7
La tecnica, basata sul confronto fra scenari ipotetici, si presenta
come altamente flessibile ed adatta per affrontare aspetti di beni e di servizi
di tipo culturali, caratterizzati da intangibilità ed eterogeneità. Come si
accennava in precedenza la Valutazione Contingente, che ha avuto le sue
prime applicazioni nell’ambito dell’economia ambientale, è in fase di
grande espansione anche per la valutazione dei beni culturali. Fra i nostri
primi obiettivi è naturalmente quello di illustrare in dettagli quali siano i
pregi di questo metodo che lo rendono cosi attraente rispetto ai suoi diretti
concorrenti.
In sintesi possiamo dire che, a fronte di una complessità assai
maggiore tanto di realizzazione sul campo che di analisi dei dati ex-post, la
Valutazione Contingente consente al ricercatore di indagare con notevoli
gradi di libertà generando basi di dati spesso largamente multi-
dimensionali e ricche di informazioni.
L’accrescimento dell’informazione disponibile per l’analisi
costituisce solo il primo dei benefici ottenibili, in secondo luogo, ma non
meno importante, è il valore cognitivo del metodo d’intervista basato sulla
comparazione di scenari. Facendo leva su una metodologia consolidata e
largamente testata e documentata, il ricercatore ha la possibilità di
disegnare questionari che consentono di “estrarre” informazioni superando
alcune tradizionali ritrosie dei soggetti intervistati che costituiscono un
fattore di distorsione non trascurabile per molti altri metodi.
Queste considerazioni sono particolarmente importanti allorché il
metodo è applicato, come sovente accade, nella stima della disponibilità a
pagare (DAP): la misura della DAP è un indicatore importante se si vuole
stabilire un rapporto tra costo di produzione e valore attribuito come
8
beneficio alla collettività. Una stima il più possibile precisa di questa
grandezza, che controlli una serie ampia e variegata di fattori socio-
economici e contenga al minimo la distorsione dovuta alle risposte
“strategiche” degli intervistati è chiaramente cruciale per l’impostazione di
ogni concreta politica economica razionale.
Lo studio è introdotto da un’ampia ed articolata illustrazione del
concetto e delle principali caratteristiche di quelli che verranno in seguito
definiti beni culturali ed attività culturali (cap. I). Dopo una veloce
carrellata sulle origini del valore di questi beni e sulle principali tecniche,
dirette ed indirette, mutuate per buona parte dal marketing e dall’economia
ambientale, impiegate per cercare di misurarlo in tutte le sue differenti
componenti (cap. II), il focus si concentra sul metodo della Valutazione
Contingente che viene descritto prima nei suoi aspetti più teorici, lasciando
ampio spazio allo studio dei vari possibili formati d’intervista esistenti
(modelli a scelta aperta, a scelta dicotomica, etc.) e delle distorsioni (cap.
III) e quindi nelle sue modalità di realizzazione del questionario all’interno
del quarto capitolo.
Conclude la tesi l’analisi dei risultati del questionario sulle attività
culturali proposto nel corso del mese di Giugno agli studenti della Facoltà
di Economia dell’Università di Roma Tor Vergata.
9
CAPITOLO 1: TEORIA DEL VALORE E BENI CULTURALI.
1.1 Beni culturali e beni pubblici: analogie e differenze.
Il concetto di bene culturale, così come quello di attività culturale,
non è chiaro; non è facile trovare una definizione che metta gli studiosi
d’accordo sul piano economico e giuridico.
A livello nazionale, non esiste una definizione “ufficiale” definitiva,
consegnataci dal legislatore, di bene culturale; in Giurisprudenza italiana,
in primis, la legge Nasi del 1902, modificata dalla legge Rosati del 1909,
a sua volta modificata nel 1922 e nel 1927, che sancì moderni meccanismi
di protezione per i beni culturali. Nel 1939 le varie disposizioni furono
riorganizzate nella legge 1497, che costituisce la legislazione fondamentale
in Italia sulla tutela del patrimonio artistico e culturale. In essa si fa
riferimento alle "cose d'interesse artistico e storico” intese in senso fisico,
ignorando importanti concetti come “centro storico” e “ambiente”.
La Commissione “Franceschini” del 1966, istituita per migliorare la
legge 1497/39, tenne in conto i sopraccennati concetti di “centro storico”
ed “ambiente”, rivolse inoltre particolare attenzione agli aspetti
organizzativi e di gestione dei beni culturali, ma senza fare distinzione tra i
beni culturali e le attività culturali. Nel testo aggiornato secondo i lavori
della Commissione è presente un elenco ordinato di caratteristiche che
servono per qualificare i beni culturali (“…quel bene che costituisce
testimonianza materiale avente valore di civiltà”) attraverso l’uso di
diverse fonti quali, ad esempio, la Carta di Atene e quella di Venezia o le
raccomandazioni di vari organismi a livello internazionale.
10
Più recentemente, anche in occasione della recente legge di riforma
"Disposizioni sui beni culturali", dell'8 ottobre 1997 n. 352, il problema
della definizione e della materialità non è stato pienamente risolto.
Nemmeno l’ultimo decreto legge del 31 marzo 1998, numero 112, il cui
Capo V è dedicato a "Beni e attività culturali", non è rimasto immune da
polemiche e critiche, per aver realizzato una distinzione poco chiara tra
beni ed attività culturali, negando l’unitarietà dei beni culturali (a titolo di
esempio, è sufficiente ricordare la sibillina definizione contenuta
all’interno dello stesso Capo V – “… le attività culturali sono quelle
rivolte a formare e diffondere espressioni della cultura e dell'arte”).
Secondo quanto stabilito dall’articolo 148 dello stesso decreto legge
n. 112/98, i beni culturali sono definiti come “quelli che compongono il
patrimonio artistico, storico, monumentale, archeologico […] che
costituiscono testimonianza avente valore di civiltà, così individuati in
base alla legge”. Questa definizione è estremamente ampia ed unisce, nella
stessa formulazione, le principali categorie finora individuate di beni
culturali ed altre residuali.
Le attività culturali nell’articolo 148 del decreto legge sopra citato
sono definite come “…quelle attività rivolte a formare e diffondere
espressioni della cultura e dell’arte”. Lo stesso articolo nei commi
successivi prevede tre ulteriori definizioni distinte di attività pubbliche
relative ai beni culturali: la tutela, di cui alla lett. c), la gestione, di cui alla
lett. d) e la valorizzazione, di cui alla lett. e). Inoltre, il legislatore, per
definire le attività culturali, introduce alla lettera g) il concetto di
“promozione”, in riferimento ad “ogni attività diretta a suscitare ed a
sostenere le attività culturali”. Crea così una forte confusione operativa ed
11
una miriade di sottodefinizioni che si intersecano l’una con l’altra. A titolo
di esempio, l’art. 152 relativo alla valorizzazione dei beni culturali, parla
anche di tutela dei medesimi, come se i due aspetti fossero uniti (“il
miglioramento della conservazione fisica dei beni e della loro sicurezza,
integrità e valore”).
Questa concezione si rispecchia nell’attuale denominazione della
principale istituzione italiana deputata alle politica culturali: “Ministero per
Beni e dell’Attività culturali”.
L'aver eliminato, nel testo delle due ultime leggi (1997 e 1998), il
riferimento alla “materialità” della testimonianza avente valore di civiltà
dovrebbe dimostrare l’equiparazione tra attività culturali e beni culturali.
L’eliminazione dell’aggettivo “materiale”, dal testo realizzato dalla
Commissione Franceschini, ci da la possibilità di realizzare una distinzione
basata sul binomio beni culturali/materialità ed attività culturali/non
materialità (è bene ricordare che parte della Giurisprudenza, non
conformandosi a quanto sopra detto, ammette anche la possibilità che
esistano dei beni culturali non materiali, distinti dalle attività culturali - ad
esempio, le opere d’ingegno di carattere creativo che appartengono alla
letteratura, alla musica, alle arti figurative, etc.).
Da queste sintetiche definizioni giuridiche si può cominciare a
cogliere l’aspetto dinamico, che differenzia le attività culturali dai beni
culturali, e allarga in prospettiva l’ambito dell’intervento pubblico anche a
oggetti attualmente non riconducibili alle categorie di beni elencati nelle
leggi precedenti.
12
Nel Decreto Legge 112/98, però, è contenuta una distinzione tra
beni ed attività culturali che potrebbe presentarsi inaspettata dopo le
discussioni degli ultimi due decenni. Infatti, all’interno del Decreto, le
attività culturali potrebbero essere considerate non come beni in sé, ma
piuttosto come attività di strumento e supporto “della cultura e dell'arte”
(art. 148, lett. f).
Dal punto di vista economico, i pareri discordi sono molteplici e
solo una parte degli studiosi o accetta le definizioni distinte di beni ed
attività culturali contenute nelle leggi, al fine di realizzare una specifica
analisi economica, o con metodo inverso, partendo dall’analisi economica
perviene ad un analogo punto d’arrivo.
I beni culturali (ad esempio, si pensi ai musei, alle aree
archeologiche e alle piazze, etc.) pongono all’economista soprattutto il
problema dell’allocazione delle risorse, spesso pubbliche, per la
conservazione, la tutela e la valorizzazione del patrimonio.
L’attività culturale (una manifestazione teatrale, un concerto
musicale, una mostra, etc.) pone ovviamente problemi diversi che
concernono soprattutto le condizioni per una gestione profittevole.
Pur avendo i beni e le attività culturali caratteristiche economiche
comuni tali da giustificare l’appartenenza di entrambe ad una comune
branca di studio dell’economia: è bene ricordare che gli economisti si sono
occupati soprattutto delle attività culturali.
Come abbiamo già sopra accennato, in tema di beni culturali è
difficile trovare una definizione univoca che metta d’accordo tutti gli
13
studiosi, forse, anche a causa delle tante analogie (ma anche differenze)
esistenti con i beni pubblici. Nella teoria economica, questi ultimi
dovrebbero essere caratterizzati da “non rivalità nel consumo” e da
“impossibilità d’esclusione”. Potremmo pensare a beni pubblici come a
quei beni ai quali gli individui possono anche attribuire un valore ma che
comunque non possono essere prodotti ed offerti sul mercato in maniera
efficiente senza che sorgano dei problemi circa l’attribuzione di un prezzo
di riferimento. Ci troviamo in presenza dei cosiddetti “fallimenti del
mercato”, situazioni in cui il mercato e il sistema dei prezzi non riflettono
l’impatto prodotto da un bene sul benessere individuale Partendo dagli
studi di Samuelson e facendo riferimento al grafico sotto riportato,
possiamo ricostruire come la teoria economica si propone di fissare il
livello di provvigione efficiente dei beni pubblici.
B
RMT
xy
RMS
B
X
A
RMS
A
X
O X
La linea RMS
A
X
rappresenta la curva di domanda dell’individuo A per
ottenere il bene X. Alla stessa maniera anche RMS
B
X
rappresenta la curva
di “domanda” del bene X ma da parte dell’individuo B: quindi, la domanda
totale dei beni pubblici è pari alla somma “verticale” delle diverse
14
domande individuali, perché tutti gli interessati usufruiscono
simultaneamente e nella stessa quantità degli stessi beni. La curva di
offerta, invece, è rappresentata dalla curva dei costi marginali RMT
XY
: il
livello di provvigione efficiente viene raggiunto in corrispondenza del
punto X
MAX
, dove i benefici marginali sociali ed i costi marginali di
produzione si uguagliano. In corrispondenza di questo punto, gli individui
consumano la stessa quantità del bene X, ottenendo benefici distinti di
consumo. Il beneficio di A corrisponde a OT
A
, mentre quello di B a OT
B
(nel caso dei beni privati, i benefici marginali sono uguali, a fronte di
consumi differenti).
Comunque, sono pochi i casi che soddisfano le due condizioni
sopraccitate (ad esempio, la difesa nazionale, la conservazione del
patrimonio ambientale o i fari): al contrario, molti beni possiedono l’una o
l’altra proprietà, in gradi differenti: è il caso dei beni pubblici misti. Nella
figura, sono riportati diversi casi misti:
DESIDERAB.
D’ESCLUSIONE
.BENI PRIV. FORNITI DAL S. PUBBLICO
. AUTOSTR. CONGESTIONATA
.VIGILI DEL FUOCO
.DIF. NAZIONALE . FARO
15
Come potremmo, quindi, definire i beni culturali? Sono dei beni
pubblici? Robbins (1973) sostiene che “gli effetti che derivano…dalla
conservazione del patrimonio culturale non sono limitati a coloro che sono
disposti a pagare per goderne, ma si diffondono a beneficio di strati molto
più ampi della collettività, così come accade per la Sanità…”, così, in
questa maniera, sottolineiamo la necessità dell’intervento dello Stato a
causa dell’esistenza dei cosiddetti “fallimenti del mercato”, ovvero della
non esistenza oggettiva delle condizioni che consentono al mercato
l’efficiente allocazione delle risorse.
Da questa definizione si intuisce il concetto di esternalità positiva.
Quest’ultima si verifica quando il comportamento di un soggetto aumenta
il benessere degli altri individui coinvolti (ad esempio, il fatto che una
persona decida un giorno di lasciare la propria automobile e di prendere
l’autobus, determina differenti esternalità positive: la riduzione
dell’inquinamento e la diminuzione del traffico, che, al contrario, sono
esternalità negative).
Nel caso dell’arte e della cultura, possono riferirsi all’interazione tra
i comportamenti individuali nello stesso periodo di tempo: ad esempio, la
tutela di un bene d’arte di proprietà privata (un edificio storico affacciato
su una piazza) può arrecare utilità, oltre che al proprietario, anche all’intera
società. In questo caso le decisioni relative alla conservazione, tutela e
valorizzazione del palazzo non sono efficienti, poiché effettuate sulla base
della sola valutazione di costi e di benefici privati, mentre la soluzione
ottimale può essere raggiunta con un sussidio pubblico.
16
L’esternalità può operare anche su periodi di tempo diversi. Poiché
l’arte costituisce un patrimonio delle generazioni future, ignorare questo
aspetto può condurre alla perdita di alcune espressioni artistiche, con un
danno per le generazioni future superiore ai benefici per la generazione
corrente. In altri termini, mentre la generazione corrente non intende
esercitare l’opzione nella produzione, nel consumo, etc., lo Stato può
garantire l’esistenza alle nuove generazioni
1
.
A questo punto per procedere nell’analisi, dobbiamo tornare alla
discussione circa la differenza esistente tra la natura delle manifestazione
artistiche dal vivo e dei beni culturali.
Le manifestazioni artistiche, fortemente caldeggiate da Adam Smith
nella “Ricchezza delle Nazioni” (1776), perché in grado di allontanare la
malinconia e l’umor tetro, infatti, non sono sicuramente caratterizzate
dall’impossibilità d’esclusione: l’individuo non deve essere ingannato dalla
realizzazione, da parte governo, dei grandi eventi nelle piazze (ad
esempio, il concerto di Alanis Morisette a Piazza del Popolo nel 2003, il
concerto di Sting previsto per il 11/6/2004 sempre nella stessa piazza della
Capitale, etc.), perché la gratuità dell’evento stesso non è la regola, bensì
una scelta a priori dell’amministrazione pubblica, unica disposta a
finanziare queste manifestazioni, cosi evitando che il costo ricada
direttamente sul cittadino. Quindi, le manifestazioni artistiche non
possono essere considerate come beni pubblici, ma come meritori. L’unica
eccezione è il caso degli spettacoli realizzati durante le sagre, perché la
fonte del finanziamento è data dalla contribuzione volontaria dei cittadini.
1
Peacock A., “Welfare Economics and Public Subsides in the Arts”, in “Manchester School of
Economics and Social Studies”, vol. 37, 1969, pagg. 323-335
17
I beni culturali ci spingono a fare delle ulteriori distinzioni. Il museo
o qualsiasi sito archeologico per la cui visita è necessario il pagamento di
un biglietto, non hanno certamente natura di bene pubblico, rendendoci
conto che il principio d’esclusione vige sia in termini tecnici sia economici.
E’ anche importante ricordare che il bene culturale può anche essere di
proprietà privata (ad esempio, gli appartamenti dei palazzi che si
affacciano su una qualsiasi piazza storica): tuttavia, spesso, l’onere di
un’accurata conservazione dei loro prospetti è di natura pubblica non solo
per via delle esternalità esistenti sia dal lato della produzione che del
consumo, ma anche in termini di unicità del bene architettonico, oggetto di
studio (a titolo di esempio, la “casa Batllò” dell’architetto catalano Antoni
Gaudì a Barcellona).
In sintesi, non tutti i beni culturali hanno le caratteristiche del bene
pubblico, anche se in Italia a livello territoriale esistano varie eccezioni che
giustificano l’intervento pubblico che si concretizza sia con azioni dirette
sia attraverso contributi.
1.1.1 Non-rivalità nel consumo.
L’impossibilità di attuare un razionamento tramite il sistema dei
prezzi implica che il bene, se deve essere fornito, debba esserlo dallo Stato
a causa della riluttanza degli individui a contribuire volontariamente al
finanziamento della fornitura di questi beni (free rider). L’attribuzione del
potere di imposizione allo Stato ha insita la possibilità di aumentare il
benessere di tutti (ma anche quello di aumentare il benessere di qualcuno a
spese di quello degli altri), ecco perché gli individui devono essere
costretti, mediante la tassazione, al finanziare questo tipo di beni.
18
1.1.2 Impossibilità d’esclusione.
La seconda proprietà che caratterizza un bene pubblico è che non è
desiderabile escludere un qualsiasi individuo: il consumo di un individuo
non sottrae nulla alla quantità disponibile che può essere consumata dagli
altri. Si dice che il costo marginale di fornire il bene a un individuo
addizionale è zero. E’ importante, inoltre, distinguere tra il costo marginale
di produzione del bene e il costo marginale della fruizione del bene da
parte di un individuo addizionale. Inoltre, mentre i costi d’esclusione per i
beni privati sono relativamente piccoli, possono essere grandi (o
addirittura proibitivi) per alcuni beni forniti su una base pubblica.
1.1.3 I beni culturali come beni meritori.
Uno degli argomenti più ampi della teoria dell’economia culturale,
ma anche dotato di minor potere esplicativo, è dato dalla convinzione che
la cultura (e le attività artistiche) sia un bene in sé: non è possibile, ad
esempio, individuare l’esternalità positiva del consumo individuale di
spettacoli teatrali e di musica di alto valore artistico. In questi casi, la
giustificazione dell’intervento pubblico non poggia sull’esistenza delle
esternalità quanto su di un giudizio sulle qualità e sui benefici prodotti dai
beni domandati. Tale giudizio discende, a sua volta, da due contrapposti
schemi analitici generali. Il primo schema, quello “cooperativo”, motiva
l’esistenza di beni meritori sulla base delle informazioni imperfette che
generano le scelte irrazionali degli individui, mentre lo schema
“paternalistico” sostituisce la razionalità dello stato alla volontà e ai
19
desideri dei singoli cittadini: lo Stato può imporre una sovranità limitata al
consumatore o al produttore, proprio come il padre che non lascia al figlio
la libertà di decisione su certi consumi (Lo Stato decide che il
consumatore non è “maturo” per potere scegliere da solo
2
). Spesso si
giustifica il bene meritorio solo sulla base dell’esistenza della debolezza
delle volontà, e non anche sulle imperfezioni delle informazioni occorrenti
per la scelta: assumendo queste condizioni, la giustificazione
dell’intervento pubblico viene messa in discussione perché “…va da sé che
gli individui sono liberi di farsi legare (dalle leggi) per legarsi (con cinture
di sicurezza) o di proteggere i loro valori di fondo contro quelli
superficiali…”
3
. I problemi aumentano se le restrizioni sono imposte agli
individui contro le loro volontà, mentre, invece, queste restrizioni non
dovrebbero ridurre le libertà di scelta del consumatore. Di conseguenza,
l’offerta dei beni meritori dovrebbe avvenire in termini di concorrenza tra
la sfera pubblica e quella privata.
Inoltre, con riferimento ai beni culturali intesi come meritori, un
giudizio (di valore) piuttosto frequente è quello relativo al rapporto con le
future generazioni, che evidentemente non possono influire nel
determinare le scelte sociali correnti, (ma non dobbiamo sottovalutare
l’importanza dei soggetti presenti nel futuro), fermo restando l’obbligo di
essere sempre imparziali, perché nessuno ha diritto di avvantaggiare se
stesso danneggiando gli altri. Contrariamente a quanto detto
immediatamente sopra, Parfit
4
sostiene che l’individuo preferisce il
benessere presente a quello futuro. Per queste ragioni, secondo l’opinione
2
Il consumatore non riesce ad adeguarsi alla continua modifica del contesto di scelta, caratterizzato da
un sempre maggiore tempo libero dovuto al progresso delle tecniche.
3
Elster J., “Ulisse e le Sirene, Indagine sulla razionalità e l’irrazionalità”, Il Mulino, Bologna (1979).
4
Parfit D., “Ragione e Persone”, Il Saggiatore, Milano (1989).
20
di Buchanan (1990), occorre vincolare costituzionalmente le scelte della
generazione presente.
Come abbiamo già riferito, i beni meritori possono anche essere
identificati sulla base dello schema “cooperativo” anche con riferimento
all’insufficienza di informazioni relativamente ai bisogni futuri: in questo
modo, possiamo identificare tre distinte questioni.
La prima prende in considerazione la possibilità che gli individui
preferiscano delegare le proprie scelte a strutture specializzate che
facilmente possono acquisire le informazioni necessarie per realizzare il
servizio o il bene richiesto. I costi saranno coperti attraverso l’imposizione
fiscale dei beneficiari dei beni o dei servizi (ad esempio, l’istruzione).
La seconda questione, sempre relativa all’insufficienza di
informazioni, può collegarsi a quei beni per i quali non è possibile
stabilirne l’efficacia in merito ad un dato bisogno. I costi elevati per
acquisire le informazioni da parte dei singoli appaiono per alcuni
insostenibili, così non permettendo l’eliminazione delle carenze
informative esistenti (ad esempio, le scelte delle tecniche di restauro di
importanti monumenti).
L’ultima questione riguarda i beni superiori (tutti quei beni che
aumentano l’intensità delle utilità), come, ad esempio, la cultura e l’arte: si
sostiene che il loro pieno apprezzamento sia possibile solo attraverso un
consumo prolungato e, logicamente, una preparazione adeguata (la
formazione culturale non implica spostamento delle preferenze ma il loro
ampliamento). A riguardo, Mill argomenta che, chi raggiunge questi livelli
non è detto che sia più felice di chi rimane a livelli inferiori di formazione
culturale, tuttavia un giudizio di valore gli impone di preferire uno stadio
di superiore acculturazione. L’autore ritiene che è meglio essere “un