4
politici, di studio, per fuggire da guerre e da disastri naturali, per
ricerca di libertà; oppure la durata della migrazione, registrando la
mobilità dei lavoratori frontalieri, stagionali, temporanei, valutando il
passaggio dalla provvisorietà al soggiorno permanente, quando gli
emigrati tornano al loro paese solo per le vacanze, come se fossero
“turisti” nella propria terra.
Le migrazioni poi, nel corso della storia umana, hanno assunto
varie denominazioni, a seconda delle modalità di svolgimento e
dell’interpretazione storica che gli si dava: esemplare è la diversa
designazione delle “invasioni barbariche” (così chiamate dalle
popolazioni romane) del V secolo dopo Cristo, di cui sono state
protagoniste alcune tribù germaniche provenienti dal nord
dell’Europa; i tedeschi, loro discendenti, preferiscono chiamarle col
termine “migrazioni”. Le migrazioni possono assumere, a seconda dei
casi, connotazioni di rapidità o lentezza, violenza o pacificità,
volontarietà o involontarietà, possono essere più o meno organizzate,
permanenti o temporanee: si può parlare di volta in volta di invasione,
colonizzazione, esodo, tratta degli schiavi, migrazione pacifica, ecc.
5
Insomma, bisogna considerare ogni migrazione nella sua specificità
storico-temporale.
Da questa vastità di spostamenti umani, si prendono qui in
considerazione i movimenti fra l’Algeria e la Francia, cercando di
seguire il filo delle relazioni umane e storiche particolari che hanno
legato, e legano tuttora, questi due paesi e le loro popolazioni. In
questo caso si parte prima di tutto dal concetto di migrazione
internazionale, definita come “uno spostamento di popolazioni con
trasferimento di residenza da uno Stato all’altro e un cambiamento di
statuto giuridico della popolazione coinvolta”
6
. Bisogna poi ricordare
che, anche se qui si parlerà soprattutto di algerini e algerine che si
trasferiscono in Francia per motivi di lavoro, di ricongiungimento
familiare e per ricercare migliori prospettive di vita, vi è stata in
5
Cfr. J.-B. Duroselle, L’«invasion». Les migrations humaines: chance ou
fatalité?.
6
G. Simon, op. cit., p. 10.
5
passato anche un’importante migrazione di francesi verso l’Algeria in
funzione colonizzatrice: e l’esperienza storica della colonizzazione
francese dell’Algeria è profondamente legata alla nascita dei
movimenti migratori verso la Francia.
7
Tornando al metodo di studio delle migrazioni, è opportuno
mettere in guardia da alcuni malintesi nell’uso di certi tipi di fonti: le
statistiche sono quotidianamente utilizzate anche sui mass-media per
illustrare lo stato dei “flussi migratori” in entrata e in uscita da un
certo paese, il numero di stranieri presenti sul territorio, ecc. È tuttavia
necessario, onde evitare un uso improprio di queste importanti fonti di
dati, definire i limiti di questo tipo di informazioni, riguardo la loro
attendibilità, comparabilità e utilità. Non è facile raccogliere questo
tipo di informazioni, poiché le migrazioni spesso non sono trasparenti,
giacché per motivi legislativi o altro, per molte persone non è
possibile o conveniente registrare regolarmente il proprio ingresso in
un altro Stato: questo comporta sempre un certo margine di
approssimazione e stima nei dati sulle migrazioni.
In Francia, per esempio, per determinare la popolazione straniera
si fa ricorso principalmente ai censimenti generali realizzati
dall’INSEE e alle statistiche del ministero dell’Interno. I censimenti
generali presentano numerose lacune nella fase della raccolta dei dati
che portano a una sottostima nel conteggio degli stranieri: problemi di
comprensione della lingua, insufficiente preparazione dei rilevatori,
forte mobilità residenziale, il desiderio di molti stranieri di rimanere
nell’anonimato, tendenza a sondare soprattutto gli uomini soli e poco
la popolazione femminile e familiare. A questo si aggiunga la scarsa
frequenza di questo genere di rilevazioni, dal momento che
intercorrono lunghi periodi di tempo fra un censimento e l’altro. Il
ministero dell’Interno invece fonda le sue rilevazioni sul computo
annuale, da parte delle prefetture, dei permessi di soggiorno rilasciati:
questo tende invece a sovrastimare la popolazione straniera; i diversi
7
Cfr. cap. 3.1.
6
tipi di permessi, la loro diversa durata e il fatto che non si contino
individui ma documenti amministrativi, tutto ciò contribuisce a
offuscare la precisione del dato finale. Infine vi sono altre fonti
misuratrici dei “flussi”, come l’Ufficio delle Migrazioni Internazionali
(OMI) e l’Ufficio Francese per i Rifugiati e gli Apolidi (OFPRA).
Il problema dell’accuratezza dei dati statistici è certamente vero
per tanti paesi d’immigrazione, che sono particolarmente interessati a
conoscere l’entità degli ingressi e delle uscite dal loro territorio, ed è
tanto più vero per i paesi d’emigrazione, le cui statistiche sono
tendenzialmente poco affidabili. Vale però la pena di segnalare gli
sforzi fatti dall’Algeria in direzione di rilevazioni più accurate: per
esempio, una peculiarità del suo sistema statistico è il tentativo di
conteggiare i RAE, Résidents Absents à l’Étranger (Residenti Assenti
all’Estero). Nella definizione del 1966, usata nel censimento generale
dell’epoca, “Il RAE è un membro della famiglia residente [in Algeria]
ma assente e che attualmente si trova all’estero fuori dall’Algeria (…)
Per essere censito come RAE, la persona deve aver abitato
regolarmente nel suo alloggio fino al momento della partenza e deve
continuare sia a scrivere, sia a inviare denaro alla famiglia”
8
. Nel
censimento successivo del 1977, la definizione di base cambia e
diventa: “È considerato come emigrato ogni algerino che si trova fuori
dall’Algeria da più di sei mesi, conteggiati dalla data di riferimento,
per ragioni di lavoro o di studio”
9
. L’idea di censire gli assenti
rimanda a un’idea di scienza dell’emigrazione come “scienza
dell’assenza”, che si occupa cioè di chi non c’è più, ovvero
dell’emigrato, “trattato” statisticamente soprattutto nel paese di nascita
o di provenienza, e che fa da contrappeso alla “scienza della
presenza”, quella dell’immigrazione e dell’integrazione, che tratta
della presenza che l’immigrato realizza nel paese d’accoglienza.
10
Questo permette di osservare il profondo legame di complementarietà
delle due facce delle migrazioni, così come vengono normalmente
8
G. Simon, op. cit., p. 19.
9
Ibidem.
10
A. Sayad, op. cit., pp. 168-172.
7
suddivise: l’emigrazione e l’immigrazione. Le scienze sociali, per
essere veramente comprendenti, devono saper integrare questi due
aspetti, apprezzandone l’inscindibilità e il reciproco rinvio: se per
esempio, nello studio dell’emigrazione ci si occupa, fra le altre cose,
di come i migranti percepiscono la lontananza dal loro paese
d’origine, analogamente nello studio dell’immigrazione si osserva
come sono percepiti i migranti nel paese d’accoglienza. Le migrazioni
non costituiscono solo, né tanto, un problema sociale, ma evidenziano
anche la necessità di riflettere sui problemi sociologici che portano
con sé.
Oltre ai problemi strettamente legati alla raccolta concreta delle
informazioni, esistono poi alcuni problemi connessi invece alla
definizione degli stessi dati da raccogliere: non esistono definizioni
generalmente riconosciute nel campo delle migrazioni riguardo molti
concetti, per esempio non c’è accordo su cosa significhi esattamente
migrazione illegale, illecita, irregolare, clandestina: hanno significati
ambigui perché per ogni paese è diversa la loro definizione legislativa
e statistica. Ciò pone grossi problemi nel momento in cui si vanno a
comparare le statistiche di paesi differenti, senza considerare che
anche all’interno dei singoli Stati vi possono essere dispute non
pienamente risolte in merito alle definizioni, ai metodi e alle tecniche
di raccolta dei dati. Come si fanno le comparazioni? Si confrontano i
trend dei flussi di spostamento all’interno di un dato paese in momenti
diversi, o le differenze e le similarità dei flussi migratori fra paesi
diversi presi nello stesso lasso di tempo? E come si fa con il fenomeno
della stagionalità, caratterizzato dalle peculiarità con cui si esprime
per rapporto a ogni Stato, ogni regione, ogni popolo?
Non di rado, inoltre, il ricercatore si può trovare a studiare su dati
secondari, cioè su dati che non ha raccolto lui e che sovente sono stati
prodotti non per scopi di ricerca, ma per esigenze amministrative. In
questo caso è necessario usare la massima prudenza in ogni ulteriore
trattamento di queste informazioni, specie se incrociate con altre di
8
origine differente; la conoscenza del metodo, dei criteri e delle
tecniche di raccolta di tali dati può limitare gli errori.
Sempre a livello concettuale vi sono alcuni punti di vista e termini
largamente usati, anche in ambito scientifico, che però vengono
contestati da più parti: fra essi vi è un’espressione come “flussi
migratori”, indicante una concezione piuttosto “idraulica” delle
migrazioni, come se si avesse di fronte una corrente di uomini e donne
indistinti, mossi assieme, nello stesso modo, da una forza
indeterminata e uniforme avente lo stesso effetto su tutti. Invece è più
che mai importante tenere presente la particolarità di ogni esperienza
di vita, poiché ogni migrante ha dietro di sé una storia con tratti simili
a tante altre, ma nello stesso tempo diversa. Non è una questione di
quantità, ma di pensare i migranti come esseri umani che si spostano
per motivi individuali. Inoltre l’idea del flusso non sembra tener conto
della bidirezionalità delle migrazioni, del loro variare dalla
contingenza alla permanenza definitiva, del contemplare più andate e
più ritorni, non solo in senso fisico, ma anche mentale, quando il
migrante si percepisce in due posti contemporaneamente, qui e là.
Altra nozione talvolta criticata è quella dei cosiddetti push/pull
factors, i fattori di espulsione e attrazione, teoria che ha avuto origine
nell’ambito dell’analisi economica: qui si tende a considerare le
migrazioni come determinate dall’accumulo di condizioni sociali,
economiche, civili e politiche che, da un lato tendono a “espellere”
(push) l’emigrato dalla sua terra d’origine, come l’acqua viene espulsa
dal rubinetto e, dall’altro ad “attrarre” (pull) l’immigrato in un nuovo
paese, come un’ape viene attratta dai fiori. La storia è più o meno
sempre la stessa: il giovane migrante, originario di un povero paese in
cui non è possibile trovare lavoro, né trascorrere una vita dignitosa,
decide, “spinto” da quest’annosa situazione, ad andare in un paese
ricco, “sedotto” dalla possibilità di trovare un lavoro e di godere di
maggior libertà. Non che in questo tipo di griglia di analisi non vi
siano veritieri e importanti elementi, ma se mal utilizzata rischia di
soffocare e banalizzare quella ricchezza di sfumature che emergono
dalle singole esperienze dei migranti.
9
Per evitare derive etnocentriche è importante ricordare sempre
che le migrazioni sono processi complessi: dietro un’immigrazione c’è
sempre un’emigrazione, ed entrambi questi aspetti (come le classiche
due facce della stessa medaglia) devono essere studiati con pari
dignità: tralasciarne uno, di regola l’emigrazione, significa privarsi di
una visione più comprendente del fenomeno. Ma perché questa
disparità di interesse, che si verifica non solo nella società
d’accoglienza, ma anche in quella di partenza? Mentre può essere
comprensibile che i primi si limitino a studiare solo quel versante del
fenomeno che ritengono essere per loro prioritario – ma così
negandosi una comprensione più completa – non è immediatamente
chiaro il motivo della reticenza che si respira dall’altra parte. Il senso
di colpa dell’emigrato
11
descritto da alcuni studiosi, fra cui
Abdelmalek Sayad, si ricollega al tentativo sopra descritto delle
istituzioni algerine di contare anche i Résidents Absents à l’Étranger:
si può leggere in questi fatti il tentativo, da parte della comunità
d’origine, di tenere legati a sé coloro che partono, continuando a
considerarli parte integrante della comunità anche dopo molti anni di
assenza. Li si conteggia come se non se ne fossero mai andati, come
convitati invisibili di cui si continua ad attendere il ritorno, e la loro
conta serve a valutare la variazione del loro grado di integrazione nel
gruppo d’origine. Data la riluttanza generalizzata nell’ammettere la
necessità dell’emigrazione e soprattutto il suo carattere disgregante
per la comunità, specialmente quando comincia a evidenziarsi il suo
carattere di distacco definitivo, si evita di discuterne troppo, quasi
fosse un argomento tabù.
11
Cfr. cap. 4.4.3.
10
1.2. Lo sguardo simpatetico
Dopo aver considerato alcune questioni tecniche, conviene
spendere qualche parola per pensare al soggetto-oggetto di ogni studio
delle migrazioni, ovvero quell’uomo, quella donna, quei giovani, che
si muovono dalla loro terra natia verso una nuova casa, non importa in
quali circostanze e con quali motivazioni. A meno che il ricercatore
non si occupi dei suoi stessi connazionali, generalmente occuparsi di
migrazioni significa avere a che fare con uno straniero. Per la verità si
potrebbe anche sostenere che qualunque altro-da-sé è uno straniero e
che ognuno dovrebbe prendere coscienza della differenza, dal
momento che l’unica cosa che accomuna tutti gli esseri umani è il
fatto di essere differenti gli uni dagli altri – a partire dall’essere
uomini e donne – e di poter superare tali diversità in maniera
nonviolenta, attraverso le parole.
12
Si dovrebbe forse arrivare a
riconoscersi tutti stranieri. Lo straniero è la faccia nascosta
dell’identità, è colui che la mette alla prova e, nel fatto stesso di
esistere, segnala l’esistenza di un altro. Il problema del resto è
bifronte: per chi accoglie sono messi alla prova i suoi valori e le sue
usanze, per chi arriva c’è il problema della preservazione della propria
identità particolare. Ma in realtà il problema è più complesso: non è
l’altro che, arrivando, rende “parte” quel che si pensava “intero”? È
l’altro che relativizza – con la sua sola presenza – ciò che fino a quel
momento veniva pensato come unico, universale, generalizzato; che
stimola una nuova lettura delle cose, delle situazioni, dei valori; che
induce a rimettere in discussione e a ridefinire i confini delle identità
individuali, locali e nazionali.
In pratica quel che serve è un processo d’integrazione reciproca.
Non si tratta solo di vivere con l’altro, ma di sapersi pensare un po’ al
suo posto, spesso di riuscire a capire cosa significa vivere in un
ambiente d’odio. Si può parlare qui di empatia, ovvero di “mettersi
nei panni dell’altro”, cercare di capire come pensa, come ragiona,
12
M. Ignatieff, “The danger of a world without enemies. Lemkin’s word”.
11
come vede il mondo e le persone che lo circondano. Ma l’empatia è
davvero possibile? Empatia significa porsi “dentro il sentimento”, ma
è possibile arrivare a sentire il vissuto di qualcuno come se fosse il
proprio? Inoltre è difficile empatizzare le situazioni storiche, casomai
si empatizzano le persone: allora bisognerebbe rinunciare a tentare la
comprensione completa, cosa che ha in sé il germe del possesso, e
studiare la situazione con simpatia (che vuol dire “con sentimento”).
Non si tratta di uno sguardo neutrale, che non esiste, né di lavorare in
empatia con il proprio soggetto-oggetto di ricerca, poiché non sempre
è possibile avere a che fare direttamente con lui, né è tanto meno
possibile “calarsi nei suoi panni”. Quello che si può fare è però
operare spassionatamente, nel senso di non farsi turbare
dall’emotività, e con simpatia, cioè con un intervento partecipe senza
che questo possa costituire una fonte di sviamento dal rigore
scientifico nel corso dello studio.
Ma come ci si rapporta all’altro? Julia Kristeva, nel suo intervento
all’Académie Française del 2000 sul tema delle migrazioni
13
,
chiedeva provocatoriamente “Ci sono stranieri felici?” e poi ricordava
che fare l’esperienza dello straniero è forse il solo modo di evitare le
derive più negative dell’assimilazionismo e del comunitarismo,
ovvero di pensare allo straniero solo come a un corpo estraneo da
rendere “commestibile” e ben “digeribile” per la società
d’accoglienza. Secondo Sayad, gli studi sull’immigrazione nascono
principalmente da esigenze di ordine pubblico, dalla necessità cioè di
controllare lo straniero e, per questo motivo, si compiono ricerche sui
suoi bisogni, problemi e modi di vita. Ci vorrebbe invece una ricerca
più disinteressata e meno ossessionata dalla questione della sicurezza,
una ricerca condotta per l’appunto sulla base di un dialogo
partecipato, senza dover per forza porsi l’obiettivo di giungere a
informazioni concretamente spendibili nell’immediato. Una ricerca
condotta così, che nulla perde in scientificità, nasce dal desiderio di
dare uno sguardo simpatico, innamorato, all’altro, per la curiosità di
13
J. Kristeva, “Ci sono stranieri felici?” in F. Barret-Ducrocq, Migration et
errances.
12
scoprirlo e toccare il suo mistero. Questo costituisce una risposta
adeguata alla domanda “perché darsi pena per i guai altrui?”, per non
chiudersi in un microcosmo già conosciuto e familiare ed esplorare un
nuovo mondo.
Qui si è cercato di gettare uno sguardo simpatico rivolto a quei
giovani di origine algerina, di seconda o magari anche di terza e
quarta generazione, che non sono più algerini, che forse sono francesi,
ma che certamente non sono considerati né bretoni, né alsaziani, né
parigini; quei giovani a cui viene chiesto di fare tabula rasa del
passato, poiché questo è il prezzo da pagare per essere stati accolti;
per loro uno sguardo che non è né apatico né di compatimento, ma che
si situa piuttosto «fra ingerenza e indifferenza»
14
.
Riprendendo la questione provocatoria posta da Sayad, ovvero
che la ricerca sull’immigrazione nasce prima di tutto da esigenze di
ordine pubblico, bisogna qui chiarire un equivoco a proposito di due
problemi spesso arbitrariamente incrociati. Apparati di sicurezza ≠
migrazioni: due questioni da non confondere, due temi da scindere per
non rischiare di cadere nella rete delle strumentalizzazioni,
trascinando con sé coloro di cui si parla, spesso più vulnerabili;
mentre per i primi si pone il fine di proteggere dall’insicurezza, le
seconde fanno invece oggi riferimento al problema della
globalizzazione.
Come evitare di appiattirli e confonderli fra loro ? È utile in
questo caso rifarsi alla Costituzione italiana e al trattato di Schengen:
nell’articolo 10 della Costituzione si afferma che “Lo straniero, al
quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo
15
esercizio delle libertà
democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo
nel territorio della Repubblica (…)”. Il termine effettivo implica per le
istituzioni italiane l’onere di compiere di propria iniziativa una
verifica sull’effettività di tale situazione di pericolo, mentre invece
secondo il trattato di Schengen del 1986 è chi arriva che deve
14
E. Wiesel, The perils of indifferent, conferenza alla Casa Bianca, aprile 1999.
15
Corsivo nostro.
13
dimostrare di avere diritto all’asilo. Inoltre in occasione di questo
trattato venne coniata l’espressione extra-comunitario, che definiva –
e definisce – per negazione tutti coloro che non facevano parte del
Mercato Comune: questa parola dà una connotazione statica al
soggetto cui si riferisce, come se non ci fosse alcuna possibilità per lui
di passare dall’extra all’intra, condannato alla perenne esclusione. Si
profilava già allora per la futura Unione Europea il rischio, almeno a
livello di pensiero, della creazione di spazi concettuali chiusi,
mutuamente esclusivi.
16
Questo scadimento nell’insiemistica, ossia
nella tendenza a ripartire schematicamente ogni elemento all’interno
di un qualche quadro di riferimento conoscitivo, porta alla domanda:
le istituzioni umane sono capaci di apprendere dalla (loro stessa)
storia? Perché si è compiuto quest’arretramento rispetto alla
Costituzione italiana? Non è forse peregrino chiedersi perché, in Italia,
l’articolo che riconosce il diritto d’asilo sia posto subito prima di
quello che afferma: “L’Italia ripudia la guerra”; salvare una vita è
evitare la guerra?
Si pone così il problema della non-umiliazione, né delle
istituzioni (a forte rischio di strumentalizzazione), né degli immigrati:
si tratta insomma di riconcepire un modo di pensare all’immigrato,
allo straniero, all’altro anche in termini di singoli con casi e storie
personali. Solo dopo aver riconsiderato l’alterità particolare di ogni
particolare altro nella sua singolare eccezionalità, allora si possono
riconsiderare i sistemi migratori non più come insiemi, ma come reti
di relazioni, aperte anche all’esterno, che non prendono il sopravvento
sugli individui. Bisogna chiedersi cosa voglia dire la nozione
dell’alterità in un mondo plurale, come sia possibile contrapporsi
all’insiemistica: il “pensiero debole”, conscio dei suoi limiti e negante
la possibilità di ricercare la Verità assoluta, sembra propendere troppo
per l’autoreferenzialità e un relativismo che, in conclusione, non va da
nessuna parte. Si tratta allora di riprendere in mano i fili e tentare di
16
Cfr. cap. 5.1 e 5.2.
14
dipanare la matassa, sia delle relazioni interrotte, sia dei rapporti
reciproci perduranti.
Bisogna vedere, nel presente caso, non la particolarità algerina,
ma la specificità dei rapporti franco-algerini, in modo da non isolare
artificialmente nessuno dei due popoli, scongiurando così il rischio di
trattarli come realtà che non si rapportano fra loro: l’attenzione,
certamente non esclusiva, alla relazione è la via che permette di
esplorare le connessioni che vi sono fra ambiti che corrono il pericolo
di venir impropriamente separati. Concepire i popoli come disgiunti,
vederli come autoreferenziali e come portatori in se stessi, nella loro
cultura, storia, società, di ogni spiegazione dei fenomeni che li
riguardano, rischia d’irrigidire le differenze senza riuscire ad aprire
uno spiraglio sulle somiglianze. Le relazioni reciproche, in quanto
negoziazione continua fra gruppi per definire le modalità della
reciproca convivenza, non devono mettere in ombra motivazioni,
valori, aspettative comuni, né porre l’accento solo su un aspetto dei
problemi posti sul tavolo delle trattative (vedere l’enfasi posta
quotidianamente sul tema immigrazione/delinquenza risolto solo in
chiave repressiva, senza dare nel contempo adeguato spazio alla
risoluzione di problemi concreti come l’alloggio, la libera ricerca del
lavoro, ecc.).
Le istituzioni oggi dovrebbero – fermandosi – guardare il proprio
passato e chiedersi: come si è riusciti in passato a effettuare
transazioni pacifiche da un regime autoritario a uno democratico?
Come si fa a favorire la riconciliazione in un paese attraversato da
gravi tensioni? Come hanno fatto i paesi europei a ricomporre i loro
rapporti anche attraverso la costruzione dell’Unione Europea, un
progetto fondato sulla pace e non su un nemico comune? E come
possono gli Stati solidamente democratici aiutare gli altri? Sono
legittimati a farlo? Robert Evans
17
suggerisce un paragone, in cui gli
17
Direttore della sede bolognese della Johns Hopkins University; affermazione
tratta da un dibattito tenutosi nel corso di un seminario, riferita da Maura de
Bernart.
15
Stati democratici sono come fratelli maggiori che non possono essere
altro che se stessi, né possono quindi esimersi dal rendere servizio a
chi ha bisogno di loro. Questo non deve far pensare a una ricaduta nel
colonialismo: si tratta però di prendere coscienza che, all’interno della
relazione coloniale, vi era anche una componente di dipendenza non
necessariamente negativa. Albert Memmi distingueva infatti fra
relazioni di dominio e relazioni di dipendenza
18
: mentre le prime
erano la cornice di violenza e sopraffazione su cui si fondava il
colonialismo, le seconde non dovrebbero essere considerate
necessariamente un disvalore. È importante prendere atto di alcuni
aspetti positivi che, nonostante tutto, si erano venuti a determinare in
seguito al contatto forzato della colonizzazione.
19
Detto questo,
bisogna però fare attenzione: il pericolo attuale è quello di cadere
nella logica che può portare i difensori dei diritti umani e dello
sviluppo democratico a invocare interventi di forza in nome di questi
principi.
18
Oggi si parlerebbe di “interdipendenza”, concetto però non ancora
compiutamente teorizzato all’epoca in cui scriveva Memmi.
19
Cfr. D. Ohana, “Réflexions sur l’essai d’Albert Memmi: le racisme” in D.
Ohana, C. Sitbon, D. Mendelson (a cura di), Lire Albert Memmi; A. Memmi,
Ritratto del colonizzato e del colonizzatore.
16
2. LA FRANCIA E L’IMMIGRAZIONE
2.1. Alcuni aspetti della storia delle migrazioni verso la
Francia
A partire dalla seconda metà del XIX secolo la Francia è stata fra
i primi paesi europei a ricorrere alla manodopera straniera: in
precedenza aveva già accolto un’immigrazione “di qualità”, costituita
cioè da stranieri quali artisti, tecnici, commercianti, imprenditori,
industriali, artigiani, ecc. A questa immigrazione, riguardante un
numero limitato di persone e particolarmente rilevante dal XVI al
XVIII secolo, ne è seguita un’altra cosiddetta “di massa”, composta da
lavoratori meno qualificati professionalmente e di numero molto più
elevato. Si possono distinguere varie ondate migratorie, ma
semplificando si può grosso modo osservare una prima fase (dalla
prima metà del XIX secolo al secondo dopoguerra) con una
prevalenza di migranti provenienti da paesi europei, soprattutto
italiani, portoghesi, belgi, polacchi e spagnoli, e poi una seconda fase
con una preponderanza di magrebini, turchi, africani e asiatici (dal
secondo dopoguerra a oggi). Non si vuole fare qui una disamina di
tutta la storia dell’immigrazione straniera in Francia, ma solo
esaminarne alcuni aspetti generali e porre in rilievo quella proveniente
dall’Algeria.
Rispetto agli altri Stati europei la Francia è il paese che per primo
ha fatto l’esperienza dell’immigrazione di massa: perché questa
precocità? Generalmente si danno due tipi di spiegazioni: la prima è di
tipo demografico e intende l’immigrazione come strumento di
ripopolamento per un paese a bassa natalità con una popolazione che
17
cresce lentamente e tende a invecchiare; infatti la Francia aveva 36,9
milioni di abitanti nel 1876 e 39,6 nel 1911, cifre queste che rivelano
la stagnazione demografica dell’epoca, dovuta al comportamento
maltusiano
20
precoce delle famiglie francesi, vale a dire al controllo
delle nascite come modo per favorire l’ascensione sociale dei figli.
Solitamente fra le cause di questo declino si indica anche la Prima
guerra mondiale, che per la Francia ha significato un milione e 400
mila morti, tre milioni di feriti e 60 mila invalidi. La seconda ragione
è economica e vede gli immigrati come manodopera indispensabile
per lo sviluppo dell’economia nazionale, sia perché i francesi non
basterebbero numericamente a occupare ogni impiego, sia perché
molti di loro rifiutano certi lavori particolarmente duri, pericolosi o
socialmente svalorizzati. Queste motivazioni contengono certamente
elementi significativi, ma sono tuttavia troppo semplicistiche e
richiedono un adeguato approfondimento.
Interessante è l’analisi che lo storico Gérard Noiriel fa nel suo
libro Le creuset français (1988) a proposito delle origini
dell’immigrazione
21
: secondo lui la questione dell’immigrazione è
indissolubilmente legata al processo di industrializzazione in Francia,
per la precisione a quella fase che viene comunemente chiamata la
“Seconda rivoluzione industriale”.
La “Prima rivoluzione industriale” in Francia si era risolta in
modo diverso dal modello inglese: in Gran Bretagna, dove permaneva
il latifondo, i contadini erano più incentivati ad andare a lavorare nella
nascente industria e a migrare nei centri urbani trasformandosi in
operai, mentre in Francia, dove si era estesa e rafforzata la piccola
proprietà, la classe contadina poteva contare su una fonte di risorse
che, per quanto piccola, l’aveva salvata dal déracinement e, lungi
dallo scomparire, si era invece consolidata. I piccoli proprietari
20
Da T. R. Malthus (1766-1834), autore del Saggio sui principi della popolazione
(1798), in cui sostiene la necessità di limitare la procreazione come rimedio alla
povertà, giacché la miseria è il mezzo attraverso cui la natura risolve il problema
della popolazione in eccesso rispetto alle risorse alimentari.
21
Per le origini dell’emigrazione dall’Algeria, cfr. cap. 3.1.