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poter convincere gli spettatori di un cinema a guardare un cartoon per la
durata di un vero film. E ci riuscì. Grazie a lui Biancaneve e i sette nani ha
segnato la svolta dell’industria del cartone animato. Il cinema di Disney
risulta perfettamente, logicamente, essenzialmente hollywoodiano: è, a suo
modo, basato sullo star system, è teso a confezionare in lussuosi
contenitori squisiti ma generici prodotti per folle indifferenziate, è intessuto
di stereotipi, clichè, mitologie, luoghi comuni. Il cartoon disneyano è al
contempo entertainment e show business. E’ spettacolo puro, qualcosa che
può essere fatto con arte, ma che rifugge dall’idea di essere arte. Disney
ha sempre lucidamente rivendicato una scelta artigianale, parlando di film
concepiti e realizzati per il pubblico infantile, senza ambizioni culturali e
senza la pretesa di venir proiettato nelle sale d’essai.
Ma come tutti, anche lo ‘zio’ Walt possedeva alcuni lati difficili, tenuti
in penombra. E proprio questi lati oscuri, l’incessante inquietudine, le tante
barriere emotive (egli rifiutava ogni visione psicanalitica delle sue opere), si
dimostrarono essere la fonte della sua visione artistica così unica.
Walt Disney non è stato solamente il disegnatore per antonomasia, il
mago di Burbank, un novello Andersen o l’Esopo del xx secolo, amato da
milioni di persone, che nelle sue pellicole hanno potuto riscoprire i valori
della semplicità, della famiglia e della lealtà; come molta critica ha
evidenziato, dietro la fantasia e l’allegria dei suoi personaggi vi è un
aspetto recondito, un messaggio nascosto rivolto al suo pubblico,
indistintamente adulto e infantile: dietro al bucolico disegnatore si celava
infatti anche un abile uomo d’affari, un self-made man della migliore
tradizione americana. L’unicità di Disney risiedeva proprio in quella
straordinaria miscela di immaginazione fanciullesca e abilità
imprenditoriale.
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Per alcuni è stato il Raffaello del cattivo gusto, il distruttore della
libertà grafica del cartoon con un realismo affine al cinema ‘dal vero’.
Qualcuno è arrivato persino a definirlo un propagandista assai subdolo
dell’American way of life, o peggio, dell’ideologia imperialista statunitense a
livello planetario. Certo è che risulta estremamente difficile definirne i tratti
e la psicologia più profonda.
Scopo di questo lavoro è mettere in risalto uno degli aspetti meno
conosciuti della complessa personalità del “re di cartoonia”, la sua ideologia
politica, anche attraverso l’analisi di alcuni film e dei relativi protagonisti.
Sottolineiamo da subito che su Walt Disney è stato scritto tutto e il
contrario di tutto: negli anni, da destra e da sinistra, sono piovuti plausi e
critiche, volti gli uni ad elogiarlo oltre ogni reale merito, le altre ad
evidenziare gli aspetti negativi del suo operato. Il peso ideologico di Disney
è stato fortissimo giacchè a lungo, nella coscienza dello spettatore comune,
egli venne accettato quale unico modello possibile di cinema d’animazione,
come se disegno animato e disegno animato disneyano fossero un’unica
cosa. D’altronde fu lo stesso Disney non solo ad accettare ma a corroborare
quest’idea, descrivendo e teorizzando il cartoon come se non esistessero o
potessero esistere altre forme oltre a quelle da lui modellate. All’interno
della propria cornice, l’opera disneyana è comunque imponente e
inappuntabile sia dal punto di vista estetico sia da quello teoretico; ma è
scontato che in un discorso storico-critico, essa vada ridimensionata e
collocata in un contesto più vasto e articolato.
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CAPITOLO 1: UN SOGNO LUNGO UNA VITA
“Quel last tycoon che nel romanzo di Francis
Scott Fitzgerald, usava il pugno d’acciaio
negli studios, mentre si struggeva nel cuore
per uno sguardo di donna, doveva essere
almeno alla lontana imparentato con Walt
Disney.”
G.Bendazzi
1.1 Chi era Walt Disney? Ritratto di uomo irrisolto
Secondo la testimonianza di coloro che lavorarono con lui, e per lui,
Disney fu un very complicated man. Al di là del mito – l’uomo dei sogni, il
genio, lo ‘zio’ di tutti i bambini, affettuoso e disponibile, precursore del
family entertainment, capo gentile e padre modello, rassicurante guardiano
dei valori tradizionali contro un mondo cattivo e corrotto − fu un padrone
carismatico, spesso duro e spietato con i suoi dipendenti, soprattutto dopo
l’amara esperienza dello sciopero del 1941.
Un cattivo datore di lavoro, a detta dei suoi impiegati, “inflessibile e
non sempre motivato nelle sue critiche”,(1) che era solito assumere
disegnatori giovanissimi e inesperti per poterne giustificare i salari da
miseria. Del resto, la gratificazione ‘economica’ più grande doveva essere
rappresentata dall’opportunità che dava loro di poter imparare un mestiere
in uno Studio come il suo.
Un individuo irascibile e dispotico, rigido ed esigente (negli uffici
erano vietati divertimenti, apprezzamenti sessuali, sottintesi maliziosi,(2)
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parolacce, legami tra colleghi, alcolici), abituato a esercitare il controllo
assoluto su tutto e su tutti, e di conseguenza poco incline a concedere
spazio ai suoi collaboratori, e ancor meno a dispensare riconoscimenti
personali per il lavoro svolto. Per questo motivo Ub Iwerks, disegnatore dal
talento eccezionale, socio e amico di Walt, verso la fine degli anni ’20 si
vide costretto a lasciare gli Studios. Per di più, Disney non gli riconobbe
mai la ‘paternità’ di Mickey Mouse, come testimonia il figlio di Iwerks,
Dave:
“E’ abbastanza chiaro, adesso, che Mickey era un personaggio di Ub.
Anche dagli archivi Disney risulta che fu Iwerks a creare Mickey Mouse,
anche se la loro versione è che Walt fosse di fianco a Ub quando lo disegnò
per la prima volta. Tutta la storia del treno, […] non è vera.”(3) E quando
negli anni ’50 Disney ammetterà di non aver mai disegnato Mickey, non
una sola parola a proposito dell’amico di sempre. Nemmeno un grazie.
Un padre-padrone travestito da leader, venerato e temuto dai suoi
dipendenti, una guida da seguire e da non contestare mai. Un uomo pieno
di contraddizioni, il principio e la fine di tutto. Questo era il più celebre
disegnatore di tutti i tempi.
La vision della Disney era Disney stesso: un’azienda fondata su un
modello organizzativo accentrato e paternalista, una macchina
perfettamente efficiente, dove ogni cosa era rimessa all’ insindacabile
giudizio del grande capo Walt: la creatività veniva passata al vaglio dal
comitato dei disegnatori storici dello Studio, ma l’ultima parola,
ovviamente, spettava a lui. E gli stessi principi che governavano l’azienda
erano forme di regolamentazione della creatività. La regola-chiave, seppur
in un contesto di finzione, era il realismo; la magia, per funzionare, non
doveva essere smascherata, in modo che lo spettatore potesse identificarsi
pienamente con la vicenda che stava per seguire.
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Disney esigeva una fedeltà quasi ossessiva alle sue direttive; le
competenze dei singoli venivano di fatto incanalate all’interno di una
struttura molto rigida, per dar vita a quei progetti che in seguito avrebbero
consacrato l’immenso successo della sua azienda.
I grandi film per le famiglie venivano prodotti da una squadra molto
affiatata che tuttavia doveva rispettare una serie di disposizioni
severissime, alle quali era bene attenersi scrupolosamente. E la prima di
queste regole era: niente sindacati. Sì, perché ai suoi occhi i sindacati
erano una forma di sovversione, e in quanto tali assolutamente
inconcepibili. Quando, nel maggio del 1941, i suoi disegnatori avanzarono
la richiesta di una rappresentanza sindacale, sostenendola con lo sciopero,
Disney interpretò il gesto come un tradimento personale e si rifiutò di
trattare con loro, arrivando al punto di ricorrere al crimine organizzato per
rafforzare la propria posizione e stroncare sul nascere ogni forma di
contestazione.
Suo padre gli aveva insegnato che la lealtà era il banco di prova per
misurare il valore delle persone, e lui avrebbe fatto suo questo precetto. I
suoi ‘ragazzi’ − Disney era solito appellare affettuosamente i suoi
collaboratori in questo modo − erano come figli di una grande famiglia, e
disobbedire al pater familias significava commettere un’azione ignobile e
immorale. E i colpevoli andavano puniti. Sempre.
D’altro canto, Disney non fu neppure un uomo d’affari nel senso più
stretto del termine.
Come imprenditore, si distinse per una gestione manageriale
piuttosto fantasiosa, spesso ai limiti dell’irrazionale. Una meticolosità
maniacale e l’insopprimibile bisogno di tentare vie sempre nuove e sempre
più ardite tennero la società in una continua, difficile situazione
d’indebitamento, portandola più volte sull’orlo del fallimento. L’incessante e
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minuziosa ricerca della perfezione tecnica fu sempre uno dei capisaldi
dell’azienda.
Del resto la vera vocazione di Disney fu quella (non rara nel mondo
dello spettacolo dell’epoca) del grande impresario-affarista-creatore. Ciò
che lo distingueva, e ne faceva emergere la figura, erano il fare deciso, la
determinazione con cui perseguiva gli obiettivi prestabiliti. Aveva fiuto e
intraprendenza, che uniti a una buona dose di sicurezza e testardaggine, gli
permisero di creare dal nulla una delle più potenti multinazionali
cinematografiche al mondo. La sua genialità risiedeva nell’inesauribile
capacità di reinvestire nelle idee nuove, di anticipare i tempi, “mutando le
forme della sua presenza ma lasciando accuratamente intatta la sostanza
della sua «immagine»”.(4)
Di fatto “Disney non conosceva l’arte del disegno, non sapeva nulla di
musica, niente di letteratura, niente di niente: ma era un grande
coordinatore”.(5)
Sono parole di Art Babbitt, uno dei più brillanti animatori dello Studio,
ma il suo pensiero esprimeva l’opinione diffusa di collaboratori e
dipendenti: Walt possedeva il ‘dono’ di fare la cosa giusta al momento
giusto. Si racconta che fosse unico nell’ottenere ciò che voleva: la sua forza
di persuasione era pari solo alla sua capacità di convincimento. Sarebbe
forse eccessivo affermare che Disney possedesse un tocco magico, ma di
fatto era così: tutto (o quasi) ciò che intraprendeva, si tramutava in un
successo. La sua immensa risorsa erano proprio le idee: la sua forza
creativa le concepiva, le sviluppava, le rendeva vere, tangibili. Dopotutto
era un gran sognatore, Walt. E trovò nell’animazione il mezzo privilegiato −
l’unico, a suo avviso − attraverso il quale realizzare un progetto ambizioso:
dar vita ai sogni. E ci riuscì. Riuscì a trasformare i sogni, anche se solo per
poche decine di minuti, in un meraviglioso artificio sorprendentemente
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aderente alla realtà.
Non dimentichiamo che Disney era innanzitutto un ‘artista
dell’immaginario’, con una fede incrollabile nel proprio istinto e nelle proprie
capacità, un lavoratore instancabile, disposto a compiere qualsiasi sacrificio
pur di realizzare il progetto che in quel momento aveva preso forma nella
sua mente. E in questo ‘delirio creativo’ tutti dovevano assecondarlo.
Una personalità complessa e controversa, dunque, quella di Walt
Disney. Le biografie ufficiali attenuano, ma non tacciono, gli aspetti più
oscuri della sua vita privata: un uomo pieno di conflitti, instabile e bigotto,
che non riusciva a liberarsi dal doppio vizio del fumo e dell’alcool tanto da
compromettere seriamente la propria salute, un simpatizzante della destra
americana più antisemita e anticomunista che frequentava assiduamente i
raduni del partito nazista americano, uno scrupolosissimo informatore
dell’FBI. Allo stesso modo, si limitano ad accennare i tratti meno conosciuti
del suo carattere. Il profilo che ne emerge è quello, a tinte fosche, di un
uomo tormentato dai dubbi sulle proprie origini, completamente soggiogato
da insicurezze e fragilità, affetto da manie ossessive e comportamenti
fobici, vittima di frequenti e profonde crisi depressive che riusciva a
superare solo con l’aiuto di alcool e psicofarmaci.
Fondamentalmente un uomo-bambino, si rifiutava di crescere al
punto che, divenuto ormai celebre, fece costruire nel parco della sua
tenuta un’autentica ferrovia in miniatura con locomotiva e vagoni, il
Carolwood Pacific, solo per il piacere di indossare la divisa da macchinista,
con tanto di cappello, e girare per la proprietà. Quando la realtà diventava
asfissiante, Walt trovava nel suo trenino un rifugio sicuro, un’ancora di
salvezza alla quale aggrapparsi per superare i momenti difficili.
Il mistero avvolge perfino la sua nascita. Un mistero che non è mai
stato chiarito del tutto, e che probabilmente è destinato a rimanere insoluto
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per sempre. E’ possibile infatti che Walt fosse nato alcuni anni prima del
1901, presumibilmente l’8 gennaio 1898, data che egli trovò sul suo
certificato di nascita al momento dell’arruolamento, e che fosse il frutto di
una relazione extraconiugale.
Secondo alcune ricostruzioni biografiche, la madre naturale sarebbe
stata una certa Isabel Zamora Ascensio, una lavandaia emigrata dal
villaggio di Mojacar, nel sud della Spagna, per cercare fortuna negli Stati
Uniti. Arrivata in California, avrebbe incontrato Elias, il padre di Walt. Alcuni
ipotizzano che l’uomo l’avrebbe portata con sé a Chicago, provvedendo al
mantenimento suo e del bambino, all’insaputa della moglie, dalla quale non
avrebbe potuto divorziare essendo membro autorevole della chiesa
fondamentalista. Altri biografi non escludono un’ipotesi diversa, secondo la
quale per evitare lo scandalo Elias avrebbe adottato il piccolo Walt,
costringendo la moglie ad allevarlo come fosse un loro figlio. Esiste anche
un’altra versione dei fatti, secondo la quale Disney sarebbe nato a Mojacar,
figlio illegittimo di un medico sposato, Gines Carrillo. Così, una volta
arrivata a Chicago, Isabel Zamora avrebbe dato in adozione il figlio ai
coniugi Disney. Ad ogni modo, quella di Walt Disney non fu un’infanzia
felice. Crebbe in un clima di austera severità religiosa, fatto di violenza,
maltrattamenti e tanta solitudine. Questo significò per il piccolo Disney
essere bambino. A furia di prediche e invettive giornaliere contro lo
sfruttamento del proletariato americano da parte di “ebrei ricchi da fare
schifo”,(6) artefici a suo parere di un complotto internazionale e responsabili
di tutti i mali, Elias riuscì ad inculcare al figlio un radicato odio antisemita. I
suoi insegnamenti, più tardi, avrebbero dato i loro frutti.
Anni dopo, l’ansia di ‘provare’ in qualche modo la propria identità e il
terrore di essere stato adottato, spinsero Disney a compiere lunghe
indagini alla ricerca affannosa della vera madre. Ma non riuscì mai a
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trovare le risposte che cercava.
Quale che fosse la verità, Walt avrebbe dovuto convivere per tutta la
vita con queste irresolutezze affettive e psicologiche, trasferendo e
sublimando in un mondo immaginario i suoi conflitti interiori e le sue paure
ancestrali. Alcuni dei film più celebri, Biancaneve, Pinocchio, Dumbo,
Bambi, Cenerentola, hanno per protagonisti eroi vittime di una fragilità
emotiva causata dalla perdita dei genitori, o dalla loro mancanza.
Nel 1938, la morte della madre − o presunta tale − Flora Call,
rappresentò un altro duro colpo. La versione ufficiale del decesso fu quella
di un’asfissia dovuta a un’accidentale fuoriuscita di gas, ma molti indizi
portavano nella direzione del suicidio, ipotesi, questa, che non fu mai del
tutto smentita. Al dolore per la perdita, si aggiunse la rabbia di essere stato
abbandonato.
L’attaccamento quasi filiale di Disney nei confronti di Edgar J. Hoover,
gran capo dell’FBI, risalirebbe proprio a questo periodo. I suoi punti di
riferimento erano crollati, e Walt aveva bisogno di qualcuno che lo aiutasse
a rendere più sopportabile l’insostenibile peso del vivere. E Hoover era lì,
pronto ad ascoltarlo e a dargli conforto. Non senza un secondo fine, come
vedremo nel capitolo successivo.