2
viene quindi a configurare, nel XIII sec., una prima, embrionale fisionomia del
Parlamento inglese, nel quale troveranno accesso anche i Cavalieri, ossia i
rappresentanti delle varie Contee del regno, e successivamente, a partire dal 1265, i
rappresentanti delle Città e dei Borghi.
3
Solamente nel XV secolo però si arriverà alla
definizione di una struttura stabile che avrà, come principale elemento di novità, la
suddivisione del Parlamento in due distinte Camere,
4
con una divisione verticale delle
classi sociali; nella Camera dei Lords ( o Camera alta ) siedono i componenti dell’alta
nobiltà laica ed ecclesiastica: i grandi proprietari terrieri, i baroni “ majores” e gli alti
prelati; nella Camera dei Comuni
5
( o Camera bassa ) sono invece compresi i piccoli
proprietari terrieri, gli appartenenti alla piccola e media nobiltà ( laica ed
ecclesiastica) oltre ai già menzionati rappresentanti delle Contee, delle Città e dei
Borghi. Il ‘400 segnerà l’inizio di un periodo, che si protrarrà anche nel secolo
successivo, in cui il Parlamento inglese rafforzerà la propria posizione e, di
conseguenza, il proprio prestigio nel sistema istituzionale. Esso verrà ad assumere
sempre maggior rilevanza nel campo della produzione normativa, tanto che la legge
viene appunto definita come “ legge del Parlamento “; non si tratta però di una
prerogativa assoluta, in quanto resta attribuito al re il diritto di “ sanzione “, che si
concreta nella facoltà di approvare o respingere la legge proposta; in questo modo
l’esercizio del potere legislativo si fonda sulla compartecipazione dei due principali
3
I Cavalieri venivano eletti su base censitaria dalle Contee; ogni Contea poteva inviare in Parlamento da due a cinque
membri. I rappresentanti delle Città e dei Borghi venivano invece eletti tra tutti coloro i quali risultassero iscritti alle
corporazioni di arti e mestieri ( le “ gilde “ ). Cfr. C. Mortati, Le forme di governo, Padova, 1973, pag. 98.
4
Il bicameralismo rappresenta il principale segno distintivo dell’istituzione parlamentare inglese di allora rispetto a
quelle del resto d’Europa, caratterizzate da un’unica Assemblea rappresentativa dei tre “ Stati “ sociali: nobiltà, clero,
borghesia.
5
La denominazione di “Camera dei Comuni” trae origine dalle Città, ivi rappresentate, che venivano definite altresì
“Comunità organizzate”.
3
organi dello Stato.
6
L’atto legislativo, alla stregua di quanto si è appena detto, deve
quindi considerarsi promanazione di un organo complesso, identificabile nella
formula “ il Re nel Parlamento “, che rappresenta, sotto il profilo costituzionale,
un’autentica novità nel panorama europeo.
7
Ma l’affermazione delle prerogative
parlamentari in campo legislativo non si esaurisce solo nella fase di merito, ossia di
deliberazione, ma anche, e soprattutto, nella fase dell’iniziativa, che il Parlamento
sottrae progressivamente alla Corona; “ inizialmente tale potere d’impulso veniva
definito petizione, termine col quale si indicava una preghiera che il Parlamento
rivolgeva al monarca perché approvasse una determinata legge, ma successivamente
prevale il termine di mozione, più confacente alla nuova dignità del Parlamento ed al
suo diritto di stabilire le leggi. “.
8
Abbiamo già parlato delle prerogative parlamentari
in campo finanziario, vero fondamento storico del Parlamento; a tale riguardo occorre
sottolineare che il XIV secolo segna l’ascesa della borghesia, quindi dei ceti
produttivi, motore economico della società. Lo sviluppo di una coscienza di classe
borghese si ripercuoterà in modo decisivo non solo sull’assetto economico
dell’Inghilterra di allora, ma anche su quello politico. La forza economica di questa
classe, con relativa grande disponibilità di risorse finanziarie e, quindi, di capacità
contributive, spingerà la Corona a rivolgersi alla borghesia per far fronte alle spese
6
Lo strumento della sanzione regia, rappresentando un veto assoluto, conferisce al sovrano una sorta di ruolo di terza
camera; tale configurazione non permette di identificare il modello istituzionale inglese come una vera e propria
monarchia assoluta, nella quale il re è “ legibus solutus “; si tratta piuttosto di un assetto transitorio, una monarchia
limitata dai poteri del Parlamento, che si evolverà successivamente, attraverso varie fasi storiche, in una compiuta
monarchia costituzionale che implicherà la separazione del potere legislativo e del potere esecutivo. Ciò che qui
interessa comunque mettere in risalto è il fatto che in Inghilterra non si sono registrate le esperienze assolutistiche
tipiche dell’Europa continentale ( in primis della Francia prerivoluzionaria ) grazie al ruolo che il Parlamento, con
alterne vicende, è sempre riuscito a mantenere.
7
Si avrà modo di meglio specificare il concetto di “ Re nel Parlamento “ nel paragrafo successivo, in particolare allorché
si esamineranno le teorie della Costituzione e della sovranità.
8
Cfr. C. Mortati, Le forme di governo, cit. pag. 99.
4
sempre più gravi che il regno doveva sostenere; ciò comporterà l’ingresso in
Parlamento dei rappresentanti di questo nuovo e ricco corpo sociale che determinerà
un sensibile aumento del peso politico della Camera dei Comuni, nella quale trovano
espressione le proprie istanze.
9
In particolare i Comuni ottengono, progressivamente,
il diritto di precedenza per ciò che attiene all’esame delle richieste tributarie, fino a
conseguire il potere assoluto di iniziativa in materia finanziaria. Queste vicende
istituzionali testimoniano l’importanza di tale periodo soprattutto se esaminato
proiettando gli eventi di allora alla situazione istituzionale contemporanea; vale a dire
che il XV sec. vede l’origine di procedure parlamentari che si andranno man mano
evolvendo fino a diventare i pilastri delle forme di governo parlamentare; è il caso
dell’” impeachment “, ossia della possibilità, da parte del Parlamento, di poter
accusare e giudicare i membri del “ Consiglio privato “ della Corona limitatamente ai
casi di alto tradimento; si introduce in questo modo il principio della responsabilità
penale, seppur limitata, dei membri del suddetto Consiglio nei confronti del
Parlamento, antesignana della responsabilità politica e del rapporto fiduciario tra
potere legislativo ed esecutivo. E’ da notare che l’evoluzione del ruolo parlamentare
qui descritta non si afferma attraverso disposizioni legislative, ma si consolida
mediante norme consuetudinarie, la cosiddetta “ Common Law “, ossia quel corpo di
norme che, tramandate dalla tradizione, costituiscono ancora oggi la base
9
L’ingresso del ceto produttivo nella Camera dei Comuni, con conseguente incremento dell’influenza politica di
quest’ultima, rappresenta il momento iniziale di un processo istituzionale che condurrà ad una netta prevalenza della
Camera bassa sulla Camera dei Lords, ed all’instaurazione di un bicameralismo “ imperfetto “ che significativamente è
stato altresì definito “ monocameralismo temperato “, evidenziando in tal maniera la scarsa incidenza sostanziale della
camera alta.
5
fondamentale del tessuto normativo inglese.
10
Da quanto detto risulterebbe errato
dedurre una diminuzione del prestigio della Corona come effetto dell’ascesa del
Parlamento, e ciò per due ragioni di fondo: innanzitutto perché il sovrano manteneva
un assoluto potere d’iniziativa nei suoi confronti, potendo convocarlo e scioglierlo in
qualsiasi momento; ma anche, e soprattutto, perché il Parlamento poteva
rappresentare, per il re, un efficacissimo tramite con il popolo; governare con il
consenso del Parlamento avrebbe certamente giovato alla propria popolarità; saranno
i Tudor a mettere in pratica questo principio, con ottimi risultati.
10
Nel caso in questione, la consuetudine che si afferma fa esplicito riferimento al principio “quod omnes tangit ab
omnibus probari debet”,ossia che ciò che riguarda tutti dev’essere approvato col consenso generale e, quindi, del
Parlamento. Per una compiuta analisi dell’evoluzione costituzionale nell’Inghilterra del XV secolo si può vedere C.H.
McIlwain, Costituzionalismo antico e moderno, Venezia, 1956. capp. V-VI, pagg. 115-173.
6
IL SECOLO DEI TUDOR
Il XVI sec. va analizzato sotto due punti di vista differenti ma, in un certo senso,
complementari; l’uno, che si riferisce strettamente alla sfera politico-istituzionale,
cioè allo stato dei rapporti tra Corona e Parlamento; l’altro che invece attiene
all’ingente produzione dottrinaria che in questo periodo risulta particolarmente
fiorente, e che manifesta quella che era la concezione del potere politico
nell’Inghilterra di allora. In questo contesto si pone al centro dell’attenzione la
“questione religiosa“, destinata a dominare per tutto il secolo sia i rapporti tra gli
organi dello Stato, sia il dibattito politico-intellettuale. Analizzando dapprima la
situazione politica inglese, occorre sottolineare come la Riforma protestante risulti
decisiva nella definizione dei rapporti tra la Corona, impersonata allora da Enrico
VIII, ed il Parlamento, che si vede riconosciuta la funzione di vero e proprio organo
costituzionale, di conseguenza fondamentale per il governo del regno. Ma in che
modo un fenomeno squisitamente religioso come la Riforma viene ad incidere in
maniera tanto determinante nell’assetto istituzionale inglese? La risposta si rinviene
proprio nella politica di Enrico VIII, il quale desiderava intraprendere una serie di
riforme in campo ecclesiastico tendenti a conseguire un risultato ben preciso:
l’autonomia dell’Inghilterra dalla Chiesa di Roma e la creazione di una Chiesa
“nazionale“ il cui capo supremo doveva essere lo stesso monarca. Due erano gli
obiettivi che in questo modo Enrico intendeva raggiungere; garantire la totale
7
autonomia ed indipendenza del regno da ogni interferenza esterna
11
e porsi come
potere sovrano anche sulle questioni ecclesiastiche. Prendendo a pretesto il rifiuto, da
parte del papa Clemente VII, di annullare il matrimonio tra Enrico VIII e Caterina
d’Aragona, il sovrano decise di rompere con la Chiesa di Roma. Nel febbraio del
1531 fu riunita la Convocazione di Canterbury, nella quale i vescovi inglesi
accettarono di considerare il Re come unico e supremo signore e, “fino a dove lo
consenta la legge di Cristo, anche il capo supremo; la nascita della Chiesa Anglicana,
con a capo il Re, ruppe il principio dell’indipendenza tra potere temporale e
spirituale, che ora, per la prima volta in Inghilterra, faceva capo allo stesso soggetto.
Si verifica, in questo modo, una totale frattura con la teoria medievale dei rapporti tra
Stato e Chiesa, in base alla quale ognuno doveva necessariamente considerarsi
membro sia dell’uno che dell’altra; questo perché “ ciascun potere non era ne’
superiore all’altro, ne’ indipendente dall’altro. In Inghilterra le relazioni tra i due
poteri erano state pacifiche in un clima di cooperazione, sebbene sorgessero,
sporadicamente, conflitti sui limiti delle rispettive giurisdizioni”
12
. Ciò che qui
interessa sottolineare è che Enrico VIII portò a termine il programma di riforma
ecclesiastica con il convinto consenso del Parlamento, cosa che potrebbe risultare
paradossale se riferita, appunto, alle forti tentazioni assolutistiche della Corona che,
presumibilmente, avrebbero dovuto trovare proprio nei Comuni un duro ostacolo; se
ciò non avvenne lo si deve a due ragioni fondamentali; la prima consiste nella
sostanziale coincidenza di interessi che univa la Corona ed il Parlamento in relazione
11
In tale contesto va ricondotta anche la volontà di affrancarsi dalla Spagna, principale referente del Papato.
12
Cfr. S.B. Chrimes, English Constitutional History, London, 1948, pag. 129.
8
a tale riforma: se, come abbiamo detto, da una parte Enrico VIII intendeva in questo
modo dar effetto alle proprie aspirazioni assolutistiche, dall’altra gli alti dignitari del
regno, funzionari, magistrati, medi proprietari ed anche i ceti mercantili potevano
beneficiare dell’ eventuale vendita delle enormi proprietà ecclesiastiche espropriate al
clero e demanializzate; ecco perché il Parlamento partecipò attivamente alla
formulazione di quegli Acts che, tra il 1534 ed il 1539, determinarono la soppressione
di tutti gli enti ecclesiastici e la nazionalizzazione dei loro beni. La seconda ragione
consiste nel fatto che il sovrano riuscì a comprendere il clima a lui generalmente
favorevole e di conseguenza realizzò che, adottando una politica di collaborazione
con il Parlamento, sarebbe meglio riuscito a conseguire gli obiettivi che si era
prefisso; in tale contesto risulta particolarmente significativo il fatto che il primo
Parlamento convocato da Enrico nel 1529 rimase attivo continuativamente fino al
1536, cosa che costituì un vero primato nell’esperienza costituzionale inglese; esso
appoggiò con forza la politica pervicacemente antipapista del re, che si concretò, oltre
che con i già citati provvedimenti di esproprio, con altri importantissimi Acts destinati
ad incidere profondamente sull’intero ordinamento. In particolare va ricordato l’ Act
in Restraint of Appeals del 1533, nel quale veniva formalizzata l’appartenenza della
Chiesa anglicana allo Stato e, soprattutto, veniva proibita la possibilità di appellarsi
alla giurisdizione papale nelle questioni spirituali concernenti determinati ambiti, tra
cui quello matrimoniale, che di conseguenza rimaneva circoscritto all’esclusiva
giurisdizione del regno;
13
obiettivo fondamentale era quello di negare la dipendenza
13
Questa norma fu voluta fortemente da Enrico VIII per un motivo ben preciso; nel gennaio del 1533 egli contrasse
matrimonio segretamente con Anna Bolena, anticipando il pronunciamento in suo favore delle corti ecclesiastiche
9
del regno da qualsiasi autorità esterna, sia temporale che spirituale. Nel 1534 il
Parlamento approvò, sebbene con qualche opposizione, l’ Act of Supremacy, nel
quale veniva dichiarata l’autorità della Corona d’Inghilterra su tutte le persone e tutte
le cose del regno; in particolare si affermava che “ la Maestà del Re , giustamente e
con pieno diritto, è e dev’essere il Capo Supremo della Chiesa d’ Inghilterra, e tale è
riconosciuto dal clero di questo reame nelle Convocazioni. (…) Il nostro Sovrano e
Signore, i suoi eredi e successori sovrani di questo reame, hanno la piena autorità di
curare, reprimere, riparare, riformare, ordinare, correggere, frenare ed emendare tutti
quegli errori, quelle eresie, quegli abusi, quei reati, quegli oltraggi e quelle atrocità su
cui si può legalmente porre rimedio”.
14
Alla morte di Enrico VIII il vescovo Cranmer
volle continuare la politica riformatrice della Corona pubblicando, nel 1549 e nel
1552, i due Libri di Preghiera e, nel 1553, i quarantadue articoli di religione,
intendendo in tal modo determinare, in seno alla Chiesa d’Inghilterra, una svolta in
senso protestante. L’indirizzo politico perseguito da Enrico di concerto con il
Parlamento fu però completamente rivoltato dalla figlia Maria, la quale, nel suo breve
regno (1553-1558), che seguì quello altrettanto breve di Edoardo VI (1547-1553) si
propose di perseguire, come principale obiettivo, il ricongiungimento delle sorti
dell’Inghilterra alla Spagna ed alla Chiesa cattolica, anche a costo di perseguitare
duramente i Protestanti; naturalmente i due Libri di Preghiera del vescovo Cranmer
furono aboliti. Questa svolta in senso rigidamente filo-cattolico trovò la ferma
opposizione non soltanto del Parlamento, ma di tutto il Paese. Tale situazione perdurò
inglesi, onde impedire alla moglie Caterina d’Aragona di portare il caso davanti al Papa. Cfr. J.R. Tanner, Tudor
Constitutional Documents 1485-1603, Cambridge, 1930, pag. 40.
14
Act of Supremacy, 1534, in J.R. Tanner, Tudor Constitutional Documents 1485-1603, cit. pagg. 46-50.
10
fino alla morte di Maria nel 1558 alla quale seguì Elisabetta I, figlia di Enrico VIII e
di Anna Bolena
15
, la quale riprese e, anzi, rafforzò la politica antipapista del padre e
la collaborazione con il Parlamento. Nel 1559 fu rinnovato l’Atto di Supremazia
16
ma, soprattutto, fu approvato l’Atto di Uniformità, con il quale si intese disciplinare e
rinnovare, specificamente, l’ambito dottrinale, procedendo ad una serie di riforme
relative alla disciplina dei sacramenti; in esso si disponeva, tra le altre cose, il rigido
rispetto, da parte delle autorità ecclesiastiche, dei Libri di Preghiera che venivano
quindi esplicitamente richiamati in vigore. Queste misure conferirono alla Corona un
potere ed un prestigio tali da configurare l’Inghilterra alla stregua di una monarchia
assoluta di diritto divino; d’altronde Elisabetta sosteneva esplicitamente che il suo
potere era diretta derivazione di Dio e che, di conseguenza, solo ad esso doveva
rispondere
17
. Lo stesso Bodin, nei suoi Sei Libri della repubblica, considerava la
monarchia inglese come assoluta, paragonandola esplicitamente a quella francese e
spagnola nelle quali, come egli sosteneva, la sovranità risiedeva totalmente ed
indiscutibilmente nella persona del monarca. Alla luce di ciò che la stessa Regina
ebbe a sostenere, come abbiamo appena visto, si può tracciare un filo conduttore che
lega i due grandi regni che trasformarono l’Inghilterra nel XVI secolo, ossia quello di
Enrico VIII e di sua figlia; e cioè, oltre la loro politica comunemente tesa a
salvaguardare l’autonomia della nazione da qualsivoglia tipo di ingerenza esterna, sia
15
“ La legittimità della successione nella persona di Elisabetta poteva essere giustificata solo nell’ambito dei principi
sui quali si fondava la Chiesa Anglicana: per i cattolici, invece, la regina, essendo nata da un matrimonio condannato
dalle leggi della Chiesa, e quindi del tutto inesistente come vincolo capace di generare prole legittima, doveva essere
considerata un’usurpatrice”. Cfr. M. d’Addio, Storia delle dottrine politiche, vol.I, cit. pag. 553.
16
All’inizio del documento, in particolare, si fa specifico riferimento ai provvedimenti che il Parlamento aveva adottato
durante il regno di Enrico VIII e che erano stati soppressi o, meglio, sospesi nel periodo di Maria Tudor, e che ora
venivano riportati in vita.
17
Cfr. J.W. Allen, A History of political Thought in the Sixteenth Century, London, 1928, pagg. 169-183.
11
laica che ecclesiastica, anche e soprattutto la comune concezione del potere regio e la
considerazione della collaborazione con il Parlamento come strumento di grande
efficacia per tradurla in pratica. In questo i due grandi sovrani Tudor dimostrarono
tutta la loro abilità; come osserva Cardin, che pure riconosce la vocazione
assolutistica dei due sovrani, “ i Tudor non negaron mai l’autorità del Parlamento,
anzi la riconobbero e l’accarezzarono; i suoi privilegi violarono spesso nel fatto, ma
badaron bene dal disconoscerli in principio; tutte le forme e le apparenze
costituzionali osservarono più che poterono ed il potere assoluto esercitarono in
pratica, astenendosi prudentemente dall’affermarlo come diritto”.
18
Ciò non sarebbe
stato fatto dai successori, in particolare Giacomo I e Carlo I, come avremo modo di
vedere in seguito; la conseguenza fu lo scoppio della guerra civile. Analizzando il
secolo dei Tudor dal punto di vista politico-istituzionale, spesso si è parlato di “
Nuova monarchia “ intendendo sottolineare, con quest’espressione, il fatto che è in
tale epoca che va ricercata l’origine dello Stato nazionale moderno, oppure di
“Dispotismo dei Tudor“, sempre con l’intento di caratterizzare questo periodo
storico; alcuni autori, tra i quali Chrimes, sostengono che non sia corretta ne’ l’una
ne’ l’altra definizione: “ la monarchia dei Tudor non ha rappresentato qualcosa di
totalmente nuovo, si può parlare al massimo di un ringiovanimento; essa riuscì a
rafforzare i propri poteri (…) soprattutto ricorrendo, negli affari di fondamentale
importanza, alla cooperazione con il Parlamento. Si può parlare di dispotismo solo
nel senso che Enrico VIII ed Elisabetta erano molto autoritari nel temperamento e
18
Cfr. R. Cardin, Svolgimento storico della Costituzione inglese, vol. II, Torino, 1883, pag. 2.
12
nelle maniere, e non mancavano occasioni in cui manipolavano le leggi per
indirizzarle verso dove desideravano. Ma nessuno di loro si considerava al di sopra
della legge o personificazione della stessa.(…). Il dispotismo di quell’epoca fu
piuttosto un dispotismo della pubblica opinione che di una dinastia “.
19
19
Cfr. S.B.Chrimes, English Constitutional History, cit. pagg. 120-121.
13
L’EVOLUZIONE DEL PENSIERO POLITICO: DALLA “ DOTTRINA DELLA
NON RESISTENZA “ ALLE TEORIE DELLA COSTITUZIONE E DELLA
SOVRANITA’: CROWLEY, STARKEY, SMITH
Abbiamo fin qui esaminato il XVI secolo esclusivamente da un punto di vista
politico-istituzionale, soffermandoci in particolare sui rapporti tra la Corona ed il
Parlamento nei due grandi regni di Enrico VIII e di Elisabetta I; si è visto come i due
sovrani riuscirono a perseguire il loro indirizzo politico caratterizzato, in particolare,
da una serie di profonde riforme istituzionali volte a modificare alla radice i rapporti
tra lo Stato e la Chiesa, con l’obiettivo di assicurare al regno d’Inghilterra
un’autentica indipendenza nei confronti del Papato e, più in generale, nei confronti di
ogni autorità esterna. Si è potuto constatare come la Corona, in questo contesto, abbia
potuto beneficiare di un clima decisamente favorevole per ciò che riguarda
l’atteggiamento che il Parlamento è venuto ad assumere, appoggiando sempre la
politica innovativa che Enrico prima, ed Elisabetta poi, hanno attuato. Ciò che
occorre ora approfondire è un altro aspetto fondamentale del periodo dei Tudor, che
esula dal contesto strettamente istituzionale e che attiene specificamente al campo
della dottrina, caratterizzata dallo sviluppo di alcune teorie politiche che presero
piede nel corso del secolo; obiettivo di quest’analisi è quello di constatare come
anche nel panorama intellettuale, segnatamente nei pensatori politici di allora, la
politica dei Tudor fosse generalmente apprezzata e condivisa; va sottolineato come,
specialmente durante il regno di Enrico VIII, si andasse sviluppando, nell’opinione
pubblica in generale, un forte senso di appartenenza nazionale che naturalmente
14
determinava un convinto appoggio alla nascita di una sovranità statale “ assoluta “,
cioè effettivamente indipendente da ogni fattore esterno; occorreva difendere la
nazione da ogni minaccia esterna, mantenendo l’ordine interno. E’ facile immaginare
come, in questo clima particolare che si era venuto a creare in Inghilterra, potessero
essere visti di buon occhio tutti quei provvedimenti tendenti a rompere i legami che
univano l’Inghilterra alla Chiesa Cattolica (anch’essa, naturalmente, percepita come
un potere estraneo), ed ad edificare una Chiesa nazionale governata dal re,
esautorando progressivamente la giurisdizione ecclesiastica. Questo nuovo senso di
appartenenza nazionale si tradusse in una dottrina propugnatrice dell’obbedienza
all’autorità costituita come dovere religioso, che però rappresenta qualcosa di diverso
dalla teoria del “ diritto divino “ dei re; come giustamente sottolinea Allen, “ non si
può parlare, in questo caso, di una teoria del diritto divino dei re. La dottrina del
dovere religioso all’obbedienza politica, propria del periodo di Enrico e di Elisabetta,
non implicava alcuna teoria concernente il potere monarchico e, in special modo,
alcuna teoria sull’origine e sulla natura dell’autorità politica “.
20
In effetti tale dottrina
si rifaceva all’idea, tipica del periodo medievale, che tutto derivava da Dio e che, di
conseguenza, ogni diritto, non solo quello dell’autorità politica, doveva considerarsi
“divino“; che sia improprio parlare di “ diritto divino “ dei re si comprende anche ove
si consideri, esaminando le opere degli autori politici di allora, che per identificare
l’autorità si utilizzavano i termini indefiniti “ political authority “ o “prince“
21
e solo
raramente il termine “ re “. Dalla concezione dell’obbedienza come dovere divino
20
Cfr. J.W.Allen, A History of political Thought in the Sixteenth Century, cit. pag.121.
21
In questo senso con tali termini alcuni autori indicavano il re, altri il Parlamento.
15
deriva la cosiddetta Dottrina della non resistenza, sorta nel periodo di Enrico VIII;
essa presenta evidenti analogie con il pensiero luterano, alla cui base riposava il
concetto secondo il quale Dio vieta in qualunque caso di resistere con la forza al
magistrato ( intendendo, con questo termine, ogni soggetto che ricopra funzioni di
governo ), ordinando al contrario di obbedire sempre ai suoi comandi eccetto quando
Dio stesso lo proibisca; va notato come Lutero elaborasse il suo pensiero in un paese,
la Germania, che era caratterizzato da “ un confuso insieme di poteri tra i quali
intercorrevano relazioni non ben definite”
22
; al contrario in Inghilterra, come abbiamo
ampiamente avuto modo di vedere, si andavano chiaramente delineando le
caratteristiche di uno Stato nazionale compiuto; addirittura prima che Enrico VIII
coniasse l’espressione “ Questo reame d’Inghilterra è un Impero”, tale sentimento
era già attuale nelle coscienze dei sudditi, i quali consideravano il loro Paese come un
vero commonwealth che si riconosceva nella Corona come potere supremo. Al
riguardo troviamo spesso, negli autori politici di allora, la definizione del re come
“vicario“ o “luogotenente“ di Dio; particolarmente calzanti risultano le parole di
Gardiner nel De vera obedientia, secondo cui “ il re, sebbene infedele, rappresenta
comunque l’immagine di Dio sulla terra “, o quelle dell’arcivescovo Cranmer il
quale, nel Sermon Against Disobedience del 1549, afferma che “ sebbene i magistrati
si dimostrino malvagi e tiranni, comunque occorre obbedir loro “ o, ancora, quelle
contenute nel First Sermon Against Disobedience del 1571, nel quale si afferma che
“chi disobbedisce o si ribella ai propri prìncipi, disobbedisce a Dio, procurandosi la
22
Cfr. J.W. Allen, A History of political thought in the Sixteenth century, cit. pag. 125.