, e
presentò al pubblico una statua di moro che intitolò “Fachiro-
risposta”, di un realismo impressionante.
Figura n. 2 – Fachiro – risposta. Proprietà Bondi, Roma 1895.
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Oltre all’identica, precisa riproduzione della testa, egli completò la
figura con un corpo perfetto, per i dettagli e le proporzioni accurate,
ottenendo nell’insieme una classica armonia.
Quest’opera, che uscita da un lampo d’amor proprio offeso gli ridiede
completamente la sua reputazione, colloca lo scultore fra gli artisti più
bizzarri e singolari d’ogni tempo.
La sua arte emergeva dal profondo, da un animo che aveva sofferto,
che aveva reagito con vigorose spallate agli accerchiamenti della
miseria, che aveva saputo inghiottire le lacrime, spegnere i gemiti,
sorridere sempre.
Le sue creature impressionavano per la potenza di vitalità che da loro
si sprigionava, in esse si sentiva la mano di un plasmatore che aveva
affrontato brutalmente la realtà, l’aveva rivissuta nel suo spirito con
voluttà autocratica, l’aveva posseduta nella sua più nascosta intimità
come un’amante lussuriosa.
Nella sua ascensione continua ebbe sempre una felice facoltà di
rinnovarsi, la sua visione artistica conobbe lampi improvvisi e
rinnovamenti perpetui, affermazioni sempre diverse e formidabili.
Egli mostrò linee originali nei bisogni di vita come nella condotta, era
evidente la voglia di creare uno stile rispondente ai propri impulsi e
alle proprie esperienze, svincolandosi dal convenzionalismo e
dall’imitazione.
Cifariello fu senza dubbio un grande artista che fece parlare molto di
sé, per la sua natura esuberante, per il suo carattere rissoso, per le lotte
che riuscì a superare. Uno scultore venuto dal nulla, che
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giganteggiava, si faceva largo prepotentemente, che aveva un enorme
valore e un grande desiderio di riuscire.
Vittorio Pica, in un numero di “Minerva” del 29/7/1900 scriveva:
“Nessuno dei giovani scultori italiani ha dato vita in uno spazio così
breve di tempo, a un maggior numero di opere di quest’artista
meridionale di indole esuberante e battagliera, di laboriosità
instancabile e di possenza creativa altrettanto fervida, nessuno di essi
ha più goduto e sofferto per merito dell’arte propria”.
2
La sua vita artistica fu ricca di riconoscimenti, onoreficenze e titoli
accademici. Tra quindici ricompense bisogna annotare sei medaglie
d’oro in diverse delle maggiori esposizioni, qualche grande medaglia
d’onore (a Vienna), due medaglie d’argento.
Fu inoltre professore onorario dell’Accademia di Napoli e più volte
delegato governativo per giurie in esposizioni all’estero. Era invitato
nelle esposizioni senza l’obbligo di sottoporre le proprie sculture a
giudizio, privilegio riservato ai maggiori artisti.
Ricevette la Commenda della Corona d’Italia, quella dell’Ordine di
Francesco Giuseppe, il titolo di Ufficiale della Corona di Russia e la
Medaglia dell’Ordine di Ludovico I di Baviera. Furono questi i
maggiori punti di ritrovo di una vita tra le più operose.
La sua arte era tangibile, concreta, sensoriale e sensuale: poche
sfumature di sentimento, niente d’incompreso o di simbolico; la sua
opera era finita, era calcata e analizzata nella minuzia dei particolari.
2
Cfr. G. Marangoni, Cifariello, Milano 1936.
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A prescindere dall’orgoglio del suo carattere e dalla ricerca
dell’applauso, non emergeva nella sua opera la fatalità del
temperamento, la forza prepotente di un istinto e di un’emozione
artistica.
Le sue sculture erano più lavoro di calcolo, di attenzione, che di
emozione e sentimento; poco accentuata era la forza del suo istinto e
della sua fantasia.
Solo una donna fu in grado di sconvolgere i suoi sensi e la sua arte,
divenne la sua Musa, la maggior fonte d’istinto e passione; per lei, fra
le estenuanti fatiche e le lacrime amare, nacque una delle più insigni
sculture di Cifariello: l’“Annunciazione dell’Amore”.
Figura n. 3 – Annunciazione dell’Amore. III Biennale di Venezia.
Museo Nazionale di Boston.
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L’opera è un bellissimo nudo di donna che esce dalla vasca e si mostra
conquistata dall’estasi, dalla voluttà delle parole d’amore, che le
sussurra un angioletto che in atto di preghiera è inginocchiato presso
di lei.
Le parole d’amore, la venerazione, l’ammirazione di quell’angioletto
sono una splendida e romantica dichiarazione d’amore, per la donna
che gli cambiò la vita.
La scultura è una delle più soavi e sublimi esaltazioni della bellezza
femminile, limpida, viva nel realismo scultoreo delle carni palpitanti e
dei morbidi ritmi di masse armoniose, nell’originalità della linea
decorativa che innalza il significato plastico in un’onda di commossa
poesia, in profonda e suggestiva intimità d’ispirazione.
1.2 L’INCONTRO CON LA DONNA FATALE
Per Cifariello, la donna era considerata, oltre che una sorgente di
delicate sfumature sentimentali, come un vivissimo ammaliante fiore
decorativo del suo mondo. In lui, tipo passionale ed emotivo, vi era
l’intenso desiderio d’insinuarsi nell’anima della sua compagna, di
confessarsi a lei, di farla partecipe delle sue ansie, delle sue privazioni,
delle sue battaglie e delle sue vittorie.
La femminilità celava in sè qualcosa di cupo e d’affascinante: la sua
bellezza e la sua instabilità, la sua vanità e la sua ostinatezza, non
potevano che destare burrasche passionali!