10
per ciò che seguirà, essa può benissimo fungere da sottofondo durante lo
svolgimento.
Invece, l’obiettivo principale di questo lavoro sarà quello di
esaminare la presunta correlazione generale tra l’insicurezza e la crescita
economica. Essendo plausibile che in qualche modo un aumento della
prima possa influire negativamente sulla seconda, ciò costituisce l’ipotesi
fondamentale che vogliamo, entro i limiti del possibile, accettare o
rifiutare.
Il procedere per questa verifica porta in ultima istanza allo Stato, e
più precisamente allo Stato sociale o al cosiddetto welfare state, che,
come vedremo, può essere considerata l’unica istituzione capace di far da
mediatore tra i due fenomeni (insicurezza e crescita economica) in modo
efficiente e durevole nel tempo.
L’assunzione di base si spiega considerando prima il welfare (o il
benessere), comunque esso sia prodotto, come qualcosa di utile, un
concetto positivo, un obiettivo da perseguire. Sebbene questa opinione
possa essere condivisa da tutti, qui non ci basta. Andando oltre – ed è qui
che i pareri possono dividersi – bisogna abbandonare la veduta puramente
individuale per un approccio più vasto, o se si vuole, sociale, del tipo: “se
tutti stanno bene, sto bene anch’io”, oppure, “se loro stanno meglio, sto
meglio anch’io”. Nonostante questa assunzione possa sembrare evidente,
allo scontrarsi con la realtà diventa un’ipotesi forte che dipende da una
varietà di fattori.
L’analisi verrà divisa in tre parti seguendo la logica dei tre concetti
principali (l’insicurezza, il welfare state e la crescita economica). Dato il
suo ruolo, per certi versi, intermedio, il primo capitolo affronta la nozione
di welfare state. Dopo alcune brevi definizioni in merito, esse verranno
subito applicate nel riassumere le esperienze del welfare state svedese.
Dato che esso spesso viene considerato il prototipo della nozione stessa,
di tanto in tanto durante il corso del lavoro ci si riferirà ad alcune di
queste esperienze.
11
Date la centralità e la rilevanza della crescita economica per lo
sviluppo delle società umane moderne, l’intenzione del secondo capitolo
è innanzitutto quella di mettere essa in relazione col concetto esposto nel
capitolo precedente, ossia il welfare state. Gli effetti che la dimensione
del welfare state può esercitare sulla crescita economica, sia in termini
teorici che empirici, vengono studiati sintetizzando i principali risultati
delle numerose ricerche economiche svolte in materia.
Il terzo capitolo, oltre ad approfondire la nozione di insicurezza,
studia i rapporti tra essa ed i precedenti concetti, con la finalità di
verificare l’ipotesi posta a priori. In aggiunta ricollega vari aspetti trattati
precedentemente permettendo di riesaminare i legami tra i due concetti
studiati nei capitoli precedenti.
L’ambito operativo, costituito dalle interazioni delle tre nozioni, è dunque
molto vasto. Essendo inoltre ognuna delle nozioni, come vedremo, di
interpretazione non univoca se considerata separatamente, si rende
inevitabilmente necessario restingere il campo. In altre parole, è bene
sottolineare che, nonostante l’approccio dello studio si possa ritenere
ampio, non si pretende che esso sia esaustivo.
Oltre alle assunzioni che veranno enunciate negli opportuni punti
durante lo svolgimento del lavoro, in generale e se non viene indicato
diversamente, vengono considerati solamente paesi industrializzati (paesi
dell’OCSE con particolare attenzione a quelli facenti parte dell’UE), le
cui economie vengono ritenute ‘chiuse’ (per cui non si farà differenza tra
economie grandi e piccole).
Per di più, e se non viene precisato altrimenti, rispetto al welfare
state non vengono analizzate in modo approfondito: le questioni
demografiche e l’invecchiamento delle popolazioni (i sistemi
pensionistici); gli effetti ed implicazioni della globalizzazione (la
concorrenza internazionale e la competitività fiscale); gli aspetti
riguardanti il suo finanziamento; gli aspetti inerenti alla distribuzione del
reddito; le influenze dei diversi gruppi di interesse; interessi e giudizi
12
politici; la fiducia della gente nello Stato (per cui aspetti come per
esempio l’evasione fiscale non vengono considerati); le norme e i valori
sociali delle società; le dinamiche temporali.
Considerate le principali limitazioni, i risultati più significativi sono:
primo, la conferma della presunta correlazione negativa tra l’insicurezza
e la crescita economica, ossia che il sentimento della prima può, anche
notevolmente, influenzare l’andamento della seconda.
Secondo, che questo legame venga spiegato attraverso il cosiddetto
‘minimo comune denominatore’ dei tre concetti – il lavoro salariato –
che costitusce l’unica fonte comune decisiva per l’esistenza dei concetti
stessi. La rilevanza del fattore lavoro nello spiegare le
interdipendenze delle nozioni viene confermata ulteriormente in quanto
consente di riconsiderare la relazione tra il welfare state e la crescita
economica in un’ottica diversa. Primo, contribuisce a spiegare perché,
nelle diverse ricerche empiriche, non si è trovata una correlazione
prevalente tra le due nozioni, per cui evidenzia la necessità di distinguere
tra i diversi componenti della spesa per il welfare state. Ciò facendo,
considerati i risultati delle ricerche qui esaminate, si trova come le spese
volte a dare sostegno al mercato del lavoro influiscano positivamente
sulla crescita economica, sia quelle che mirano ad aumentare
l’occupazione, sia quelle volte a promuovere e migliorare le conoscenze
della forza lavoro e perciò la sua qualità. In particolare le spese in
programmi attivi di mercato del lavoro (PAML) sembrano incidere
positivamente sulla crescita economica.
Secondo, il minimo comune denominatore aiuta a spiegare le
modalità che stanno alla base del come le risorse in più che la crescita
economica crea possano contribuire (volendo) a rafforzare il welfare
state. Viene dimostrato come l’opinione comune che “la crescita crea
risorse per il welfare” non può essere considerata del tutto corretta, in
quanto bisogna tenere conto di come essa viene creata: se la crescita
economica proviene prevalentemente da aumenti di produttività, le
13
risorse disponibili per il welfare state saranno minori che nel caso in cui
essa derivi da aumenti quantitativi del fattore lavoro, ferma restando la
pressione fiscale. Dunque, se un governo vuole ampliare la quantità e la
qualità dei servizi di welfare – senza ricorrere ad aumenti fiscali -
l’obiettivo da perseguire non dovrebbe essere la crescita economica in sé,
bensì una politica che sì stimoli la crescita, ma che lo faccia
prevalentemente attraverso aumenti della quantità di lavoro impiegato
nell’economica, vale a dire o facendo lavorare di più la gente o
aumentando il livello di occupazione. Questa idea può trovare ulteriore
conferma considerando sia la vera natura della crescita economica – un
aumento del benessere materiale, e non del welfare in generale - che
l’evoluzione storica del welfare state.
Partendo da idee non nuove e scientificamente ben consolidate, esse
vengono qui collegate nella speranza che possano costituire la base per
ulteriori verifiche e approfondimenti. Così come è vero che nel momento
attuale all’approccio qui utilizzato, pur nella sua relativa semplicità, non
viene solitamente dato molto peso, altrettanto vero è che da esso non si
potrà mai prescindere del tutto e che prima o poi bisognerà tenerne conto.
14
1. IL WELFARE STATE
SOMMARIO: 1.1. Introduzione - 1.2. Definizioni 1.2.1. Welfare 1.2.2. Il welfare state
1.2.3. Regimi di welfare state 1.2.4. Il ‘welfare mix’ 1.2.5. Il modello nordico - 1.3.
Misurare il welfare 1.3.1. Indicatori sociali 1.3.2. Il PIL pro capite 1.3.3. Indici di
welfare generale - 1.4. Le fonti del welfare state - 1.5. La Svezia – una retrospettiva
storico-economica 1.5.1. L’industrializzazione 1.5.2. Le crisi 1.5.3. ‘The Middle Way’
1.5.4. Rallentamento e problemi strutturali 1.5.5. Il conto corrente e il bilancio dello
Stato 1.5.6. La ‘terza via’ e la ripresa 1.5.7. Il surriscaldamento e la fine della politica
keynesiana 1.5.8. Recessione e crisi valutaria 1.5.9. Austerità ed uscita dalla crisi
1.5.10. Crescita bassa, disoccupazione alta - 1.6. Il modello svedese 1.6.1. Il welfare
state: progresso ed arresto 1.6.2. Un dibattito continuo 1.6.3. Il nucleo del welfare state
svedese 1.6.4. Il livello del benessere 1.6.5. La distribuzione del welfare 1.6.6. Il nesso
tra la distribuzione e il ‘welfare mix’ - 1.7. Il modello svedese in un contesto
internazionale 1.7.1. Secondo il PIL pro capite 1.7.2. Secondo gli indici di welfare
1.7.3. Riflessioni
1.1. Introduzione
Il welfare ed il welfare state sono nozioni molto complesse. Mentre da un
lato mancano delle definizioni unanimemente accettate, dall’altro sono
espressioni frequentemente usate e dibattute sia dai massmedia che da
politici e scienziati.
Lo scopo principale di questo capitolo è quello di familiarizzarsi
con il concetto di welfare state e con l’idea di ciò che esso produce, vale a
dire il benessere. Pertanto, basandosi sulla letteratura più ampiamente
riconosciuta, con l’obiettivo di aiutare sia a comprendere meglio ciò che
possono apportare sia a circoscrivere il terreno per meglio padroneggiare
il loro uso, si inizia questo capitolo con alcune sintetiche definizioni.
Definizioni che poi saranno frequentemente utilizzate nel corso di questo
lavoro.
15
Successivamente vengono affrontati i diversi modi, altrettanto
dibattuti e discussi, in cui il welfare può essere misurato, dopodiché
particolare attenzione verrà posta alle fonti del welfare state, ossia ai
presupposti sottostanti ed indispensabili per la sua edificazione ed
esistenza.
Per meglio illustrare questi concetti alla luce della realtà, la seconda
parte del capitolo verrà dedicata al caso del welfare state svedese – il
cosiddetto ‘modello svedese’, spesso considerato sinonimo della nozione
stessa - e alla sua evoluzione, soprattutto dagli anni novanta in poi. Per
rendere l’esposizione più chiara possibile viene prima delineato un
quadro storico-economico del paese nel quale essa verrà successivamente
inserita. Infine segue una breve rassegna degli ultimi studi in merito nei
quali il modello svedese viene confrontato con gli altri paesi
industrializzati.
16
1.2. Definizioni
1.2.1. Welfare
Nel seguito, quando si parla di welfare, o benessere, lo si intende come
un termine riassuntivo delle condzioni di vita dei cittadini: il reddito, la
salute, il livello d’istruzione, le condizioni di lavoro, lo standard di vita
materiale, ecc.. Dunque non si considera solo l’insieme delle risorse
economiche come di solito accade nella letteratura economica.
Quest’ultimo può essere definito come welfare economico, una nozione
che oltre al reddito disponibile comprende “la produzione casalinga, il
beneficio tratto dal consumo da parte del settore pubblico e gli eventuali
redditi “neri””
1
. Infine, quando si vuole sottolineare che il welfare
riguarda tutti i cittadini si parla spesso di welfare generale. Abbiamo
dunque a che fare con una nozione molto ampia. Per la questione,
pressoché irrisolvibile, di come misurare il welfare si veda il paragrafo
1.3.
1.2.2. Il welfare state
La nozione di welfare state manca di un’esatta definizione
universalmente riconosciuta, ma i tentativi non sono mancati. Per
esempio scrive Barr (1998): “Il concetto di ‘welfare state’ difetta di una
definizione precisa e non farò nessun tentativo serio di offrirne una”
2
.
Neanche qui si approfondirà l’argomento più del necessario e ci si
limiterà a creare un’intelaiatura maneggevole e che possa funzionare da
denominatore comune.
In seguito per welfare state si intende un sistema sociale teso a
garantire il massimo benessere a tutti i cittadini attraverso la riduzione
delle disuguaglianze, mediante l’erogazione di prestazioni pubbliche,
1
Jansson, Karlsson & Lundberg (2003), p. 40.
2
Barr (1998), p.6.
17
dirette o indirette. Aspetti indispensabili e spesso ritenuti il nucleo del
welfare state sono perciò l’assisenza medica gratuita, l’istruzione gratuita
e la previdenza sociale. Il welfare state può dunque essere considerato
un’istituzione che produce benessere, vale a dire welfare.
1.2.3. Regimi di welfare state
Nell’ambito della ricerca del welfare, col tempo si sono delineate delle
diverse tipologie o modelli di welfare state
1
. Questi modelli prendono in
considerazione diversi fattori fra cui il livello della spesa pubblica
destinato al welfare state, l’assetto istituzionale (privato/pubblico), i
requisiti per usufruire dei servizi ed i loro livelli di compensazione, i
caratteri del sistema fiscale, la tradizione storica, ecc.
Qui si fa soprattutto riferimento ai lavori di Esping-Andersen
(1990) che ha individuato tre regimi di welfare state: il regime liberale, il
regime conservativo e il regime socialdemocratico. L’idea generale della
nozione di regime di welfare state può essere riassunta come il “capire le
variazioni nella distribuzione dello standard di vita materiale in termini di
disuguaglianza del reddito, di povertà e di esclusione sociale in senso
lato”
2
.
I diversi regimi si pongono in modo differente rispetto alle
suddivisioni sociali. Il regime liberale, fra tutti il regime più orientato
verso soluzioni di mercato, di solito non riesce ad evitare le differenze tra
le classi sociali e quindi nei paesi dove domina (Usa, Canada, Australia e
Gran Bretagna) i conflitti di classe tendono ad essere più accentuati. Nel
regime conservativo (Germania, Francia e paesi mediterranei),
caratterizzato da interventi pubblici volti per lo più a preservare le
posizioni sociali già esistenti, si creano invece divisioni sociali tra quelli
che godono e quelli che non godono della protezione.
1
Si vedano per esempio Esping-Andersen (1990), Castles & Mitchell (1992) e Korpi &
Palme (1997).
2
Vogel (2002), p. 243.
18
Il regime socialdemocratico (i paesi nordici), dove la spesa per la
protezione sociale è di gran lunga di più vasta portata, tenta per lo più di
equilibrare le differenze non solo tra le classi sociali, ma anche tra i sessi.
Di conseguenza i suoi aspetti distributivi sono stati basse diseguaglianze
del reddito, bassi tassi sia di povertà che di ricchezza e uno standard di
vita materiale alto.
1.2.4. Il ‘welfare mix’
All’interno di questi regimi, in cui si possono collocare tutti i paesi
occidentali, si presenta a sua volta una specifica combinazione delle tre
fondamentali istituzioni del welfare: il mercato del lavoro (o il mercato),
il welfare state in quanto tale e la famiglia. Queste formano un cosiddetto
welfare mix
1
, o configurazione istituzionale, unico per ogni paese, e
costituiscono dunque le fonti principali del welfare nelle economie
moderne, vale a dire che sono esse che forniscono il benessere alla gente
2
(Vogel, 2002).
1.2.5. Il modello nordico
All’interno del regime socialdemocratico (del quale “la Svezia costituisce
l’archetipo e del quale fanno inoltre parte la Finlandia, la Danimarca e la
Norvegia”
3
), il ‘welfare mix’ si distingue per un mercato del lavoro
esteso con politiche volte a promuovere il pieno impiego e un forte
welfare state sostenuto da una notevole spesa per la protezione sociale. Il
ruolo della famiglia come promotrice del welfare è invece ridotto di
molto rispetto alle configurazioni abituali degli altri due regimi.
1
L’espressione è dovuta a Joachim Vogel (professore di analisi del welfare sociale
presso l’Università di Umeå, Svezia, e presso l’Istituto statistico svedese, Scb), come
affermato da egli stesso durante una corrispondenza di posta elettronica.
2
Altre sono per esempio le organizzazioni di beneficenza, datori di lavoro ed il settore
privato.
3
Vogel (2002), p. 243.
19
Ciò vale soprattutto in confronto al regime conservativo, rispetto al quale
nel tempo si è verificato un vero e proprio abbattimento dei valori
familiari tradizionali. In seguito chiamiamo il ‘welfare mix’ nordico
anche modello nordico o modello svedese, perché come vedremo, è in
Svezia che trova la sua origine.
20
1.3. Misurare il welfare
Da quando si è posto il problema per la prima volta è sorta una
controversia, tuttora irrisolta, tra economisti, sociologi ed altri ricercatori
di welfare, su come si dovrebbe misurare il benessere di una nazione. Qui
segue una breve sintesi dell’evoluzione del problema nel tempo.
1.3.1. Indicatori sociali
Condurre delle statistiche sugli indicatori sociali non è cosa semplice. In
concomitanza con lo sviluppo dei sistemi di contabilità nazionale, nel
1900 è nata anche l’idea di costruire un indice riepilogativo del welfare.
Negli anni ’60 è nato il cosiddetto ’movimento degli indicatori sociali’
che prima ha portato ai grandi sistemi statistici nei vari paesi sviluppati e
successivamente ai diversi sistemi di statistica internazionale (OCSE,
ONU, UE). Tuttavia, riassumere l’evoluzione del welfare non è semplice
quanto tenere la contabilità nazionale, e la costruzione di banche dati
coordinate della statistica sociale è stata assai più lenta e complicata
rispetto a quella per i conti economici.
Mentre l’indice più generale della contabilità nazionale, il PIL pro
capite, misura lo sviluppo della produzione totale dei beni e dei servizi di
un paese in termini monetari, lo sviluppo del welfare non è altrettanto
afferrabile. Il primo tentativo di costruire un indice del welfare è fallito
per la mancanza di statistiche confrontabili (Drewnowski & Scott, 1966).
Con gli anni la situazione è migliorata e la ricchezza di particolari dei dati
statistici sociali è diventata impressionante. Però, rispetto all’indice PIL
pro capite la visione generale è rimasta meno accessibile e meno diretta, e
i dati della statistica sociale appaiono spesso disordinati e difficili da
inquadrare. Perciò, e dunque soprattutto per motivi di semplicità, nel
misurare il welfare si ricorre per la maggior parte all’uso del PIL pro
capite.
21
1.3.2. Il PIL pro capite
Critiche verso l’uso del PIL pro capite come misura del welfare si sono
alzate sia da parte degli istituti che lo compilano (OCSE, Eurostat), che di
alcuni economisti Premio Nobel (James Tobin e Amartya Sen), i quali
fanno osservare che lo scopo del PIL non è mai stato quello di descrivere
il welfare.
Invece la sua funzione è quella di misurare il valore della produzione, e in
linea di massima l’aggregato può riguardare il welfare se quest’ultimo
viene considerato da un punto di vista materiale.
Dato che il PIL misura solo beni e servizi che hanno un prezzo, l’indice
trascura la maggior parte dei componenti del welfare ai quali un prezzo
non può essere attribuito
1
. Inoltre il PIL pro capite non dice niente di
come la produzione sia stata ripartita tra la popolazione, vale a dire che
non dice niente su chi ha effettivamente consumato i beni e i servizi
prodotti nel paese.
Il nesso tra il PIL e il welfare dunque non è da ritenere scontato.
Diverse ricerche hanno dimostrato che il beneficio marginale di un
aumento del PIL tende a diminuire in relazione al livello di vita
raggiunto, e che il rapporto tra qualità di vita e PIL praticamente è
inesistente nei paesi industrializzati più ricchi
2
. Ciò suggerisce che il
welfare dovrebbe essere misurato ad un livello individuale e non come
una semplice media della produzione totale.
1
Per esempio una vita lunga e sana, inquinamento ambientale, condizioni climatiche,
ambiente di lavoro, quantità e qualita del tempo libero, rete sociale, fiducia e solidarietà
tra le persone, sicurezza e bassa criminalità, fiducia nelle istituzioni, democrazia e
partecipazione politica, uguaglianza tra classi, generazioni, sessi, gruppi etnici ecc.
2
Si veda per esempio Donovan & Halpern (2002).
22
1.3.3. Indici di welfare generale
Non essendo il PIL un indice completo nel descrivere il benessere
individuale, la ricerca sul welfare da oltre 30 anni ha provato a costruire e
a diffondere indici alternativi, indici che poco a poco si sono perfezionati
in seguito all’allargamento della base statistica sociale. Attualmente ci
sono una decina di misure internazionali per stimare e confrontare il
livello di welfare generale tra diversi paesi
1
. Questi indici, oltre a
misurare l’economia, la salute, la durata della vita ecc. delle popolazioni,
mirano anche a misurare la distribuzione del welfare.
Va ribadito che nessuno degli indici è oggettivamente completo;
dietro ci sono imperfezioni di metodo e problemi di natura tecnica, per
cui rimane spazio per valutazioni di carattere soggettivo. Pertanto non
possono sostituire la pluralità di indicatori sociali su cui si basano e
vanno piuttosto visti come un complemento a questi ultimi (Vogel &
Wolf, 2004).
1
Sono prodotti dall’ONU, da diversi istituti di ricerca e università.
23
1.4. Le fonti del welfare state
Nelle società moderne le condizioni di vita degli individui adulti vengono
per lo più determinate entro i limiti del mercato del lavoro. Da una parte
il lavoro
1
contribuisce ad incrementare la sicurezza economica delle
persone: è attraverso il lavoro che le loro risorse economiche (reddito,
pensioni) vengono acquisite, risorse che successivamente determineranno
i loro consumi e, in senso lato, i loro standard di vita materiale. Dall’altra
parte il lavoro può significare molto di più di ciò in quanto crea
competenza, identità, status, contatti sociali ecc. agli individui. Così il
lavoro può essere visto come un’attività che contribuisce a formare le
persone e dare un certo senso alla loro vita. In altre parole, il lavoro crea
welfare sotto diversi aspetti. Ciò viene per esempio riassunto da Esping-
Andersen (2002): “I mercati sono la fonte principale del welfare per la
maggior parte dei cittadini per la maggior parte della loro vita adulta, sia
perché la maggior parte del reddito deriva dal lavoro, sia perché molto
del nostro welfare viene acquistato sul mercato”
2
.
Il lavoro contribuisce dunque ad arricchire il welfare degli individui
sia in modo diretto (nel senso indicato sopra), sia in modo indiretto
attraverso la tassazione a cui viene sottoposto per finanziare i servizi di
welfare di cui potranno beneficiare in un futuro. Pertanto, più persone
sono occupate, più ampia sarà la base imponibile per poter finanziare il
welfare state. Inoltre, più persone impiegate nell’economia riducono la
necessità di interventi da parte dello Stato e viceversa, in quanto saranno
di più le persone che riusciranno a mantenersi da sole con il reddito che il
mercato assicura loro.
Spostando l’attenzione sul ‘welfare mix’, Kolberg e Esping-
Andersen (1992), studiando l’interazione tra il welfare state ed il mercato
del lavoro nei paesi industrializzati, individuano tre regimi occupazionali
diversi e inoltre notano che questi tendono a coincidere con i regimi di
1
Da qui in seguito sinonimo di lavoro retribuito o salariato.
2
Esping-Andersen (2002), pp. 11.