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dell’intervista). Chi vuole può aggiungere alla fine il proprio nome o
soprannome e l’età.
L’idea è partita dalla constatazione che in italiano, per esprimere il concetto di
omosessuale in modo neutrale, cioè per usare un termine privo di valenze
emotive o indicativo di un giudizio personale, bisogna ricorrere ad un prestito
dall’inglese: gay. Passando velocemente in rassegna i sinonimi italiani più
diffusi che mi venivano spontaneamente in mente, mi sono sorpresa a trovarli
tutti spregiativi, per lo meno nel loro uso più comune. In tedesco, invece, ero
già a conoscenza dell’esistenza di un termine di indubbia origine germanica e
assolutamente neutrale. Questa osservazione ha suscitato in me la curiosità di
scoprire quali altri sinonimi esistono in tedesco, e di esplorare il campo
semantico del mondo non eterosessuale in generale. Ho scoperto che esiste
una parola, onomasiologia, che significa “studio delle diverse attuazioni
lessicali di una stessa idea o immagine all’interno di una o più lingue”. Più o
meno, in versione amatoriale. E poi è nata la domanda: se è vero che la lingua
rispecchia la cultura del popolo che la parla, è probabile che in Germania ci sia
un atteggiamento mentale e sociale più aperto? Una disposizione a
considerare l’omosessualità non come un difetto o un disonore, ma come una
legittima identità sessuale, al pari delle altre?
Tengo qui a precisare che la mia tesi non ha alcuna pretesa di dimostrare
scientificamente la correttezza di una teoria, bensì si limita a raccogliere
riflessioni, esperienze, considerazioni personali, osservazioni, commenti (a
volte anche ironici, ma comunque senza offesa!) di una studentessa curiosa, a
cui piace viaggiare e parlare con la gente, anche se per le informazioni
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tecniche ho cercato di basarmi su fonti autorevoli. Una lista delle fonti è
riportata in coda all’introduzione (Einführung).
È necessaria un’ulteriore, importante precisazione: per brevità e per evitare
ripetizioni, soprattutto al di fuori delle considerazioni prettamente linguistiche,
mi troverò ad usare il termine omosessualità per riferirmi in realtà a tutte le
identità sessuali che si discostano dall’eterosessualità, comprendendo quindi,
oltre all’omosessualità maschile e femminile, anche la bisessualità e la
transessualità. Mi rendo conto che è un uso piuttosto grossolano del termine –
specialmente se si considera che questa è una tesi per una scuola per
interpreti e traduttori! – ma è un’approssimazione estremamente ricorrente
nell’uso quotidiano, sia in tedesco che in italiano, su cui si sorvola perfino
all’interno delle organizzazioni pertinenti, e nella quale spero non si voglia
leggere un intento discriminatorio o un’irrispettosa dimenticanza. Esiste anche
un motivo linguistico per la diffusione di questo uso poco preciso, e cioè la
mancanza di un termine abbastanza consueto da essere largamente
comprensibile – e possibilmente italiano! – che sia capace di comprendere
tutte le identità sessuali non eterosessuali (v. Dentro la comunità, Mutvilla).
Vorrei aggiungere che ho dedicato maggiore spazio all’esplorazione del
campo semantico relativo all’omosessualità maschile, stavolta in senso stretto,
semplicemente perché più ricco e variegato, e non per mancanza di interesse
verso le altre identità sessuali.
A questo punto, introducendo il primo “intervallo linguistico”, ho l’onore di
presentarvi il termine che ha innescato la riflessione di partenza e quindi
ispirato questo viaggio di esplorazione linguistica e culturale:
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schwul
È un aggettivo, usato molto anche nella forma sostantivata (die Schwulen, “i
gay”) e nei composti (Schwulenbewegung, “movimento gay”). Si riferisce
esclusivamente all’omosessualità maschile. Come anticipato, questo termine è
oggi assolutamente neutrale, ed è il più comune nell’uso quotidiano, all’interno
come all’esterno della comunità, adottato anche come autodefinizione ufficiale,
es.: Schwulenverband, “associazione gay”.
Ma non è sempre stato così. Parlando con le persone, ho scoperto che anche
schwul era originariamente un termine offensivo. Ma quando è diventato
neutrale, allora? Naturalmente fenomeni linguistici come questo impiegano
parecchio tempo prima di affermarsi come tendenze principali ed è
praticamente impossibile datarli con precisione. Quel che si può fare, però, è
notare che durante gli anni ottanta questo termine era ancora generalmente
considerato spinto, provocatorio, mentre nel decennio successivo i media
hanno preso maggiore confidenza e lo hanno definitivamente adottato. Ciò
non toglie che molte persone di mezz’età, per esempio, potrebbero ancora
oggi trovarlo scomodo o imbarazzante. Senza contare che alcuni dizionari,
come i Wahrig, si ostinano a definirlo una voce “colloquiale”.
Devo confessare che davanti a queste considerazioni ho temuto che la mia
teoria stesse crollando. Leggendo le ricerche e le riflessioni di alcuni studiosi,
però, ho capito che la graduale perdita nel tempo della connotazione negativa
non faceva che confermare la mia ipotesi. In fin dei conti, la società nel suo
complesso cessa di attribuire una valenza negativa ad una parola
essenzialmente perché cessa di riferirsi alla realtà indicata con un giudizio
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negativo. Questo non significa che un tedesco che oggi avverte l’esigenza di
riferirsi ad un gay in modo offensivo si trovi improvvisamente privo di strumenti
linguistici per farlo. Né che nessun attivista nella storia del movimento gay
abbia mai avanzato proposte per una denominazione dignitosa di questa
identità sessuale (v. homosexuell più avanti in questo capitolo e der
Uranismus in Dizionari, Enciclopedia Meyer 1994). Parlo dell’uso comune della
gente comune.
La traduzione ufficiale di schwul in italiano è gay. Per le mie considerazioni,
polemiche e proposte alternative, rimando al capitolo “Osservazioni
linguistiche”.
L’etimologia di schwul è incerta, sono state avanzate diverse ipotesi, alcune
anche piuttosto fantasiose. Quello su cui gli esperti si sono trovati d’accordo, è
l’esistenza di una parentela semantica, intuibile anche “ad occhio nudo” per
l’evidente somiglianza, con il termine schwül, che indica una condizione
climatica calda, umida ed opprimente, afosa. La correlazione “omosessualità-
calore”, del tutto assente in italiano, almeno per quanto riguarda la mia
sensibilità personale e le mie modeste ricerche, deve essere, o essere stata,
invece piuttosto evidente agli occhi dei popoli di lingua tedesca, tanto da
essere tuttora visibile nell’espressione warmer Bruder (v. Love Parade, Parte
terza). Alcuni dizionari si spingono oltre, indicando per warm da solo, cioè al di
fuori di espressioni idiomatiche, l’accezione eufemistica di “omosessuale”.
All’oscuro di queste informazioni, frutto di approfondimenti posteriori, mi
crogiolo nel mio approccio puramente istintivo all’esplorazione, con
l’entusiasmo di un bambino che entra per la prima volta in un parco giochi di
mille metri quadrati.
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Vado in giro con la mia tabula rasa (che al di fuori del Kathi mondo figurato
assume la forma di un blocco stenografico) e lascio che i madrelingua tedeschi
vi imprimano ciò che più spontaneamente viene loro in mente per riferirsi alla
realtà omosessuale.
Kathi
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A dire il vero, proprio rasa la mia tabula non è: l’indagine, in realtà, è già
cominciata durante il viaggio per raggiungere il centro di Berlino. La mia prima
intervista viene rilasciata infatti alla fermata della metropolitana di
Hermannplatz, dove inizia il mio quartiere di Neukölln, da una ragazza di
quindici anni, Kathi, che introduce al primo posto un sinonimo per gay che
ricorrerà spesso:
die Schwuchtel
Nonostante l’assonanza con schwul, è fortemente spregiativo, verrà segnato
come tale anche da tutti gli altri intervistati, ad eccezione di uno. È un
sostantivo di genere femminile, sebbene non si riferisca necessariamente ad
un omosessuale dall’aspetto o comportamento effeminato. Le interviste che
raccoglierò qui alla Love Parade non sono molte: nove, di cui solo sette
possono dirsi effettivamente valide ai fini dell’indagine linguistica, nel senso
che produrranno liste di sinonimi. Nel complesso, quindi, non si possono certo
considerare un campione rappresentativo della società tedesca. Ma a
giudicare dall’incidenza con cui comparirà Schwuchtel, e dalla sua postazione
di solito vicina alle vette della “classifica”, deve essere un termine di uso
piuttosto comune. Anche i dizionari lo riportano, precisando che è spregiativo.
Come proposta di traduzione, avanzo uno dei termini più importanti in italiano:
frocio. I requisiti “volgare”, “spregiativo” e “di uso corrente” mi sembrano
soddisfatti in pieno. L’etimologia rimane incerta. Gli sviluppi più recenti sono
invece più facilmente rintracciabili. Li spiega Giovanni Dall’Orto:
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Ad ogni modo è certo che verso la metà del secolo scorso [ottocento] frocio
veniva usato genericamente contro tutti gli stranieri. E siccome il razzismo
è quello che è, non tardò a manifestarsi un ulteriore slittamento di
significato. Dopo l’attestazione appena riportata, frocio entrò infatti nella
crisalide del gergo della malavita, dove fu ulteriormente rielaborato. Non ho
ovviamente trovato testimonianze relative a questa evoluzione sotterranea,
ma è facile intuire che durante questa fase frocio assunse dapprima il
significato di “uomo spregevole” in genere (spregevole come uno straniero,
evidentemente), “infame”, “persona che merita disprezzo”. Infine, nella
seconda metà del secolo (cioè nello stesso periodo in cui anche finocchio
subiva un’evoluzione analoga) il significato di “uomo infame” andò
restringendosi a un solo tipo di persone: l’uomo spregevole per eccellenza:
il sodomita passivo. […] Di qui al significato odierno (“omosessuale” in
generale) il passo è ormai breve e scontato.
Un difetto è invece il regionalismo, anche lo Zingarelli dice che frocio è una
voce del dialetto romanesco, diffusa nell’Italia centrale. Un aiuto viene dalla
letteratura neorealista, e anche dall’attuale massiccia presenza di attori e
comici romani nel cinema e nelle reti televisive nazionali: insieme potrebbero
aver assicurato, se non un impiego attivo del termine, almeno un terreno di
comprensione geograficamente piuttosto esteso. Anche Dall’Orto mi rassicura:
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Oggi frocio è diffuso in tutta Italia: sebbene al Nord gli sia sovente preferito
finocchio e al Sud prevalga spesso ricchione, è d'uso interregionale. Come
è ovvio la sua “roccaforte” è nel Centro Italia e a Roma.
Proseguendo nello scorrere la lista di Kathi, approdiamo all’omosessualità
femminile con
lesbisch (die Lesbe, die Lesbierin)
È un aggettivo, il più usato, sostanzialmente neutrale. Come in italiano, il
riferimento classico non dà al termine un sapore particolarmente antiquato,
poetico o intellettuale, passa quasi inosservato. È interessante notare che la
forma sostantivale oggi più diffusa in tedesco, die Lesbe, fino agli anni settanta
era considerata provocatoria, e si preferiva l’alternativa die Lesbierin. In
italiano aggettivo e sostantivo hanno forma identica, lesbica, unica variante è
la riduzione gergale lesbo.
der Transvestit
Unica comparsa di questo termine nelle mie interviste. È di origine straniera, e
infatti Kathi ha avuto qualche incertezza ortografica: l’ha scritto come lo
pronuncia. Il sostantivo indica una persona geneticamente di un sesso che si
veste e si comporta come una dell’altro, in generale, ma il referente più
comune è l’uomo che imita la donna. La traduzione non presenta particolari
difficoltà: la versione nostrana del termine, travestito, mi sembra coincida
ampiamente, con l’aggiunta forse di un riferimento più trasparente
all’abbigliamento.
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homosexuell
Aggettivo, detto di persone con inclinazione sessuale verso lo stesso sesso.
Nella forma sostantivata si riferisce per lo più agli uomini, der Homosexuelle,
come il suo equivalente italiano. Questo composto ibrido di greco (homós:
“uguale, simile”) e latino (sexualis: “concernente il sesso”) è stato coniato nel
1869 dal militante gay austriaco di origine ungherese Károly Mária Kertbeny
(Karl Maria Benkert). Per la sua neutralità, capacità di comprendere sia gay
che lesbiche, e trasparenza di significato, almeno per chi ha un minimo di
dimestichezza con le lingue classiche, il termine è stato inizialmente adottato
dal mondo scientifico internazionale e in particolare psichiatrico, prima di
trovare larghissimo uso nella stampa di molte lingue europee. Questo percorso
ha lasciato un’eredità alla parola, nella forma di una connotazione per così dire
“clinica”. Nel linguaggio quotidiano, in tedesco, si preferiscono infatti i termini
schwul e lesbisch, a meno che il locutore non voglia assumere un
atteggiamento distanziato, da osservatore, nei confronti dell’argomento. Come
mai questa parola sia venuta in mente a Kathie, si potrebbe spiegare con il
fatto che era contenuta nella mia domanda. Se d’altro canto comparirà
raramente nelle altre liste, è probabilmente perché gli intervistati hanno
pensato che fosse sottintesa. La traduzione con il termine italiano
corrispondente, omosessuale, importato solo all’inizio del novecento attraverso
l’inglese secondo lo Zingarelli, alla fine ottocento direttamente dal tedesco
secondo Dall’Orto, mi pare quadrare senza problemi.
E ora arriviamo ad una parola che è stata scritta con l’accompagnamento di
grasse risate nel gruppo di amici di Kathi, e che ha suscitato l’ilarità anche di
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tutti i curiosi che hanno voluto dare un’occhiata al mio blocco
successivamente:
der Hinterlader
Si tratta di un eufemismo particolarmente colorito, e alquanto volgare, di cui
non ho trovato traccia sui dizionari. Mi sono fatta l’idea che appartenga al
gergo ristretto sviluppato dal gruppo di amici di Kathi. Anche senza sapere il
significato preciso, conoscendo i termini che lo compongono (hinter “dietro” e
lader da laden: “caricare”), l’allusione al ruolo passivo dell’uomo nel rapporto
omosessuale era chiara. Avevo pensato ad un concetto tipo “montacarichi”,
ma poi ho scoperto che il significato letterale è “arma portatile a retrocarica”.
Questo spiega l’ilarità, ma complica notevolmente il processo di traduzione! La
proposta che mi sembra calzare meglio finora è culattone. Il ruolo passivo è
chiaro, come grado di volgarità penso corrisponda più o meno a der
Hinterlader. Peccato che in italiano nell’uso comune sfugga un’altrimenti
fortuita connessione con il termine culatta, il cui primo significato, riportando la
definizione dello Zingarelli 2002, è: “parte posteriore estrema della bocca da
fuoco che contiene la carica di lancio” e inoltre, culatta mobile: “parte dell’arma
portatile che porta il congegno di caricamento, otturazione e sparo”. La
vicinanza dei concetti è innegabile. Semplice coincidenza o sorprendente
parallelismo nell’uso eufemistico del gergo militare? Lo Zingarelli taglia corto e
smorza ogni entusiasmo: culattone risale a culatta “nel senso popolare di
deretano”.