7
Rossi dal confino al quale la dittatura fascista aveva condannato le loro
intelligenze di uomini liberi
1
.
Spinelli aveva pensato a un’Europa federale, che fosse d’aiuto a una
vera e propria rivoluzione politica, a una palingenesi della fragile democrazia
caduta sotto i colpi del fanatismo ideologico, precipitando il continente nella
lunga notte dei totalitarismi.
La Comunità Economica Europea nacque consentendo ai cittadini di
salutare da spettatori un novum, ancora flebilmente istituzionale, dalla
formazione del quale erano stati letteralmente esclusi. Mezzo secolo dopo è
stata loro negata persino la possibilità di sfiorare con lo sguardo i firmatari,
quasi volendo controbilanciare in tale maniera, con la credibile giustificazione
delle misure di sicurezza anti-terrorismo, quel timido coinvolgimento garantito
dall’innovativo metodo della Convenzione attraverso i Parlamenti europeo e
nazionali.
Poco, davvero poco. Eppure con il Trattato-Costituzione di Roma si è
chiusa una pionieristica fase nella costruzione di un’Europa unita, che da
Maastricht in poi aveva subito un’impressionante accelerazione, correndo tra le
spesse e alte mura di un percorso costituente a tappe forzate.
Percorso, non processo. Non è solamente un problema di demos, di
sfocata identità comune. A mancare è stata una partecipazione democratica
trasparente, genuina, che accompagnasse i lavori dei convenzionali. Rawls
sosteneva che gli esiti di una procedura legittima sono legittimi a prescindere
dal loro contenuto, ma in tale snodo una legittimità puramente procedurale si
divarica dalla giustizia. L’ingiustizia degli esiti di una procedura democratica
legittima corrompe la sua legittimità, che non può essere risarcita con un voto
referendario, non previsto neppure in tutti i paesi membri, con il quale si
chiama il corpo elettorale ad accettare o a respingere in blocco un testo
anomalo, che affianca princìpi supremi a dettagliate procedure tipiche della
legislazione primaria e di quella secondaria.
Probabilmente è fondata l’obiezione di chi tesse le lodi del
funzionalismo monnettiano, della strategia gradualista del dispotismo
1
Cfr. A. Spinelli, Il Manifesto di Ventotene (1941), il Mulino, Bologna, 1991.
8
illuminato, che hanno permesso di giungere dove la miope tutela degli interessi
nazionali, sicuramente pervasiva di alcuni atteggiamenti popolari, non avrebbe
consentito. Cosicché oggi l’Unione a 25 e l’integrazione monetaria con l’euro
sarebbero poco più che fantasiosi progetti, abbandonati a un destino di
polverosa archiviazione in fascicoli e supporti informatici di fondazioni e centri
di ricerca.
Viene continuamente ripetuto quanto sfibrante sia il controsenso di
ripercorrere la storia con i “se”. Ma l’analisi socio-politica non può fingere
mancanza di stupore osservando parallelismi che riproducono l’emarginazione
degli europei dalla realizzazione di sogni che sono anche, e soprattutto, i loro,
non solamente delle oligarchie detentrici del potere a vari livelli.
Nel ventunesimo secolo le evidenti sofferenze della democrazia
rappresentativa arrugginiscono il patto sul quale si fondano gli Stati membri
dell’UE, aggravando una separazione tra eletti ed elettori, tra ceti dominanti e
dominati che genera sentimenti antipolitici, tentativi di rottura degli equilibri
politici cristallizzati mediante la creazione di formazioni populiste che
impastano richiami neo-fascisti e richieste di coinvolgimento diretto della
“gente”
2
. Che diventa “popolo” al fine di attingere a piene mani da un olismo
culturale che schermi l’accelerazione spazio-temporale favorita dalla
globalizzazione, palesando una sindrome d’arrocco di taglio persino etnico, e
quindi razzistico. Che combatta la politica dell’universalismo, proteggendo
amministrativamente tradizioni vere e riesumate da anfratti leggendari, come se
ci fosse una specie biologica a rischio, minacciata dal melting pot che le ondate
migratorie dai paesi poveri rendono inevitabile
3
.
2
Il più completo studio sul tema è il saggio di Y. Mény e Y. Surel, Populismo e democrazia
(2000), il Mulino, Bologna, 2001. Cfr. anche P. Taggart, Il populismo (2000), Con una nota di
Massimo Crosti, Città Aperta, Troina, 2002, e il denso articolo di G. Galli, Populismo, «il
Mulino», n.1/2001, pp.57-62.
3
Si tratta secondo Habermas di un punto di vista che scade nell’equivoco, giacché, anche in
una cultura fattasi riflessiva, possono mantenersi in vita soltanto le tradizioni che, pur legando
a sé i propri membri, non si sottraggano a un permanente esame critico e tengano sempre
aperta ai discendenti l’opzione di apprendere da tradizioni diverse. Cfr. J. Habermas, Lotta di
riconoscimento nello stato democratico di diritto, in J. Habermas – Ch. Taylor,
Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento (1992 e 1996), Feltrinelli, Milano, 1998, pp.63-
110, rif. pp.89-90.
9
Troppe volte si guarda con fastidio a queste proteste, derubricandole a
esplosioni passeggere, umorali, riassorbibili proseguendo tenacemente verso il
traguardo
4
.
L’unità nella diversità che caratterizza l’ircocervo europeo rappresenta
un valore insito nelle vicende e nella peculiare geografia del continente, ma
alla costituzionalizzazione del quale si è giunti quasi casualmente, per effetto
delle spinte e controspinte che hanno segnato le alternative maggiormente
disposte a un passaggio più convintamene federale o più prudentemente
confederale. In ogni caso, un pur carente Trattato-Costituzione, attualmente
sottoposto alla ratifica dei paesi mebri, si è gradualmente delineato anche per
ragioni esogene ed endogene. Ciò motiva la scelta di ricostruire la travagliata
approvazione della Carta dei diritti dedicando brevi cenni agli avvenimenti che
ne hanno preceduto ed accompagnato la redazione convenzionale e la firma nel
2001.
L’avvento della moneta unica e il possente allargamento dell’UE a Sud-
Est trascinano con sé un flusso di implicazioni carsiche che soltanto il tempo
potrà condurre in superficie, portando a compimento premesse che trascendono
quell’adeguamento delle istituzioni che dovrebbe garantire una migliore
compartimentazione dei compiti legislativi ed esecutivi nel delicato rapporto
con gli organi statali.
Il contenuto ibridamene costituzionale di questo Trattato
5
provvede
solamente in minima parte a razionalizzare i rapporti tra istituzioni, e la
tormentata vicenda della Commissione Barroso appare una tutto sommato
inevitabile deflagrazione di bolsi compromessi che hanno allungato di un anno
la scadenza del varo di un testo concepito, nelle intenzioni minimaliste, per
riordinare la fitta selva di quelli in vigore.
4
Un rimprovero alla sinistra, un tempo composta da partiti con basi elettorali e insediamenti
davvero popolari e oggi pullulante di tecnocrati più realisti del re è giunto, tra i moltissimi ai
quali si dedicheranno rapidi cenni nella tesi, da René Cuperus, The Fate of European
Populism, «Dissent», n.2/2004, pp.17-20, che ha correttamente rilevato la possibilità di un
percorso alternativo tra gli opposti della “haiderizzazione” e dell’infastidito aggiramento delle
cause alla base di un consenso fornito a formazioni minacciosamente antipolitiche (p.20).
5
Cfr. G. Amato, Amato: è un ibrido, ma dico sì alla Costituzione, Intervista di Pasquale
Cascella, «l’Unità», 29-10-2004, p.7.
10
La firma del 29 ottobre 2004 è infatti caduta immediatamente dopo la
bocciatura virtuale della formazione guidata dal Presidente lusitano incaricato,
che ha evitato un voto negativo dell’Europarlamento chiedendo un
prolungamento del tempo a sua disposizione per concordare con i capi di Stato
e di governo la sostituzione dei commissari indicati come inadeguati dagli
eurodeputati o per destinarli ad altri portafogli, infine ottenendo la fiducia
dell’assemblea di Strasburgo il 18 novembre. È doveroso rilevare l’estraneità a
questa crisi istituzionale delle modifiche definite nel nuovo Trattato, ma nel
“caso Buttiglione” si è concentrato l’ambiguo spirito di contese valoriali non
ridotte a sintesi convincente. Operazione del resto impossibile sviluppandosi
nel chiuso di dibattiti autoreferenzialmente gergali, soffocati da una traduzione
mediatica in nient’affatto rigorose riflessioni su radici religiose di paesi indotti
a rapportarsi con atteggiamenti pregiudizialmente stereotipati all’“offensiva”
islamica, che in Al Qaeda sublima intenzioni e risentimenti diffusi.
È un riassunto che si attaglia perfettamente alle ripetute manifestazioni
di fastidio del Presidente del Senato Pera per il relativismo falsamente laico
della lobby non troppo nascostamente “comitologica” che a Bruxelles sarebbe
riuscita a sterilizzare le feconde potenzialità della “Costituzione” in fieri,
riducendola a un prolisso testo del «né, né». Cioè a una raccolta di definizioni
su quel che l’Unione oggi non è, piuttosto che preoccuparsi di contornare
un’identità di princìpi che riflettano la storia del continente
6
. E che nel
cristianesimo trovano la matrice unitaria per eccellenza, che il governo
Berlusconi intendeva rappresentare designando Buttiglione.
Una «congiura anti-cristiana» in pieno svolgimento
7
avrebbe però
ridotto il filosofo a «pietra di uno scandalo» appena incominciato e destinato a
proseguire, manipolando artatamente le sue dichiarazioni sulla peccaminosità
dell’omosessualità
8
. Vicenda dai risvolti grotteschi, salvo imporre una
riflessione più approfondita sull’impasse istituzionale, tamponata prolungando
di qualche settimana il mandato del Presidente uscente Prodi e ottenendo da
6
Cfr. M. Pera, “Quest’Europa è senz’anima. Solo la cristianità può dargliela”, Intervista di
Massimo Giannini, «la Repubblica», 31-10-2004, pp.1, 12-13, rif. p.12.
7
Ivi, p.13.
8
Cfr. R. Buttiglione, “Sono la pietra dello scandalo. Ho disturbato gli agnostici”, Intervista di
e.m., «la Repubblica», 31-10-2004, p.11.
11
Buttiglione dimissioni a cui si è risposto nominando Frattini, esponente di
Forza Italia, componente del Partito Popolare Europeo (PPE), ma distante dalla
amicizie vaticane del suo collega.
La peculiarità dell’accaduto risiede probabilmente nell’aver traghettato
nel contesto europeo una classica variabile discriminante, la religione, che,
unitamente alla classe, ha rappresentato per decenni in quasi tutti i paesi un
cleavage di ampiezza rilevante, ma che, in seguito all’attenuazione degli
schemi ideologici dominanti fino al 1989, aveva trasmesso la sensazione di
essersi ridotta a elemento non decisivo, di peso eguale agli altri che concorrono
a determinare gli orientamenti politici di società secolarizzate.
Di società nelle quali i rapporti Stato-Chiesa, e soprattutto quelli tra
valori sacri e profani, hanno perso la drammatica incompatibilità del passato,
liberando le coscienze dal timore di obbedire a Cesare tradendo i
comandamenti divini. Evidentemente anche questa pagina era stata voltata
troppo frettolosamente, nell’illusione di aver devitalizzato un conflitto invece
persistente, ancorché attenuato, come si è incaricata di mostrare indirettamente
l’affannosa ricerca di un consenso tra i praticanti delle varie confessioni, di
quella cattolica in primis, offrendo loro la possibilità di riconquistare la
centralità smarrita utilizzando l’auspicio del Pontefice Giovanni Paolo II a
veder comparire, nella Carta dei diritti prima e nel Trattato-Costituzione poi
(che la include), espliciti riferimenti alle radici giudaico-cristiane dell’Europa
come uno scudo contro la commistione culturale minacciata dalla congiunzione
tra razionalismo scientista e proliferazione delle moschee nelle città europee.
La strumentalizzazione del magistero della Chiesa, favorita dal fatto che
molti dei valori trasmessi sono riconosciuti e accettati anche dai non credenti,
garantisce certamente una pregnanza di quest’ultima, nonostante
l’indebolimento della pratica religiosa, ma permette altresì di rilevare in quale
misura si sia inceppato il ruolo dei partiti come cinghie di trasmissione e
rielaborazione democratica delle domande popolari.
12
La crisi istituzionale che ha offuscato l’appuntamento romano soltanto
con afflato giornalistico può etichettarsi come “successo del Parlamento”,
rivendicazione di una centralità conquistata gradualmente ma ancora lungi
dall’essere pienamente riconosciuta tale. Essa configura piuttosto la lenta
evoluzione verso una salutare dinamica di formazione di chiare opposizioni e
maggioranze, di rinuncia al consociativismo da “grande coalizione” a tutti i
costi. È dunque sintomo, e di rimando concausa, dei singhiozzanti investimenti
nella caratterizzazione di famiglie partitiche continentali, dalle piattaforme
programmatiche più omogenee, che rappresentino un passo oltre riunioni
lasche sotto simboli unificanti, confrontandosi con il definitivo rimescolamento
delle divisioni tra destra, centro e sinistra a cui dovrebbe costringere
fruttuosamente l’evoluzione dei partiti nei paesi dell’Est dopo un quindicennio
di stabilizzazione democratica.
L’urgenza, poco avvertita, giustifica lo spazio che abbiamo a tutto ciò
dedicato a sprazzi, talvolta apparentemente deviando dalla più sicura scelta di
una cadenzata ricognizione del dibattito politico e scientifico dipanatosi in
merito alla costituzionalizzazione dell’Unione.
Come infatti può dedursi da quanto accennato fino a questo punto, l’UE
è al cospetto di tre sfide:
- quella interna, che investe sia il suo ordinamento giuridico e politico, sia
quello dei paesi membri, che con il Trattato del 2004, ratificato per prima dalla
Lituania l’11 novembre, ha cambiato registro, entrando in una fase di delicato
approfondimento. Di essa si darà conto nella parte prima del lavoro,
scandagliando le asperità appostate tra le pieghe della Carta di Nizza (capitolo
1) e della “Costituzione” (capitolo 2);
- quella esterna, della recente “riunificazione” di un continente forzosamente
diviso dalla logica della contrapposizione per blocchi decisa a Yalta (capitolo
4), che non solamente è ancora da completarsi con gli ingressi già programmati
di Bulgaria, Romania e Turchia, ma che si connette alla
- sfida globale, al ruolo che la grande Unione intenderà giocare in un contesto
geopolitico che dopo il 1989 si è ridisegnato nel segno della guerra e di
13
disuguaglianze crescenti (capitolo 3), che rendono più che mai attuali e
drammaticamente ardui i tentativi di trasformare la blindatura degli attori
sociali nel privatismo, provocata dall’Unsicherheit
9
, in un’occasione da offrire
alla pace, alla concordia tra i popoli nella giustizia.
9
Un utile vademecum per evitare sovrapposizioni lessicali è offerto dal saggio di O. De
Leonardis, Declino della sfera pubblica e privatismo, «Rassegna italiana di sociologia»,
n.2/1997, pp.169-194.
14
Parte Prima
LA SFIDA INTERNA
15
CAPITOLO 1
La Carta di Nizza
Primo aspetto: la caduta della Commissione Santer e la vittoria del PPE
Il 3 e 4 giugno 1999 si riunì a Colonia il Consiglio europeo che,
inaspettatamente, decise di compiere un emblematico balzo in avanti nella
costruzione di un’Unione Europea sempre più integrata.
Nell’immediata vigilia delle elezioni convocate per rinnovare il
Parlamento di Strasburgo (10-13 giugno), i Capi di Stato e di Governo scelsero
di «rendere più manifesti i diritti fondamentali vigenti nell’Unione». La tragica
guerra del Kosovo da mesi lanciava grevi messaggi in merito alla fragilità
politica di un ibrido istituzionale, l’UE, alla ricerca di una definizione meglio
spendibile pubblicamente. Essa, infatti, pur coinvolta nelle turbolenze della
globalizzazione, procedeva per inerzia in ossequio alla tattica funzionalista dei
piccoli passi.
Eppure il 1999 si era aperto tagliando il traguardo dell’euro, risvolto
materiale, tangibile, del senso conferito per decenni all’impresa
dell’unificazione mercantile.
Dal primo gennaio 2002 la nuova moneta avrebbe incominciato a
circolare nelle tasche degli abitanti dei paesi aderenti a Eurolandia. L’iniziale
svalutazione nei confronti del dollaro aveva ridato fiato a tutte le compagini
politiche, sindacali, sociali, che si erano battute contro quella scelta
omologante e non di rado contro la severità dei parametri imposti per poter
accedere a un club fondato sul feticcio della “stabilità”.
Tale proiezione tecnocratica, burocratica, algidamente finanziaria di
un’Europa accusata da destra e da sinistra di essere ostaggio dei “banchieri” e
di certa “comitologia” dalle tentazioni pangiuridiciste, fu investita da una
conferma con lo scandalo che travolse la Commissione presieduta da Jacques
Santer. La denuncia di un funzionario dello stesso organismo portò alla luce
16
una serie di malversazioni di cui si erano resi responsabili alcuni commissari, a
partire dalla francese Edith Cresson. Un’assemblea parlamentare verso la
conclusione del proprio mandato esercitò notevoli pressioni affinché gli episodi
di corruzione emersi, di secondaria importanza e gravità se paragonati a quanto
verificatosi negli anni Novanta in Italia, Belgio, Germania, comportassero la
caduta di tutta la Commissione, senza tanti distinguo tra innocenti e colpevoli,
nella speranza di blandire il disgusto delle opinioni pubbliche nazionali e
soprattutto delle frange euroscettiche. Queste, che si erano date un assetto
meglio definito già in occasione dei referendum sul Trattato di Maastricht (solo
l’Italia e pochissimi altri paesi si erano affidati esclusivamente al voto
parlamentare), avevano ripreso vigore per pronunciarsi contro l’Euro. Infatti, al
momento della sua entrata in vigore, Danimarca, Regno Unito e Svezia ne
rimasero fuori per scelta, la Grecia temporaneamente per i ritardi nel
risanamento finanziario.
La necessità di giungere a una rapida conclusione della crisi innescata
dalle dimissioni della Commissione prima della scadenza elettorale, favorì
l’unico vero candidato ufficiale, Romano Prodi, ex Presidente del Consiglio
italiano, sostenuto maliziosamente dal suo successore, D’Alema, ma anche dal
Cancelliere tedesco Schröder e dal Premier laburista Blair.
Nominato ufficialmente il 24 marzo nel corso di un vertice
straordinario, e ottenuto il placet del Parlamento uscente il 5 maggio con
un’ampia maggioranza, il neo Presidente rimase a lungo titolare di una
legittimità dimezzata, dovendosi ripresentare al cospetto dei nuovi eletti, in
ossequio alle regole stabilite nel Trattato di Amsterdam, entrato in vigore il
primo maggio.
La procedura di conferma della Commissione fu nei mesi seguenti
piuttosto tribolata, essendo risultati sonoramente sconfitti i partiti della famiglia
socialista meglio disposti verso Prodi. Il crollo verticale del Labour Party, sia
pure in un paese talmente euroindifferente – per non dire euroinsofferente – da
far registrare un’affluenza alle urne del solo il 24% degli aventi diritto, della
SPD e dei DS contribuirono significativamente a elevare il PPE a formazione
con il maggior numero di seggi per la prima volta e, in seguito all’accordo con
17
i liberali raggruppati nell’ELDR, a denunciare gli equilibri della “grande
coalizione” con i socialisti, incrinando il consociativismo del passato per un
meglio delineato bipolarismo. Prodi si ritrovò così a dover affrontare le vibranti
richieste dei popolari di essere più adeguatamente rappresentati nell’esecutivo,
come atto dovuto per la svolta conservatrice espressa dal voto, ma i governi
socialisti, in ampia maggioranza nel Consiglio, si opposero. Il 15 settembre,
tuttavia, il voto dell’Assemblea dette il nuovo “via libera” al professore
bolognese e alla sua squadra, annunciata il precedente 9 luglio e presentata al
giudizio del Parlamento due settimane dopo.
Secondo aspetto: la necessità di rispondere alla minaccia dei movimenti
xenofobi ed eurofobici
Il secondo aspetto rimarchevole che spinse il Consiglio a compiere la
scelta di Colonia fu l’insicura difesa dei diritti in Europa in un clima di diffusa
disaffezione alla politica, solo parzialmente rilevabile attraverso la diserzione
delle urne o l’espressione di un voto di protesta dai connotati populistici.
L’insostenibile tasso di disoccupazione in aree fulcro di una virulenta
deindustrializzazione o, come il Mezzogiorno d’Italia, incapaci di adottare con
convinzione una strategia di sviluppo alternativa a quella affermatasi nelle
regioni dotate di poli tecnologici all’avanguardia, era, e continua a essere, un
formidabile propellente per la rancorosa adesione degli esclusi a partiti e
movimenti intenzionati a impastare richiami qualunquisti e neofascisti con una
critica a tutto campo, senza appello, alle lentezze compromissorie di un
parlamentarismo ingessato.
Le grida d’allarme lanciate da più parti, puntualmente sottovalutate,
quando non addirittura archiviate con fastidio, nonostante le reiterate
affermazioni del Front National di Le Pen, dell’UDC di Blocher, della DVU
ecc., si tramutarono in un’infausta profezia con l’affermazione elettorale del
18
partito liberal-popolare austriaco di Haider
10
. Ancora una volta presa sotto
gamba la performance delle europee (23,4%), fu solo l’ulteriore crescita nelle
politiche dell’ottobre seguente (26,9%) che gettò fondamenta durature per
scardinare il compromesso quasi costituzionale tra popolari e socialisti,
spingendo verso un esecutivo nero-blu guidato dal leader dell’ÖVP Schüssel e
inclusivo di ministri della formazione dell’abile affabulatore “Dottor H”
11
. Un
passato familiare tragicamente vicino all’ideologia nazista e dichiarazione rese
pubblicamente con “colorito” folklore verbale furono, a conti fatti, l’aspetto più
corrosivo della svolta viennese, che una notevole dose di opportunismo dei
popolari, in nome dell’autodeterminazione nazionale, cercò di riportare nelle
carreggiate di una maggiore ragionevolezza, premendo affinché lo scomodo
xenofobo rimanesse ai margini della vita dell’esecutivo, dirigendo
informalmente i suoi uomini. Strategia effettivament pagante, dato che nelle
elezioni del 2003 l’ÖVP sfiorò la maggioranza assoluta dei seggi e gli alleati
“liberali” persero quasi la metà dei voti. Ma strategia premiante anche per
Haider, riconfermato il 7 marzo 2004 a furor di popolo Governatore della
Carinzia, a testimonianza della perdita di innocenza degli austriaci, nonostante
alcuni segnali in controtendenza giunti da Vienna, ritornata il cuore
progressista dell’Europa centrale, e dell’elezione alla Presidenza della
Repubblica, il 25 aprile 2004, del socialdemocratico Heinz Fischer, in un tipo
di consultazione nella quale, va onestamente rilevato, la limitata scelta tra due
candidati in un paese in cui vi sono poco più di sei milioni di aventi diritto al
voto, l’esito della chiamata alle urne non può essere frainteso per fedele
registrazione degli umori profondi dell’elettorato (la cui astensione, cresciuta
del 4% rispetto alle presidenziali del 1998, rese la percentuale dei votanti la più
bassa da quando il Presidente federale viene eletto direttamente).
10
In prima fila nel respingere la connotazione neofascista di quasi tutti i partiti d’estrema
destra, Marcello Veneziani, del quale si legga l’esemplare Uno spettro si aggira in Europa. Ma
non è fascismo, «La Gazzetta del Mezzogiorno», 5-5-2002, p.23. Severo assertore dello stampo
naziponal-populista di tali partiti M. Tarchi, del quale, oltre a un’ingente mole di interventi
dedicati al tema con la rivista «Trasgressioni», si segnala Dal neofascismo al
nazionalpopulismo. La parabola dell’estrema destra europea, «Italianieuropei», n.4/2002,
pp.188-197.
11
Mutuiamo la fosca espressione dal titolo di un fortunato libro del giornalista RAI Bruno
Luverà, dedicato alla ricostruzione dell’exploit elettorale delle destre europee. Cfr. B. Luverà,
Il Dottor H. Haider e la nuova destra europea, Einaudi, Torino, 2000.
19
Terzo aspetto: guerra in Kosovo (24 marzo -10 giugno 1999)
Una terza regione influenzò la decisione del Consiglio: il trovarsi nel
pieno della guerra in Kosovo.
Nonostante l’era clintoniana, segnata da un atteggiamento Europe
oriented dei vertici dell’amministrazione, permaneva l’indisponibilità a
imbastire una partnership sinceramente paritaria con il Vecchio e
“sgangherato” continente. Rimaneva la tentazione di essere alfieri del new
world order immaginato da Bush senior, e quindi il netto rifiuto, corroborato
da azioni dissuasive, di archiviare come capriccio di bambini talvolta inquieti,
l’idea di un containment della propria capacità e libertà di agire.
La rivolta dei kosovari contro le angherie inflitte dalla polizia serba era
stata resa più violenta, se possibile, dal sentimento di deprivazione per
un’autonomia già concessa da Tito nel 1972 e in seguito sottratta da Milošević,
sebbene nella regione vi fosse una rilevante maggioranza della componente
albanese. L’incancrenirsi di fratture etno-nazionali, che qualche mese prima
aveva significato vere e proprie persecuzioni a fini di pulizia etnica in Bosnia,
con un rituale contorno di stupri e stragi senza pietà, aveva sconfitto già in
partenza l’Europa, malgrado il tentativo di soluzione diplomatica esperito
mediante la Conferenza di Rambouillet, fallito anche per l’invadenza del
Segretario di Stato, Madaleine Albright, intenzionata a rimarcare la primazia
americana in ambito diplomatico, stringendo un accordo diretto con i ribelli
albanesi
12
. Classica goccia in grado di far traboccare il vaso.
Il 24 marzo, ufficialmente in risposta alle ennesime stragi ordinate dal
semi-dittatore di Belgrado, incominciarono i bombardamenti della NATO, il
cui esercito, comandato dal Generale Wesley Clark, eluse la prudenza europea,
consegnando al Presidente Usa la chance di siglare accordi di pace senza
ricorrere alle forze di terra, sacrificando la “capacità” degli ordigni di evitare
bersagli civili.
In realtà, così come a Dayton, il dominus della situazione fu
l’“America”, interessata a stabilizzare la polveriera balcanica senza alcuna
12
Cfr. R. Di Leo, Lo strappo atlantico. America contro Europa, Laterza, Roma-Bari, 2004,
p.68.
20
remora nel dirigere un’iniziativa dell’Alleanza Atlantica in palese deroga alla
Carta dell’ONU, scavalcando con arroganza ogni parvenza di autorizzazione
del Consiglio di sicurezza, in cui era presente la Russia, tradizionalmente
vicina alla Serbia. E pensare che in seguito fu l’ex Presidente del Consiglio
Cernomyrdin a favorire l’accordo che pose fine (?) alle ostilità, dopo lunghi e
complessi negoziati e una spola infinita tra Mosca, Belgrado e le principali
capitali europee.
Evidente più che mai a Colonia l’esigenza di iniziare a dare vita a una
politica estera comune, dopo che la crisi kosovara era stata militarmente gestita
dalla Casa Bianca non soltanto su territorio europeo, ma lanciando gran parte
dell’offensiva dalle basi italiane, ossia da un paese socio fondatore di
quell’ampia parte del continente stretta in un’Unione dotatasi persino di una
moneta comune proiettata a diventare valuta internazionale di riserva
unitamente al dollaro.
L’esigenza dei “Quindici” di smarcarsi dalle logiche NATO, trattato
militare egemonizzato dagli Usa, trovarono a Colonia l’occasione per
compiere, naturalmente in sintonia con l’Alleanza Atlantica, qualche titubante
passo per una più intima collaborazione nell’industria bellica. La decisione di
maggiore significato politico fu la designazione dello spagnolo Javier Solana a
“Mister Pesc”, in ossequio a quanto previsto dal Trattato di Amsterdam. Scelta
ambigua, giacché il nuovo responsabile della Politica estera e di sicurezza
dell’Unione aveva diretto l’attività della NATO ricoprendo la carica di
Segretario generale, e nelle settimane della guerra in Kosovo era risultato in
prima linea nel coordinamento di un’operazione di ingerenza umanitaria che
aveva lacerato i paesi, sottoposto a rimarchevoli tensioni gli esecutivi, diviso
gli intellettuali di più efficace impatto sulle opinioni pubbliche, spesso incapaci
di articolare credibili posizioni dinanzi a eventi incalzanti dai quali veniva
cassato ogni discorso teso a sottolineare la priorità di interrompere
definitivamente la spirale della violenza, per semplificare l’oggetto delle prese
di posizione nell’appoggio o nel rifiuto della logica militare in difesa della
resistenza coordinata dall’Uck e sostenuta dall’Albania.