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dei due film, pur se considerati con tutte le differenze che tra loro
emergeranno, è presente un rifiuto della finzione o della costruzione
tradizionale del racconto cinematografico tipici del Neorealismo, e nemmeno
è individuabile il formalismo quasi snob e ribelle proprio della Nouvelle
Vague. Piuttosto, Barry Lyndon e I giorni del cielo appaiono come due film
fondamentalmente classici, in cui non vengono poste limitazioni
nell’impiego di risorse espressive del linguaggio cinematografico, perlomeno
per ciò che concerne l’oggetto della nostra tesi, che è appunto l’uso naturale
della luce.
Per questo la nostra scelta è caduta sui due film, prima ancora che su i
loro autori, che sono molto diversi tra loro ma si fondano su un analogo
modus operandi nella messa in scena del Settecento inglese (Barry Lyndon) e
del primo Novecento americano (I giorni del cielo).
Il primo capitolo introduce all’argomento con una breve storia della luce
nel cinema, della cinematografia (la scrittura con la luce in movimento), per
dirla con le parole di Storaro, che non è solo uno dei più importanti autori
della fotografia, ma forse anche quello che, più degli altri, si è sforzato di
studiare, teorizzare e scrivere sul proprio mestiere. Ripercorriamo dunque
rapidamente il modo in cui viene impiegata la luce a partire dal primo cinema
5
muto, passando per l’espressionismo, il neorealismo e la Nouvelle Vague.
Già in queste prime righe, la nostra attenzione è rivolta soprattutto a cogliere
i momenti storici e i singoli film in cui la luce viene usata in modo mimetico.
Vedremo inoltre, nei paragrafi “La luce naturale” e “La luce
innaturale”, quanto sia sbagliato, e soprattutto fuori dalle nostre intenzioni,
tentare di dare una definizione esatta della luce naturale, che vedremo essere
più complessa e relativa di come si possa pensare in un primo momento.
Seguono i due capitoli dedicati ai film presi in esame. Quello dedicato a
Barry Lyndon è fondato su un’analisi condotta prendendo in considerazione
sia le figure e funzioni prettamente narrative, sia, soprattutto, la
composizione delle inquadrature e alcune specifiche risorse tecnico-
linguistiche, quali, ad esempio, la profondità di campo, lo zoom, il carrello, la
macchina a mano. Inoltre, sempre a proposito di Barry Lyndon, ci si è
soffermati sulle citazioni pittoriche, cercando di non cadere nell’errore di
ridurre l’analisi a un gioco di riconoscimento della fonte, e, quindi, attraverso
le categorie del visibile tipiche dell’estetica settecentesca (bello, pittoresco,
sublime), abbiamo riflettuto sulle scelte stilistiche e figurative di Kubrick.
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La base di entrambe le analisi è costituita dallo studio dell’uso della luce
naturale o, per esprimersi in modo forse più appropriato anche se
apparentemente contraddittorio, dall’uso naturale della luce artificiale.
Il capitolo su I giorni del cielo si apre con una presentazione di Terrence
Malick, che c’è parsa necessaria per una figura particolare e complessa come
quella del regista - meno noto rispetto a Kubrick -, oltre a essere
indispensabile per la comprensione della sua opera. In seguito, ci siamo
concentrati sul direttore della fotografia Nestor Almendros e sulle scelte e
tecniche di ripresa utilizzate per ottenere immagini straordinarie come quelle
de I giorni del cielo, per poi soffermarsi sulla questione della luce dell’ora
magica (o tragic hour, come ribattezzata da Almendros, per la difficoltà delle
riprese effettuate in quel breve lasso di tempo), e tecnicamente detta luce a
cavallo, con cui sono state impressionate su pellicola immagini altrimenti
impossibili, e dove l’arte fotografica raggiunge livelli unici di virtuosismo
senza intaccare la spontaneità, la naturalezza e il realismo, che Malick aveva
come criteri principali.
Per questo, le riprese con luce a cavallo di Almendros sono, come quelle
a lume di candela di Alcott, immagini che rimangono impresse in quasi tutti
gli spettatori, anche in coloro che quasi mai ricordano neppure i nomi dei
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registi, e certo non sanno cosa si nasconda dietro la dicitura direttore della
fotografia.
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Parlare di luce con le parole
9
Mettiamo - qui all'inizio - una specie di santo protettore. Ma un santo
dipinto. San Matteo - quello della "Vocazione", di Caravaggio, in San Luigi
dei Francesi, a Roma. Nel quadro si vede Cristo che appare a San Matteo,
seduto con altri al tavolo di una taverna. Sembra che tutti si voltino a
guardare Cristo, che appare sulla destra. Ma se controllate la direzione degli
sguardi, vedrete che nessuno guarda il corpo di Cristo. Guardano tutti la luce,
che irrompe espandendosi nel quadro. E guardate quegli sguardi. Non sembra
che guardino nel modo in cui si guarda al cinema?
Emilio Tadini
1
1
Estratto dalla prefazione a La bottega della luce, a cura di Stefano Consiglio e Fabio Ferzetti,
Ubulibri, Milano 1983, p. 7.
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Breve storia della luce nel cinema
Il primo cinema, il cinema muto, era solo luce. Luce che impressionava
una pellicola e la trasformava in gradazioni di grigio, di bianco e di nero,
difficilissime da controllare. I primi operatori sono come i costruttori della
piramide di Cheope, come Giotto che disegna un cerchio a mano libera,
artisti sopraffini che compiono quasi dei miracoli con l'attrezzatura primitiva
di cui dispongono: pellicole molto poco sensibili e flessibili, cineprese e lenti
poco più che artigianali. Oggi il cinema professionale è talmente evoluto che
è praticamente impossibile realizzare immagini scadenti, le pecche non
stanno mai nel materiale con cui si riprende.
Il primo cinema non ha mai smesso di esercitare un fascino misterioso.
Immagini spesso semplici che parlano da sole.
Evolvendosi il cinema ha compiuto alcuni passi che in un primo
momento hanno prodotto effetti di regresso. Il cinema sonoro dei primordi
era in realtà soltanto parlato, nell’accezione più sterile del termine: ha
provocato una diminuzione della funzione significante dell'immagine e, per
dirla citando Sven Nykvist,
2
era come se si fotografassero parole. Bisogna
2
Componente, dalla seconda metà degli anni cinquanta, di quella che lui stesso definisce la famiglia
Bergman, è uno dei più importanti direttori della fotografia, vincitore di due Oscar, autore di oltre
ottanta film, di cui più di venti col grande regista svedese.
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attendere grandi narratori come Hitchcock (e come lui gli altri autori la cui
carriera sta a cavallo del passaggio dal muto al sonoro) per poterci permettere
di vedere un film, togliendo il sonoro e i dialoghi, e nonostante tutto capire. Il
cinema a colori è stato anch'esso d'impaccio ai direttori della fotografia: le
prime pellicole a colori erano meno sensibili di quelle in bianco e nero.
Occorreva inondare il set di luce perché si vedesse qualcosa e il risultato era
un'arlecchinata piatta, priva di effetti.
A intervalli regolari, ma inesorabilmente, il cinema e la luce del periodo
del muto vengono riscoperti.
«L'enfant sauvage è un omaggio alla fotografia del cinema muto. I direttori
della fotografia che lavoravano con i grandi registi scandinavi (Dreyer e
Stiller), americani (Griffith e Chaplin), o francesi (Feuillade) realizzavano una
bellissima illuminazione. Costruivano set all'aperto, senza soffitti e quando
non era possibile lavorare all'ombra, schermavano la luce con dei veli.
Utilizzavano la luce naturale, sia perché non avevano denaro per ricorrere a
quella artificiale, sia perché non disponevano delle troupes di elettricisti e
delle tecnologie che si sono sviluppate più tardi. Il loro stile austero, senza
affettazione, aveva una precisione purissima, purtroppo perduta ai nostri
giorni: i paesaggi, i volti, gli oggetti chiedevano soltanto di essere ripresi per
quello che erano, per la loro bellezza disadorna, priva di pathos, come quella
del primo sguardo sul mondo.»
3
Il cinema espressionista è stato il primo a manipolare la luce e l'ombra a
fini espressivi. Le atmosfere de Das Kabinett des Doktor Caligari (Il
3
Nestor Almendros, Direttore della fotografia, Istituto cinematografico dell’Aquila “La lanterna
magica”, L’Aquila 1988, p. 77.
12
gabinetto del Dottor Calidari, 1920) erano rese inquietanti e claustrofobiche
dal soggetto trattato, dalle scenografie sghembe, dal trucco e dalla fisicità
stessa degli attori.
4
Ma il cinema arriva allo spettatore attraverso la
proiezione di una pellicola, di cui è responsabile l'operatore. Dai fratelli
Lumière in poi, per circa tre decenni, venne portata sullo schermo quasi tutta
la letteratura mondiale, senza allontanarsi mai troppo dai canoni del teatro
filmato. Lo stesso cinema di Chaplin non aveva un suo specifico filmico nei
caratteri prettamente fotografici dell'immagine, ma nella recitazione e nel
montaggio; un’osservazione analoga si può fare a proposito dei
contemporanei russi. È il cinema espressionista tedesco che inizia ad usare la
luce come strumento di racconto e messa in scena. La luce e il buio.
Luci contrastate sugli attori. Bianco e nero contrapposti, a volte senza
toni intermedi di grigio. Addirittura, per enfatizzare il tutto (e anche per le
carenze del parco lampade di allora),
5
le ombre venivano talvolta dipinte
sulla scenografia.
4
Conrad Veidt, l’attore che impersona il sonnambulo Cesare nel film di Wiene, venne scelto, tra
l’altro, per le sue ampie spalle e, tramite trucco e costumi, il suo stesso fisico venne distorto come le
scenografie.
5
Le prime lampade chiuse risalgono al secondo decennio del secolo: esse permettevano di
direzionare il fascio luminoso, ma la scarsa potenza del flusso luminoso, anche in rapporto alla bassa
sensibilità delle pellicole, fece sì che inizialmente vennero usate solo per schiarire le ombre portate
dalla luce principale, il sole.
13
Dal cinema espressionista tedesco prendono spunto visivo il Dreyer di
Vampyr, Der Traum des Allan Grey (Vampyr, 1932), ma non solo, è
sufficiente pensare al carattere espressionista delle inquadrature dal basso in
Le Passion de Jeanne d’Arc (La passione di Giovanna D'Arco, 1928),
l'Hitchcock del periodo muto inglese, ma pure quello successivo, si pensi a
Vertigo (La donna che visse due volte, 1958), alcune opere di Bergman, il
noir americano (nell'epoca dei totalitarismi, insieme ai registi, emigrano negli
USA anche i grandi operatori europei).
6
E Orson Welles: The Tragedy of Othello: The Moor of Venice (Otello,
1952) fotografato tra gli altri da G.R. Aldo,
7
film dalla lavorazione quasi
miracolosa,
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in cui il Moro con la mente ottenebrata dal sospetto si muove in
un mondo d'ombra, e da essa tende alla luce, all'innocente Desdemona,
mentre nel grigio, nell'ambiguità, si muove Iago. È questo uso della luce
narrativo, creativo, simbolico, di cui è figlio il teorizzare che Vittorio Storaro
compie lungo tutta la sua carriera: i colori legati ai periodi della vita in
6
Solo per fare alcuni nomi: Fritz Lang, Billy Wilder, Max Ophüls, Eric Von Stroheim, l’operatore
Karl Freund
7
Insieme ad Anchise Brizzi, George Fanto, Oberdan Troiani, Alberto Fusi.
8
Gravi problemi finanziari protrassero per due anni la lavorazione del film che a più riprese venne
interrotta, spesso con inevitabili mutamenti nel cast tecnico e artistico. È celebre la scena della rissa
tra Iago e Cassio in cui viene dato un pugno a Venezia e il controcampo è girato in Marocco.
14
L’ultimo Imperatore (987), in Frank Herbert’s Dune (Dune, 2002).
9
È eredità espressionista l'assioma buio = paura tipico del cinema noir e
di quello horror. Ci vorrà tempo e coraggio perché registi e operatori escano
da questo luogo comune: Polanski, con Rosemary's Baby (id., 1968), e
Kubrick, con Shining (id., 1980), mettono bene in luce la paura, o meglio,
illuminano i loro set per dimostrare che la paura è invisibile e intangibile, che
«l'angoscia non è legata al buio, alla nostra paura ancestrale di ciò che non
possiamo vedere».
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Prima di questi titoli raramente si ricorreva al buio. In Apocalypse Now
(id., 1979) Marlon Brando pretese che non trasparisse il suo sovrappeso, e
perciò l'attore più famoso e pagato del mondo venne coraggiosamente messo
in ombra da Storaro. Fatto impensabile nella tradizionale fotografia
cinematografica dello star system americano e non solo, affermatosi negli
anni '30, in cui ogni vezzo o sperimentalismo degli operatori era subordinato
al far bella la star. Racconta Storaro che il capitano Kurtz di Brando, nel film
di Coppola che molto deve a Cuore di Tenebra di Joseph Conrad, «[...]
9
Cfr. i tre volumi che Storaro ha pubblicato a cadenza annuale per le edizioni Electa, in
collaborazione con l’Accademia dell’Immagine dell’Aquila, di cui è co-fondatore e docente: La
Luce (2001), I Colori (2002), Gli Elementi (2003). Inoltre “La luce come…”, in Pensieri di luce.
Note su Vittorio Storaro, Tesi di Laurea in Pittura di Sara Angelucci, relatore Francesco Ballo,
Accademia di Belle Arti di Brera, Milano, AA. 2000/2001, cap. 2, p. 34.
10
Storie della luce, a cura di Stefano Masi, La Lanterna Magica, L'Aquila 1983, p. 33.
15
rappresenta l'inconscio insito in ognuno di noi. Rappresenta il lato oscuro
degli Stati Uniti, ed è per questo che il nero è un colore così importante nel
film.»
11
Non è questa la sede per chiedersi se e quanto la fotografia di Storaro
per Brando vada attribuita al vezzo dell'attore: «per dirla con un grande
operatore francese, Sacha Vierny, il direttore della fotografia ancor prima che
una sapienza tecnica mette in gioco una spontaneità tecnica. Un mestiere-
limite insomma: al limite fra le certezze della tecnica e le possibilità della
creazione.»
12
Capita che nei mestieri del cinema le più felici intuizioni
avvengano per caso, come racconta Gabor Pogany: «A volte, mentre si lavora
in teatro di posa, si accende improvvisamente una lampada, magari per errore
di un elettricista, e in quel momento tu ti accorgi che c'è una splendida
soluzione alla quale non avevi pensato. Dentro di te scatta qualcosa.»
13
La cosiddetta luce dello star system iniziò ad essere canonizzata negli
anni '30. Allora il cinema si faceva quasi esclusivamente nei teatri di posa, e i
corpi illuminanti erano posti sui ponti, costruzioni praticabili poste sopra la
scenografia, sui quali risultava semplice modificare i set up luci. Il lato
11
Burum, Stephen (direttore della fotografia della seconda unità di Apocalypse Now), e Pizzello,
Stephen, «A Clash of Two Cultures», American Cinematographer, vol. 82, n.2, febbraio 2001, p. 95.
12
La bottega della luce, cit., p. 11.
13
Storie della luce, cit., p.35.
16
negativo dell'uso dei ponti è l'innaturalità della direzione della luce, come
annota Tovoli a proposito di uno dei primi film della sua carriera, I Tulipani
di Haarlem (1969): era la prima volta che il direttore della fotografia che
metteva piede in un teatro di Cinecittà.
«Io ero convinto che, se in scena c'è una finestra, la luce deve provenire dalla
parte della finestra, non da un ponte che sta diversi metri più in alto.
Cautamente cominciai a dire che bisognava tirar giù tutti i proiettori,
provocando lo scompiglio che si può immaginare tra elettricisti e tecnici, e
causando un ritardo sul piano di lavorazione che poi mi fu aspramente
rimproverato. Fu così che iniziò la mia ricerca di un personale stile di
illuminazione.»
14
Le caratteristiche del cinema degli anni ’40 americano, - che raggiunge
il massimo del manierismo nella storia dell’illuminazione cinematografica
con Gregg Toland - sono simili a quelle di alcuni film italiani degli stessi
anni. Massimo Terzano non è da meno di Toland, e arriva nei film Un colpo
di pistola (1941) e Malombra (1942), al livello più alto di raffinatezza nella
fotografia italiana di quegli anni.
«L’immagine del cinema americano di questo decennio è realista, ma al
tempo stesso astratta: ciò vuol dire che il suo realismo è raggiunto attraverso
una serie di artifici talmente ben progettati e realizzati da risultare
perfettamente “invisibili” in quanto artifici. È il massimo della realtà
raggiunto col massimo di astrazione.»
15
14
Storie della luce, cit., p. 35.
15
Stefano Masi, La luce nel cinema, Savelli Gaumont, L’Aquila 1982, p. 78.