5
nuova generazione di strumenti urbanistici flessibili, basati sull’incontro delle volontà
pubblico - private nella fissazione delle prescrizioni urbanistiche.
Questo nuovo tipo di programma, inaugura una serie di sistemi definiti successivamente
con il nome di Programmi complessi, ponendosi come tentativo di rimediare alla ormai
insanabile distanza tra i tempi della pianificazione urbanistica tradizionale e la necessità di
bloccare il degrado crescente della città.
Distaccandosi dai tradizionali sistemi di pianificazione territoriale, tali programmi
hanno rappresentato il primo passo verso il nuovo “tema” dell’urbanistica consensuale che,
con le opportune cautele, sembra rappresentare uno strumento innovativo per la realizzare di
operazioni territoriali di ampio respiro, nonché una soluzione efficace e strategica per la
ridinamizzazione del territorio urbano.
Il Programma Integrato d’Intervento ha la sua origine normativa nell’art. 16 della legge
n.179/92 e, per la Regione Abruzzo, nell’art. 30 bis della legge regionale n.18/83. Si tratta di
un strumento urbanistico, quasi sempre in variante al piano regolatore, il cui contenuto è
liberamente determinato dalle parti purché funzionale alla realizzazione di una
riqualificazione ambientale in senso lato di un territorio circoscritto.
La funzione di riqualificazione urbanistico - edilizia - ambientale della zona interessata
viene fissata dal legislatore attraverso la previsione di diverse funzioni e tipologie di
intervento, successivamente formalizzate nel contenuto del contratto urbanistico (che attua il
piano e realizza le funzioni).
Il programma integrato considera la realizzazione di nuovi edifici, il potenziamento di
infrastrutture pubbliche esistenti (allargamento di strade e rifacimento di marciapiedi e
dell’arredo urbano) la realizzazione di opere pubbliche e di interesse pubblico (scuole, teatri,
parchi pubblici) il recupero del patrimonio edilizio esistente e definisce le diverse destinazioni
d’uso insediabili su una determinata area. Affinché tutti questi interventi costituenti il piano si
traducano in un programma integrato, è essenziale che si verifichi una riqualificazione
territoriale, ovvero un miglioramento significativo della qualità urbana in senso lato che
successivamente si riverberi sull’intero territorio.
Il fattore di successo del programma integrato consiste nel realizzare l'integrazione sotto
vari profili, traducendosi in tentativo di coniugare il tradizionale aspetto della scelta sulle
destinazioni (pianificazione primaria) con l'aspetto più marcatamente gestionale e operativo.
Tali aspetti, generalmente ritenuti oggetto di momenti distinti e non interferenti sono, dal
punto di vista dell'economia di mercato (nell'ottica cioè dell'urbanistica consensuale)
profondamente connessi tra loro: si passa dalla previsione urbanistica al progetto urbano
attraverso un unico procedimento.
6
Una pianificazione di settore o di parti di città che non si limita a dare prescrizioni
sull'uso dei suoli ma arriva a definire un progetto complessivo dell' area con caratteri di
immediata esecutività.
Un rigoroso e competente uso di tali strumenti può realizzare una gestione ottimale e
democratica del territorio, obiettivi fondamentali per la pubblica amministrazione. Gli
imprenditori, d’altro canto, possono contribuire alla realizzazione degli interessi pubblici pur
perseguendo il proprio utile d’impresa attraverso la proposizione di idee innovative che
aiutino a migliorare lo standard della qualità urbana ed ambientale delle città.
Questo lavoro vuole illustrare gli aspetti normativi e la fisiologia giuridica dei
Programmi Integrati d’Intervento, senza limitarsi ad una mera ricognizione del novero delle
disposizioni esistenti. Ci si soffermerà sugli elementi di rottura con la vecchia disciplina
urbanistica, sul nuovo rapporto fra pubblico e privato. Saranno menzionate, inoltre, le diverse
opzioni legislative emerse a livello regionale, con particolare attenzione alla legislazione
regionale abruzzese vigente. Infine si cercherà di fornire elementi e spunti di riflessione sugli
attuali mutamenti ed indirizzi di questo particolare strumento.
7
Capitolo 1
Le nuove regole per la trasformazione urbana: i programmi complessi
1.1. I programmi complessi: contesto storico - urbanistico di formazione
Esigenze legate alla trasformazione urbana delle città e al connesso panorama
urbanistico italiano sottolineano sul finire degli anni 80, la necessità di una strumentazione
urbanistica “differente” o comunque “alternativa”, che potesse sostituirsi ai più tradizionali
dispositivi della pianificazione urbana per un ripensamento strategico della città.
La crisi degli strumenti urbanistici tradizionali era già manifesta: l’armamentario della
urbanistica operativa (tradizionalmente scarno) si era rivelato poco efficace a causa delle
difficoltà insite nell’operare attraverso un piano farraginoso, connotato da una prassi
burocratico – amministrativa “stancante”.
Il P.R.G., archetipo della strumentazione urbanistica, nato dalle istanze di ricostruzione
del dopoguerra e dalle esigenze di espansione delle città, era basato sulla volontà di un
ordinato sviluppo del territorio, quale fine ispiratore e superiore dello Stato
1
. L’assunto
originale alla base della tradizione urbanistica italiana (legge n.1150 del 1942) muoveva dalla
constatazione che la destinazione d’uso impressa ai suoli dai piani regolatori, fosse necessaria
e funzionale alla localizzazione delle attività residenziali ed economiche. Il principio del
primato del soggetto pubblico sulla pianificazione del territorio, la sua eticità intrinseca e la
teorica capacità di contemperare in modo esteso gli interessi in gioco sembravano dotare lo
strumento pianificatorio di una capacità ipoteticamente perfetta, giusta, equitativa, capace di
prevedere la spesa pubblica, controllare le rendite, ridistribuire i profitti. Un approccio che,
anche se permeato da forti connotati ideologici trovava tuttavia un limite nella sua stessa
natura considerando come prius la pianificazione territoriale rispetto alla localizzazione delle
attività economiche.
Pianificazione territoriale e scelte economiche viste in quest’ottica, hanno generato un
rapporto conflittuale e una legittima “resistenza” da parte del privato, a causa degli effetti che
dalle scelte pianificatorie derivano per la proprietà. La definizione e la regolamentazione di
tali rapporti hanno sempre rappresentato uno dei problemi centrali dell’urbanistica che sembra
possibile risolvere solo su basi diverse da quelle a disposizione degli strumenti tradizionali.
1
D’altro canto, la stessa Costituzione - art. 3, comma 2 – afferma che lo Stato mira a “rimuovere gli ostacoli di
tipo economico e sociale” che impediscono il raggiungimento dei fini di trasformazione dell’assetto sociale
intervenendo in prima persona e non più solo assecondando il libero godimento della proprietà privata. Di qui il
richiamo di una parte della dottrina giuridica più attenta ai problemi urbanistici ( Cfr. A. Predieri, Pianificazione
e costituzione, Giuffrè, Milano 1963, p.41), alle norme costituzionali, da un lato attribuendo all’urbanistica
carattere traente e propulsore verso un nuovo modello di società civile e dall’altro esaltando la funzione sociale e
non più egoistica della proprietà (art.42, comma 2 della Costituzione: “la proprietà può essere, nei casi previsti
dalla legge, espropriata per motivi di interessi generali”).
8
La struttura della “zonizzazione”
2
impressa dal piano all’intero territorio, con la relativa
individuazione “rigida” di aree di espansione residenziale, aree destinate ad insediamenti
produttivi, aree a destinazione terziaria e/o direzionale, proprio perché fortemente incidente
sugli aspetti economici e sociali dei luoghi, avrebbe dovuto configurarsi come risultato di un
processo di conoscenza non delle sole caratteristiche fisiche del territorio, ma anche delle sue
vocazioni turistiche, produttive e culturali, come pure della composizione sociale ed
economica e della prevedibilità degli investimenti. Date le premesse, qualsiasi
amministrazione, a qualunque livello di governo del territorio, avrebbe dovuto dotarsi di
idonei strumenti di analisi e verifica sul campo, per recepire e reindirizzare scelte urbanistiche
e ipotesi di sviluppo urbano in un ragionevole arco di tempo. Questo sarebbe stato utile a non
originare dispositivi non rispondenti alle esigenze ed alle aspettative del territorio e della
comunità economica insediata.
Il piano regolatore al contrario, per quanto detto, probabilmente perché disatteso nelle
sue attuazioni pratiche, non ha avuto la capacità di prevedere in termini sufficientemente certi
lo sviluppo futuro, né di recepire per tempo i mutamenti economici e sociali del territorio.
Troppe volte ci si è trovati nella condizione in cui le ipotesi di espansione non si realizzavano
o erano sottostimate, la mutevolezza e l’accelerazione dei processi economici e dei sistemi
produttivi e sociali era tale da non poter essere considerata, per cui il risultato finale non
poteva che essere un prevedibile scollamento tra prescrizione urbanistica ed aspettative
economiche.
Lo strumento di pianificazione scaturito nasce già vecchio rispetto alle aspettative e alle
concrete iniziative ed esigenze del territorio.
Tutto il decennio 1980-1990, pone l’Italia in netto ritardo rispetto all'Europa nel
risanamento delle crescenti disfunzioni delle città. Mentre nei paesi più evoluti da tempo
risultavano messi a punto ed operanti strumenti di tipo nuovo, mirati alla scala urbana e alla
sua complessità crescente, il nostro Paese rimaneva ancorato ad una concezione tradizionale
della disciplina urbanistica, costruita sulle regole del divieto oppure sulle logiche
dell'attribuzione di edificabilità ai singoli suoli.
2
Le radici dello zoning vanno ricercate nelle prime esperienze di pianificazione urbanistica in Germania già alla
fine dell’Ottocento, esperienza poi diffusasi in Europa e negli Stati Uniti. Ha all’inizio, un fondamento politico
di discriminazione tra aree, dettato dall’esigenza di salvaguardare gli interessi delle classi medie dai fenomeni
immigratori che ponevano problemi di commistione di funzioni urbane, di tipo residenziale e industriale. Il
concetto più recente di zonizzazione del territorio comunale si presta a due diverse interpretazioni: la prima, di
tipo istituzionale, vede nella divisione del territorio in zone l’espressione più alta della pianificazione degli usi
dei suoli, distribuendoli in modo equilibrato secondo tipologie, riprese poi dal DM del 1968, evitando in tal
modo commistioni tra gli usi e disordine urbanistico; la seconda, più legata al mercato, vede nella zonizzazione
un formidabile strumento di formazione e consolidamento della rendita fondiaria ed edilizia: concentrando in
poche zone l’edificabilità non si fa latro che aumentare il valore di quelle aree rese edificabili dal piano. Una
edificabilità generalizzata, al contrario, abbassa il valore dei terreni e riduce i margini di vantaggio economici, a
scapito anche di una maggiore certezza degli investimenti. Cfr. F. Mancuso, Le vicende dello zoning, Il
saggiatore, Milano 1978.
9
Se è vero che in quegli anni, la fine dell'epoca dell'espansione edilizia, unita ad una fase
storica contrassegnata dalla recessione economica, porta ad un profondo ripensamento degli
assetti urbani, frutto della crescita spasmodica dei precedenti decenni, è anche vero che si
manifesta a livello di società civile, una forte richiesta di riqualificazione, di recupero, di
riconversione - anche sociale - di vaste porzioni di città. Elemento dominante del processo è
l’effetto combinato del contemporaneo esaurirsi della fase di crescita urbana, unito al calo di
interesse nei confronti della pianificazione urbanistica e dei suoi strumenti tradizionali.
E’ evidente che la scarsa capacità operativa dimostrata dal sistema pianificatorio, unita a
una crescente stanchezza nei riguardi di ogni sorta di meccanismi di ingegneria procedurale,
possano aver accelerato un processo già in atto da tempo. Tale circostanza ha contribuito a
fornire una sorta di giustificazione morale alla semplicistica convinzione che l'urbanistica
potesse aver perso il suo ruolo principale, diretto ad assicurare uno sviluppo equilibrato del
territorio. Dal punto di vista della "pratica" amministrativa, la pianificazione intesa esclusiva-
mente come banale attribuzione di indici fondiari perde terreno davanti alla stasi demografica
e al radicale cambiamento qualitativo del mercato edilizio.
Due le strade percorribili, contrapposte tra loro: la prima, maturata negli ambienti della
cultura urbanistica, consisteva nell' avviare una riflessione complessiva sui principi e sugli
strumenti di governo del territorio, come in una certa misura è avvenuto qualche anno dopo
3
,
in particolare a livello di legislazione regionale
4
. La seconda, per certi versi più agibile,
ripiegava sul cosiddetto "piano dei vincoli", interpretando la pianificazione urbanistica come
strumento impositivo, finalizzato ad imporre ciò che non si può e non si deve fare. Quest’
ultima è la criticabile soluzione predominante a metà degli anni Ottanta. Da un costante
processo di identificazione del piano con il vincolo è derivato un ulteriore motivo di
insofferenza nei confronti della disciplina urbanistica e dei suoi strumenti, ritenuti ormai
superati o comunque "superabili", mediante le leggi che lo Stato e le stesse regioni
emanavano di volta in volta, sotto la spinta delle esigenze straordinarie di turno.
Così il piano generale, a sua volta, è diventato lo strumento più scomodo, non essendo
stato capace né di attuare le previsioni né di impedire il degrado del territorio e delle risorse
(naturali, ambientali, culturali e antropiche) in esso presenti.
Questi anni sono contraddistinti dalla totale mancanza di strumenti efficaci, dall'atavica
carenza di finanziamenti certi per attuare le previsioni urbanistiche e dalla manifesta
debolezza del piano vincolistico di fronte alle esigenze della comunità e del mercato.
3
Nel XXI Congresso di Bologna (1995) l'INU lancia una proposta di riforma delle regole e dei principi dell’
urbanistica.
4
La prima legge regionale per il governo del territorio è la legge Toscana n. 5 del gennaio 1995. Da allora ad
oggi sono ormai pochi gli enti territoriali che non abbiano legiferato su questa materia proponendo - secondo le
più variegate declinazioni - alcuni dei temi cari alla proposta dell'INU come, ad esempio, la separazione tra
pianificazione strategica e pianificazione operativa.
10
Questioni che hanno portato, oltre a un continuo ripiegamento sui temi più vicini
all'architettura, alla convinzione che il piano potesse essere - pienamente e utilmente -
sostituito dal progetto. Il tutto, a scapito di un serio approfondimento delle cause alla base del
crescente declino dell'urbanistica tradizionale.
L’arrivo degli anni Novanta, conduce a un radicale cambiamento di rotta: è mutato
quasi definitivamente lo scenario in cui si attua l'intervento urbano e dalla fase di espansione
fuori o a ridosso del centro abitato, si individua nella cosiddetta "crescita della città nella
città" la soluzione più idonea per rispondere sia alle domande di qualità abitativa e urbana che
alle esigenze del mercato edilizio.
Questo cambiamento, oltre a richiedere un maggiore sforzo in termini operativi,
necessita peraltro di un'abbondanza di risorse finanziarie cui è assolutamente impossibile far
fronte con i soli fondi pubblici, senza ricorrere all'investimento economico privato. Non è
possibile affidare importanti operazioni di riqualificazione urbana al piano "disegnato" degli
anni Ottanta: troppi sono gli insuccessi dovuti a un'intrinseca rigidezza di questo strumento
che non consente un agevole passaggio all'attuazione degli interventi da parte del soggetto
pubblico e, contemporaneamente, impedisce il necessario coinvolgimento del privato in
termini di apporto economico, capacità operative e gestionali. Cominciano proprio in questo
decennio, come accennato in apertura del capitolo, a prendere piede strumenti di altro genere
che, collocandosi a metà strada tra il piano urbanistico tradizionale e il progetto propriamente
edilizio, sembrano in grado di rispondere alle nuove esigenze di rigenerazione delle città.
Non ancora noti sotto il nome di Programmi complessi (denominazione più tardi diffusa
fra gli addetti ai lavori) questi strumenti cercano di porre rimedio all’ allarmante distanza tra i
tempi della pianificazione urbanistica tradizionale e l’urgenza problema del degrado crescente
dell’ambiente urbano. Nascono, perciò, su basi antitetiche a quelle dei piani tradizionali. Ne
conseguono connotati del tutto diversi: durata relativamente breve rispetto al periodo medio -
lungo del piano; previsioni realisticamente fattibili, stante la disponibilità di risorse finanziarie
certe, di provenienza sia pubblica sia privata; ricorso al consenso delle varie parti in gioco
invece dell'imposizione nei confronti delle proprietà ricadenti all'interno del perimetro dello
strumento urbanistico. Ulteriore elemento discriminante, grazie all'adozione di una logica
integrata, è il superamento della monofunzionalità per singole zone, con la quale si procedeva
e spesso si procede tuttora nell'ambito della pianificazione tradizionale.
In sostanza, una chiave di lettura nuova; un tentativo di risposta - benché parziale - alla
crisi irreversibile degli strumenti urbanistici tradizionali. Sotto questo punto di vista, è
necessario valutare con grande attenzione la rilevanza dei Programmi complessi nei confronti
delle logiche obsolete, a base della legge urbanistica nazionale. Essi hanno operato una rottura
piuttosto decisa rispetto alla consueta separazione tra previsione urbanistica e attuazione
11
edilizia, ed hanno superato la tradizionale frattura tra sfera pubblica e privata, nociva innanzi
tutto alla qualità della città e del territorio.
Oggi, i Programmi complessi, sono una serie di strumenti che approcciano la materia
urbanistica mediante una lettura integrata di riqualificazione del territorio, sviluppo sociale e
sostenibilità ambientale non disgiunta spesso da istanze sociali ed immateriali, finalizzati ad
una nuova chiave di lettura tesa al rinnovo dell’identità urbana. Il tutto fornendo un nuovo
ruolo ai privati: propulsivo o di impulso, di partecipazione con risorse finanziare proprie alla
attuazione del piano, e di possibile cooperazione con il Comune nella determinazione dei
contenuti.
1.2. Il quadro normativo di origine
Il punto di partenza normativo per una lettura “retrospettiva” dell’esperienza legata a
questi strumenti ed al loro sviluppo è il 1978, dove la nascita dei programmi complessi in
Italia trova una prima genesi nelle “politiche della casa” relative alla Edilizia Residenziale
Pubblica (ERP) definita dalla legge 457/1978. Questa legge al suo nascere definisce:
• nuove modalità di approccio alle politiche della casa (recupero dell’abusivismo,
piani e programmi di recupero per i centri storici);
• rende meglio applicabili le indicazioni date dalla 167/1962 e dalla 865/1971;
• stabilisce le linee e le modalità di finanziamento relative alla ERP nella fase di
liquidazione degli istituti previdenziali come la Gescal che erano stati promotori della
politica della casa fin dagli anni ’50.
A livello normativo, vi è l’anticipazione a livello nazionale della nuova politica della
ERP data dall’art. 18 della L. 203/1991, relativa alla realizzazione di residenza per le forze
dell’ordine.
La legge 179/1992, di cui parleremo ampiamente, riprende le sollecitazioni e le
indicazioni date dal CER (comitato per l’edilizia residenziale) e dal CIPE (Comitato
interministeriale per la programmazione economica) definendo tutte le modalità e le
possibili opzioni per la realizzazione della politica della casa, con riferimento a esperienze
pionieristiche maturate da alcune regioni, ed ha come finalità la celere attuazione delle
trasformazioni previste dai programmi per la ERP, anche in variante agli strumenti urbanistici
vigenti.
E’ il 1992, quando si parla per la prima volta di Programmi Integrati d’Intervento
(nel testo PII d’ora in avanti) primo strumento in assoluto e più in generale capostipite di
tutti i programmi complessi.
12
Oggi, ad oltre dieci anni dall’introduzione nell’ordinamento urbanistico dell’istituto del
programma integrato d’intervento, nuove e più evolute generazioni di strumenti urbanistici
flessibili, basati sull’incontro delle volontà pubblico – private, hanno accresciuto la “famiglia”
dei programmi complessi.
Dal punto di vista legislativo, la legge 179 del 1992 ha avuto un effetto dirompente nel
preesistente sistema di pianificazione urbanistica, proponendo un nuovo strumento
urbanistico, capace di localizzarsi (praticamente) ovunque sul territorio comunale, porsi in
deroga alla disciplina di piano vigente, comportare modificazioni rilevanti sul tradizionale
sistema della divisione in zone del PRG e sulla loro destinazione rigidamente funzionale.
L’introduzione del PII, ha impresso un’accelerazione notevole alle tecniche giuridiche
del pianificare che hanno subito modificazioni consistenti ed impensabili fino a pochi anni fa.
Infatti, da questo primo strumento si sono sperimentati e poi affiancati altri programmi
con caratteristiche diverse e complementari allo stesso tempo: i programmi di riconversione
urbana o quelli di recupero urbano infatti, fino ai più recenti PRUSST non sono altro che
modalità diverse di esercizio delle funzioni urbanistiche che si differenziando dal modello
originario per una più ricca declinazione degli attori pubblici o per una differente soglia
d’intervento di tipo superlocale.
Il rapido consenso acquisito da questi strumenti ne ha in poco tempo fatto maturare
potenzialità inizialmente appena delineate, al punto da fare assumere loro, nelle più recenti
evoluzioni della legislazione regionale, contenuti e caratteristiche di "strumenti urbanistici" di
tipo attuativo, dotati di un'operatività alternativa a quella della pianificazione tradizionale.
Apporto di risorse pubbliche e private, capacità di produrre progetti mirati alla città o
diretti a porzioni specifiche del territorio, presenza di più funzioni e di opere di
urbanizzazione legate alla concentrazione territoriale degli interventi, procedure accelerate,
sono questi i motivi che ne hanno determinato il crescente successo, in un lasso di tempo
relativamente breve.
Ne sono testimonianza le numerose denominazioni oggi in uso presso gli addetti ai
lavori: PII, PRU, POI (liguri), PRIU, Contratti di quartiere, URBAN I, URBAN II e URBAN
ITALIA, PRUSST ecc. e il riconoscimento di questi programmi complessi ormai presenti in
tutte le legislazioni di settore a livello regionale. Non secondaria infine, l’illuminante
esperienza di alcuni Paesi europei che hanno frequentemente applicato tali strumenti nel
tentativo di risolvere i problemi dei “quartieri in difficoltà”
5
e delle realtà urbane, soprattutto
di quelle di dimensioni contenute, in condizioni di crisi economica.
5
Cfr., ad esempio, l’esperienza dei “grandi progetti urbani” (Gpu) in Francia, considerati come lo stadio
superiore dell’intervento dello Stato (cfr. C. Chaline, Les politiques de la ville, Que-sais-je?, Puf, Paris 1977.
13
Lo studio che segue tratta ampiamente i PII, come prima tipologia di programmi
complessi “a regime” entrati strutturalmente nel quadro legislativo nazionale, dalle cui
caratteristiche si sono sviluppate le successive tipologie di programmi nazionali e regionali.
1.3. Dai piani di recupero ai Programmi integrati
La descrizione fino ad ora fornita dei PII, ha posto in evidenza le generiche diversità
con gli strumenti urbanistici presenti a tutto il 1992.
Particolare attenzione vorrei porre in questo paragrafo allo strumento del Piano di
Recupero, che per le finalità ed intenzioni sembra condividere numerosi aspetti con i
programmi nati dalla 179/92. Dal Piano di recupero della legge 457/1978, al Programma
integrato molte cose erano cambiate.
Come si è già accennato, si era certamente accresciuto il degrado, soprattutto in assenza
di interventi significativi e continuativi di manutenzione, ma erano modificati anche i contesti
sociali, le strutture amministrative pubbliche centrali e locali e, in particolare, le condizioni
generali dell'economia del Paese. Il Piano di recupero nasce dopo un lungo dibattito sul riuso
del patrimonio edilizio esistente, in particolare di quello abitativo, con l'obiettivo di far
confluire in questo settore un consistente volume di investimenti pubblici e privati, sia per
qualificare socialmente la politica pubblica relativa alle abitazioni che per cominciare a
contenere le espansioni incontrollate delle città, portatrici di costi e di squilibri.
Tale piano si riferisce a particolari aree urbane stabilite dai Comuni che in genere
coincidono o sono localizzate all'interno delle zone "A" di PRG (centro storico). Lo
strumento, di norma è predisposto dal Comune, che attraverso questo utilizza anche i
finanziamenti assegnatigli dalle Regioni, avvia il recupero dell'edilizia residenziale di
proprietà pubblica e, limitatamente ai casi di rilevante e preminente interesse pubblico, il
recupero residenziale di immobili degradati di proprietà privata attraverso esproprio o
convenzionamento con i proprietari. Ma anche i privati possono proporre Piani di recupero
purché i richiedenti rappresentino il 75% del valore degli immobili interessati e siano disposti
a sottoscrivere, all'unisono, con il Comune una convenzione urbanistica
6
.
Gli esiti di questi piani, tranne alcune eccezioni, sono stati deludenti rispetto alle
aspettative. In sostanza, non hanno dato risposta alle principali motivazioni per cui erano stati
avviati: frenare il degrado e circoscrivere la crescita tumultuosa delle periferie urbane. Le aree
di piano erano troppo circoscritte; l'intervento pubblico non è stato in grado di coinvolgere
adeguatamente quello privato, stimolato soltanto in misura minima dalle agevolazioni
creditizie gestite dalle Regioni; la promozione attiva dei privati non ha dato adito a operazioni
6
G. Nigro, G. Tamburini, Recupero e pianificazione urbana, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1989.
14
significative. Paradossalmente, dunque, proprio quelle periferie di cui si voleva evitare la
crescita indiscriminata sono divenute oggi l'oggetto dei programmi integrati. Si tratta in
particolare di quelle periferie costruite e sviluppate per volontà della mano pubblica attraverso
i Piani di zona, strutturati da edilizia spesso dI scarsa qualità, perlomeno dal punto di vista del
materiali, e priva il più delle volte dei servizi fondamentali
7
.
Su questi luoghi si è reso necessario intervenire soprattutto dal momento in cui si è
compreso che recuperare la città non voleva dire soltanto recuperare i centri storici, alcuni dei
quali nel frattempo avevano trovato proprie e convenienti modalità di
trasformazione/ristrutturazione, ma anche migliorare i modi di vita delle comunità insediate
nei rapporti con gli spazi "esterni", dai prati disadorni ai ballatoi disabitati e pericolosi; dagli
intorni abbandonati che definiscono le separazioni fisiche dalle altri parti di città, certamente
più strutturate, all'assenza di servizi basilari e di spazi pubblici costruiti.
Dal semplice recupero dell'immobile al recupero "infrastrutturale" e qualitativo
dell'intorno urbano; dal centro storico alle periferie: ma non si fermano qui le diversità dei
programmi integrati dal Piano di recupero.
Programma e non piano (e su questo ci si soffermerà ulteriormente) intervento privato
come essenziale fattore moltiplicativo delle risorse messe a disposizione dal pubblico
nell'ottica di "trattare" e "scambiare" regole, diritti e proprietà in cambio di aree e/o di
realizzazione da parte del privato di opere di adeguamento infrastrutturale e di trasformazione
urbana di qualità: su questi elementi basilari punta il nuovo strumento.
1.4. Il Programma Integrato d’Intervento come strumento per una politica di
rinnovo urbano
Per quanto detto finora quindi, il PII si connota subito come strumento per eccellenza
per il rinnovo della città. Nasce come strumento legato all'edilizia residenziale pubblica e cor-
relato alle dinamiche, alle modalità di intervento e alle esigenze della città ancora in
espansione.
Da approccio complementare alle consuete categorie per l'edilizia residenziale pubblica
- distinte tra sovvenzionata, agevolata e convenzionata - il PII
8
, introduce metodologie nuove
7
p, Avarello, Cinquant'anni di legge urbanistica in Italia 1942-1992, in "La città del futuro", ANCE/Edilstampa,
Roma 1993.
8
In attesa del perfezionamento dell'iter parlamentare della legge Botta - Ferrarini (legge n. 179/ 1992), il CIPE
promuove altri due provvedimenti (27 ottobre 1988 e 30 luglio 1991) che fanno esplicito riferimento ai
programmi edilizi e urbanistici integrati. È da sottolineare che il legislatore interpreta tali programmi come
strumento operativo del piano urbanistico attuativo e non come strumento ad esso equivalente: infatti, essi
"riguardano l'attuazione di piani di recupero di cui all' art. 28 della legge n. 457/1978, di piani particolareggiati o
altri strumenti ad essi equiparabili, ai sensi di leggi anche regionali".
15
di intervento, per la prima volta direttamente mirate alla città, utilizzando una via di mezzo tra
il piano e il progetto come strumento per controllare contemporaneamente sia la fase
urbanistica sia quella più propriamente edilizia. E’ qui che il PII, inizia a prendere piede,
avendo le opportune caratteristiche per collocarsi a metà strada tra il piano urbanistico
tradizionale e il progetto propriamente edilizio, in grado di rispondere alle nuove esigenze di
rigenerazione delle città.
Rifunzionalizzazione di aree industriali dismesse e di parti degradate della città,
centrali o periferiche; completamento di urbanizzazioni nelle zone già oggetto di interventi di
edilizia residenziale pubblica ecc. non sono altro che i temi e gli ambiti d’intervento di tali
programmi sulla città.
Diversamente dai tradizionali strumenti di pianificazione, impegnati sul lungo periodo
tenendo conto soprattutto delle trasformazioni di tipo strutturale, il PII guarda viceversa, al
contingente, alle valutazioni di prossimità, tenendo quindi conto di un orizzonte di periodo
medio - breve. Tale periodo coincide, infatti, con l'arco temporale entro il quale si esplica
l'azione strategica: i soggetti privati trovano la propria convenienza nell'investimento
economico e l'interesse pubblico può raccogliere i frutti, in termini di opere realizzate, dal
coinvolgimento dei soggetti e delle risorse private. Se un tempo quindi, le destinazioni d'uso
erano confinate alle strette necessità della residenza (che ha comunque il merito di aver
veicolato i primi flussi finanziari), ovvero le tipologie di intervento erano riferite alla sola
commistione di edilizia nuova e di recupero, oggi le prime sono orientate a creare una sinergia
tra funzioni di livello territoriale o reti infrastrutturali e servizi diretti al quartiere, mentre le
seconde puntano a promuovere un'integrazione tra misure di sviluppo economico e sociale
con azioni di riqualificazione ambientale oltre che urbanistica.
Il rapporto tra PII e impianto urbanistico sembra mutare con l’evolversi della
strumentazione: dapprima il programma è interpretato come strumento operativo, di indirizzo
e di attuazione dei piani urbanistici attuativi di tipo tradizionale contenuti nella legge n.
1150/1942 o di quelli di recupero nella legge n. 457/1978; solo in un secondo momento - in
fase di avanzata sperimentazione dei contenuti della riqualificazione urbana - il programma
diviene strumento operativo del piano generale, benché di tipo e natura del tutto diversa. È in
questa fase che il programma si pone al pari del piano attuativo e appare alternativo allo
stesso per capacità, efficacia e dotazioni finanziarie.
La normativa prevista dall'art. 16 della legge 17 febbraio 1992, n. 179, con riferimento
al Programma integrato di intervento (PII), ne indica le finalità stabilendo a tal proposito che
la promozione dei PII da parte dei Comuni è orientata "al fine di riqualificare il tessuto
urbanistico, edilizio ed ambientale".
16
Il concetto di "riqualificazione", articolato nella triplice accezione di riqualificazione
non solo "urbanistica" ma anche "edilizia" e in particolare, "ambientale" (a cui per altro, negli
strumenti polifunzionali introdotti in questi ultimi anni, si è aggiunto anche l'obiettivo
rappresentato dal recupero del degrado "sociale"), nonché il riferimento territoriale ed
istituzionale al Comune costituiscono i due fondamentali elementi che vanno a configurare il
nucleo funzionale attribuito dal legislatore a questo particolare strumento di programmazione
urbanistica.
La riqualificazione descritta, avviene attraverso il consenso del privato introducendo il
principio per cui il perseguimento di finalità di interesse pubblico nella gestione del territorio,
possa essere connesso in modo fisiologico con l’interesse privato. Viene così modificato un
cardine del modello pianificatorio tradizionale, riconoscendo al privato impulso
procedimentale e l’iniziativa della formazione del piano, rimessa negli strumenti tradizionali
in via esclusiva all’amministrazione.
Del resto, tale tipo di programma, si correla e cerca di rispondere ad esigenze reali che
spingono verso un riadeguamento dell' ordinamento giuridico in materia urbanistica, verso un
aggiornamento delle modalità di approccio e di soluzione ai problemi della pianificazione,
rivolte sempre più all'integrazione delle risorse e alla consensualità dei soggetti pubblici e
privati coinvolti nell'intervento.
Nel perseguire la specifica finalità della riqualificazione urbana (secondo le predette
modalità integrate e plurifunzionali) il PII si caratterizza - già nella disciplina della legge n.
179 del 1992 - per la prevista contestuale presenza di una "pluralità di funzioni"
9
, dalla
"integrazione di diverse tipologie di intervento"
10
(ivi comprese le opere di urbanizzazione) e
da una "dimensione tale da incidere sulla riorganizzazione urbana" da realizzarsi mediante il
"concorso" di più operatori e di diverse risorse finanziarie di estrazione pubblica e privata.
9
Si riporta un giudizio di valore non trascurabile ad opinione dello scrivente circa le funzioni del P.I.I. : “Come
si vede, possono anche riscontrarsi delle amenità. In primo luogo occorre chiedersi che cosa debba intendersi
per presenza <<di pluralità di funzioni>> ed a quali funzioni l’estensore della norma abbia inteso fare
riferimento. E’ probabile, ma non certo, che si tratti di funzioni proprie del programma e non di funzioni
urbanistiche, intese correttamente come <<destinazioni d’uso>>”. (Cfr. G. Colombo, F. Pagano, M. Rossetti,
Manuale di urbanistica, Il sole24ore, Pirola S.p.a.).
10
Si riporta ulteriore nota circa le funzioni del P.I.I. : “Si noti infatti che il singolare periodo sulla
<<caratterizzazione>> dei P.I.I. in esame, dopo aver affermato la necessità della presenza di una <<pluralità
di funzioni>>, contempla anche l’<<integrazione di diverse tipologie di intervento , ivi comprese le opere di
urbanizzazione>>. Evidentemente viene utilizzata una nozione molto ampia di <<tipologia di intervento>>.
Comunque sia, si potrà sempre asserire che si ha una integrazione di tipologie di intervento quando, insieme
alle opere di urbanizzazione, vengano realizzati interventi di nuova edificazione. Ma, se così è, ci si chiede se
non sia da considerare mistificatoria l’assunzione <<dell’integrazione di diverse tipologie di intervento>> tra
gli elementi caratterizzanti del P.I.I.. Sicuramente, ed in modo corretto anche sotto un profilo sostanziale, si
potrà sostenere che si ha un’integrazione di diverse tipologie di intervento, quando il programma avrà ad
oggetto non solo interventi di nuova edificazione, ma anche interventi di recupero edilizio.”(Cfr. G. Colombo, F.
Pagano, M. Rossetti, Manuale di urbanistica, Il Sole 24 Ore, Pirola S.p.a.).
17
È significativa in questa normativa, la rilevante ampiezza e flessibilità delle possibilità
di intervento ammesse, poichè la citata legge statale non limita gli ambiti territoriali dei PII
soltanto alle aree già edificate ma consente di intervenire, con tali programmi, anche su aree
libere e per interventi di nuova edificazione.
Come andremo ad analizzare nel terzo° capitolo di questo studio, tale strumento ha
conosciuto una molteplicità di interessanti disposizioni legislative regionali che ne hanno
indubbiamente portato a maturazione i contenuti salienti e i diversi orientamenti emersi
all'attenzione degli operatori.
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Capitolo 2
I Programmi integrati d’intervento della legge Botta-Ferrarini
2.1. La disciplina normativa
I programmi integrati di intervento nascono con la legge 29 febbraio1992 n. 179, la
cosiddetta legge "Ferrarini-Botta", dal nome dei due deputati, rispettivamente un socialista e
un repubblicano, che si fecero promotori del disegno di legge originario.
Traggono chiara ispirazione dal programma integrato di recupero già prefigurato da
tempo nella legislazione della Regione Lombardia, che in quell’ambito costituiva strumento
eccezionale di intervento, ad applicazione limitata nel tempo, concepito per incentivare il
recupero edilizio (leggi regionali n. 22 del 1986 e n. 23 del 1990).
Come già sottolineato, in ambito nazionale, il programma integrato affonda le proprie
radici nelle politiche per l'edilizia residenziale pubblica del CER (Comitato per l'edilizia
residenziale) presso il ministero dei Lavori Pubblici. La prima menzione la si trova nella
deliberazione del Comitato interministeriale per la programmazione economica (CIPE)
relativa alla programmazione degli investimenti per il sesto biennio ai sensi della legge n. 457
del 1978. Successivamente la cosiddetta «legge Gozzini» n. 203 del 1991, nel quadro delle
misure per la lotta alla criminalità organizzata, prevede un programma straordinario per la
localizzazione di edilizia di servizio destinata al personale impegnato nell'attività di difesa
dell'ordine pubblico. L'ammissibilità degli interventi proposti dai comuni o anche da privati
concessionari, con la conseguente erogazione di finanziamenti a copertura di una parte del
programma, viene subordinata - sulla base di provvedimenti del CIPE e del CER - alla
presentazione di programmi integrati, che non si limitino a contemplare un tradizionale
intervento di edilizia residenziale (sul modello dei programmi ex art. 51 della legge n. 865 del
1971), ma che si fondino sulla pluralità e integrazione di funzioni urbane.
Si tratta quindi di un provvedimento di riforma complessiva della programmazione
dell'intervento pubblico nel settore della casa e trova sistemazione all'interno della delibera
CIPE del 16 marzo 1994.
In tale delibera
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venivano evidenziati sia gli assi d'intervento ai quali si sarebbe dovuta
attenere l'azione regionale nell'attuazione dei PII, sia le caratteristiche che avrebbero assunto
le iniziative di programmazione nazionale che prendevano le mosse dalla legge n. 493/1993.
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Per una più approfondita analisi della delibera CIPE in oggetto cfr. S. Ombuen, Programmazione regionale e
programmi complessi, in S. Ombuen, M. Ricci, O. Segnalini (a cura di), I programmi complessi, Il Sole 24 Ore,
Milano 2000.