3
vicinanze dell’essere. Senza che il senso dell’essere sia già chiaro
il pensiero pensa sempre l’essere, e non potrebbe essere altrimenti
se il pensiero è in se stesso un rivolgersi a qualcosa che si dà ad
esso. La prima cosa da mettere in chiaro è come il pensiero pensa
l’essere, come, cioè, il pensiero è aperto alla donazione
dell’essere. Ancora meglio, in che modo il pensiero si muove
nelle vicinanze dell’essere? Se il pensiero non raggiunge mai
l’essere, perché ciò comporterebbe considerare l’essere come un
ente semplicemente presente che si raggiunge alla fine di un
percorso, allora il cammino del pensiero è possibile solo come un
circolo. Proprio nel circolo troviamo il primo importante
contributo del pensiero di Heidegger sulla questione
dell’ermeneutica. Chiarire il senso dell’essere non può significare
portarsi di fronte all’essere, ma camminando farne esperienza
(Erfahrung). Se l’essere non è un ente, ma allo stesso modo è ciò
che schiude l’ente, allora fare esperienza dell’essere significa
ogni volta imparare a cogliere la differenza dell’essere dall’ente;
il che comporta che questa differenza è differenza pura, non
quindi tra un ente e un altro ente, ma tra ente e ciò che è altro
dall’ente: il ni-ente. Ma come pensare questo ni-ente, questa
alterità irriducibile all’ente? In primo luogo il pensiero deve
imparare a esperire questa alterità come tale, che comporta
pensarla sia come la cosa più vicina al pensiero, poiché il
pensiero pensa sempre all’essere, sia la cosa più lontana, in
quanto il pensiero è educato a pensare l’essere come un ente.
Il primo passo per questa esperienza di pensiero deve
sciogliere il pensiero stesso da quei condizionamenti metafisici
che pensano l’essere come un ente, il che non significa voler
oltrepassare il pensiero meta-fisico, nel senso di oltrepassare una
regione (l’ente) per un’altra regione (l’essere). Questa operazione
di pensiero è proprio il fulcro essenziale del pensiero meta-fisico.
Perciò pretendere di superare la meta-fisica significa svolgerla
nella sua essenza. Ma allora come il pensiero può pretendere di
4
pensare propriamente l’essere? In primo luogo bisogna rimettersi
nell’essenza della metafisica, per cogliere nei suoi fondamenti ciò
che rimane non-detto. Questo non-detto non è un ente, o qualcosa
che rimane nascosto semplicemente perché non lo si è ancora
svelato, esso è invece la riserva oscura da cui ogni fondamento
trae il suo senso e il suo essenziale rapporto tra un’epoca e
un’altra. Ciò che rimane non detto è la stessa possibilità che il
tra-mandato possa pervenire a noi, influenzando così il nostro
avvenire, ancora meglio, ciò che rimane non detto è la
connessione semplice, e per questo difficilissima da esperire, tra
la spinta verso l’avvenire e il rivolgersi del tramandato a noi,
permettendo al presente di dispiegarsi. Ogni nostra singola
decisione, azione, pensiero è sempre caratterizzato da questo
raccogliersi della temporalità, in cui ogni singola cosa è lasciata
giocare in un continuo rimando a una totalità di significati, mai
riducibile a una somma finita, ma sempre in continuo oscillare.
Tutto questo noi lo percepiamo nella storia delle parole, in cui
ognuna di esse raccoglie una molteplicità di significati tra loro in
continuo colloquio, e per questo mai riducibili a un unico
significato. Il compito del pensiero non sarà più cercare di ridurre
questa totalità di significati a un solo significato, a un solo senso,
bensì esperire questa continua oscillazione, questo continuo tra-
mandarsi in un dis-corso senza fine. Per assolvere questo compito
il pensiero deve diventare cammino che non perviene a nulla,
cammino che mentre va svolta (Kehre) per esperire il “tra” del
tra-mandarsi. Perciò non pervenire a un senso unico, ma cogliere
quello spazio-di-tempo (il “tra”) in cui solo il tramandato
perviene a noi permettendo di pro-gettarci in possibilità acquisite
nel colloquio con ciò che è stato. La Kehre del pensiero si svolge
tutta in questo tentativo di ascoltare nel dire ciò che rimane non-
detto, ossia quell’Aperto in cui le cose, le parole sono lasciate
essere nel loro tramandarsi a noi. Solo se rinunciamo alla pretesa
di voler rappresentare questo spazio-di-tempo come un ente, un
5
recipiente che ci avvolge, e per questo sta prima di noi e delle
cose; pensandolo, invece, come il semplice lasciar-essere le cose,
lasciare cioè che le cose si dispieghino nel loro essere; solo allora
inizieremo a cogliere la differenza dell’essere dall’ente. Per fare
questo non possiamo più pensare l’essere come un fondamento,
come qualcosa che sta prima di ogni cosa, come qualcosa che sta
al di là del mondo e che per questo è eterno, non consumabile
dalle erosioni del tempo. Bisogna, invece, pensare l’essere come
il semplice e puro lasciar-essere uno spazio-di-tempo perché le
cose possano mostrarsi a noi. Ebbene proprio in questo lasciar-
essere l’Essere (Seyn) si consuma, si vela, si oblia; non quindi
come un ente nascosto, ma come ciò che nella sua essenza è
Mistero, il quale proprio perché tale è indicibile. Non avrebbe
nessun senso infatti parlare del mistero che alla fine viene
svelato: il mistero è tale fino in fondo.
Il pensiero deve esperire il mistero, il quale non sta al di là
delle cose, in uno spazio iperuranico, ma è invece ciò che è più
vicino al pensiero, ciò che dà originariamente da pensare. Noi
siamo da sempre coinvolti dal mistero, da questo indicibile che ci
fa pervenire alla parola, ma proprio perché indicibile nessuna
parola può nominarlo. Proprio in questo senso ogni singola epoca
non può mai esaurire questo non-detto, ma nemmeno la totalità
delle epoche, se di totalità si può parlare (perché questo
comporterebbe escludere la possibilità dell’avvenire), può
esaurire questa sorgente oscura. Eppure solo da questo lasciar-
essere ogni epoca è possibile tramandare le verità finite di
un’epoca a quelle successive, sciogliendo la storia in un continuo
colloquio, che però non si lascia dire, non perché sta al di là del
tramandato, ma semplicemente perché si consuma in questo “tra”
che lascia tramandare. Il movimento della Khere del pensiero è un
retrocedere dal tramandato al “tra” che lascia pervenire il
tramandato al pensiero, e in questo lasciare-essere si oblia. La
Kehre del pensiero deve quindi imparare ad esperire questo
6
lasciar-essere nel suo continuo obliarsi, non come ciò che alla
fine si raggiunge, ma come ciò che rimane velato, e proprio in
questo velarsi (lasciar-essere) disvela il tramandato.
Ma come Heidegger perviene a questa dinamica propria
dell’essere? Nell’opera d’arte. Essa non viene pensata da
Heidegger come l’oggetto della scienza estetica, riconducibile
alle categorie dell’estetica proprie della metafisica. In primo
luogo l’opera d’arte, che si tramanda da epoca ad epoca, non è
mai riducibile a un unico senso. Basti pensare a un’opera d’arte
quale la Divina commedia, la quale nelle varie epoche in cui è
stata tramandata ha assunto sempre significati diversi. Anzi
proprio la sua irriducibilità a un unico significato ha permesso ad
essa stessa di potersi tra-mandare e tra-durre in modi sempre
diversi. Perfino la totalità dei significati aquisiti nelle varie
epoche non può racchiudere nella sua totalità il suo senso ultimo,
e ciò perché se fosse possibile non avrebbe più niente da dirci,
sarebbe come una equazione matematica, una proposizione logica
fredda e chiara. Nell’opera d’arte, invece, non vi è niente che sia
completamente chiaro, tutto oscilla e vive di luce oscura: da una
parte l’opera d’arte si schiude all’uomo disponendolo alla
meraviglia del suo puro e semplice essere lì, aperto al nostro
ascolto; dall’altra l’opera ha sempre qualcosa di nuovo da dirci, e
perciò non si lascia mai chiarire fino in fondo. Luce e oscurità
sono inscindibili nell’opera d’arte, sono anzi i caratteri che la
fanno sempre vibrare, come qualcosa di vivo, e che per questo si
dà come degli urti, delle scosse. Essa coinvolge l’essere umano
nel modo più intimo, più semplice e allo stesso tempo oscuro. E
questo perché l’opera fa vibrare nel modo più semplice quel
lasciar-essere che condiziona da sempre il pensiero in quanto
tale. L’opera d’arte ha perciò in primo luogo un senso ontologico,
poiché fa vibrare quel duplice senso dell’essere come dsvelatezza
e velatezza: da una parte dispiega un mondo di significati sempre
in continuo oscillare, dall’altra lascia nell’oscurità il suo senso
7
ultimo e duraturo. L’opera non tiene semplicemente questi due
caratteri irrigiditi in loro stessi, ma li mette in atto (in opera), li
fa cioè oscillare in una lotta in cui, da una parte, un mondo si
schiude aprendo tutto ciò che può essere aperto; dall’altra, il
mistero dell’opera resiste a questa apertura, pro-ducendosi come
indicibile. Ma si badi che senza un mondo l’opera perde anche la
sua riserva oscura: l’oscurità dell’opera ha bisogno della luce del
mondo per essere, appunto, oscura. Proprio in questo duplice
carattere dell’opera arte, accennata all’inizio nella differenza tra
essere ed ente, si schiude il significato dell’ermeneutica di
Heidegger, in cui ogni singola opera, parola, epoca storica viene
ascoltata nella sua duplicità mai riducibile a un unico senso.
L’ermeneutica deve essere pensata come un colloquio continuo in
cui ciò che si annuncia si tinge dei colori di ciò che rimane non-
detto, ogni singola parola, e come vedremo in particolare nella
parola poetica, espone sia una molteplicità di significati sia il suo
non-detto che lascia-essere quella molteplicità, permettendo, allo
stesso tempo, che nuovi significati possano schiudersi
nell’avvenire. Questo non-detto è l’indicibile spazio-di-gioco-di-
tempo in cui l’opera è posta in gioco in un dis-corso senza fine,
perché non perviene a nulla: gioca giocando e basta.
8
1. LA SVOLTA (DIE KEHRE)
1.1 KEHRE COME DENKWEG
«Ho lasciato una posizione non per sostituirla con altra, ma
perché anche quella era solo stazione di un cammino. Quel che
rimane costante nel pensare è il cammino. E i sentieri del
pensiero nascondono in sé un aspetto misterioso: noi li possiamo
percorrere in un senso o nell’altro; anzi proprio solo il percorrerli
a ritroso consente di avanzare»
1
.
La Kehre del pensiero di Heidegger è il senso stesso del
cammino che da Essere e tempo porta a Tempo e essere
2
. Questo
cammino, però, non si è potuto compiere in Essere e tempo.
Infatti, quest’opera, pubblicata nel 1927, manca della terza
sezione della prima parte, cioè Tempo e essere. Heidegger
affermerà, dopo la pubblicazione di Essere e tempo, che l’opera è
rimasta incompiuta perché non c’è stato il linguaggio adatto per
poter tematizzare tale passaggio. Anzi, è stato proprio il
linguaggio della metafisica ad impedire un’analisi genuina di
Tempo e essere
3
.
1
M. Heidegger, In cammino verso il linguaggio, ed. Mursia, Milano 1973, p. 91.
2
Per un sufficiente chiarimento del Denkweg che da essere e tempo porta a tempo e essere si rimanda
alla seconda parte dell’introduzione di Eugenio Mazzarella nella traduzione italiana di Tempo e
essere, ed. Guida Editori, Napoli 1980.
3
Ivi, p. 45: «L’interruzione di Essere e tempo, se di interruzione si vuole parlare, va posta a questo
livello: l’interruzione non è la Kehre, cioè non è ciò da cui si origina la Kehre. L’interruzione è
l’incapacità di Essere e tempo a «dire» la Kehre meglio: di avviare quel «dire ulteriore» di ciò a
partire da cui si dà propriamente qualcosa come la Kehre, nella positiva consumazione di tutte le
possibilità apofantiche del logos filosofico, e della linguisticità filosofica ad esso connessa in altri
termini l’incapacità di Essere e tempo a lasciar-vedere compiutamente ciò da cui il senso si dà
l’essere dell’esserci, e, per quella via, l’essere come tale».
9
Nello scritto del ’46 Brief über den Humanismus (Lettera
sull’umanismo), Heidegger, considerando proprio questo
cammino, affermerà che «Qui tutto si capovolge». Questo
capovolgimento la Kehre del pensiero di Heidegger non
indica però una rottura con i presupposti della prima
fondamentale opera del ‘27, perché “è” di questo cammino la
necessità di stazionare in luoghi differenti.
Il Medesimo, che muove le diverse tappe di questo
cammino, è la questione dell’essere, la Seinsfrage. Quindi, il
senso della Kehre si comprende solo rispetto al senso stesso
dell’essere. È l’essere che “esige” per la sua comprensione la
Kehre. Questo esigere dell’essere è il cammino del pensiero che
fa esperienza dell’essere in quanto tale.
Il cammino, qui, non è da intendere come il percorso
necessario per giungere alla meta: ciò che solo conta è il cammino
stesso. Esso dà la possibilità al pensiero di “abitare”
4
nelle
vicinanze dell’essere. Ma tale cammino non porta alla semplice
riduzione della distanza tra i due, in quanto il pensiero appartiene
da sempre all’essere: solo perché il pensiero ha sempre cor-
risposto all’essere, può abitare nella regione aperta dall’essere.
Il pensiero è il pensiero dell’essere, nel senso che, quello è
fatto avvenire (ereignet) da questo e, proprio perché il pensiero
appartiene all’essere, è in ascolto dell’essere.
Quindi, il modo in cui il pensiero appartiene all’essere è
l’ascoltare. Quest’ultimo non è, qui, il risultato dell’apparato
acustico: noi ascoltiamo non perché siamo in grado di percepire
suoni, ma al contrario, noi possiamo percepire suoni perché “già”
ascoltiamo, o più essenzialmente noi ascoltiamo perché siamo
4
«Là dove la parola abitare parla ancora in modo originario, essa dice anche fin dove arriva l’essenza
dell’abitare. Bauen (costruire), baun, bhu, beo sono infatti la stessa parola che il nostro bin (sono)
nelle sue varie forme: ich bin (io sono), du bist (tu sei), la forma imperativa bis, sii. Che significa
allora ich bin, io sono? L’antica parola bauen, a cui si ricollega il «bin», risponde: «ich bin», «du
bist» vuol dire: io abito, tu abiti. Il modo in cui noi uomini siamo sulla terra, è il Baum, l’abitare. Esser
uomo significa: essere sulla terra come mortale; e cioè: abitare» ( Heidegger, Saggi e discorsi, ed.
Mursia, Milano 1976, p. 97).
10
chiamati all’ascolto, al pensiero
5
. Ascoltare vuol dire com-
prendere, raccogliendo, l’essere come illuminazione dell’ente, e
non semplicemente l’ente in quanto tale. E ancora, noi non
ascoltiamo mai semplicemente suoni o rumori, ma: la ruota che
cigola, il cinguettio degli uccelli, il rombo del motore di
un’automobile, le parole proferite da una persona, addirittura,
anche quando una persona parla una lingua sconosciuta noi
ascoltiamo sempre parole se pur incomprensibili.
E’ proprio del pensiero stare in ascolto ai cenni con cui
l’essere “si dà” (Es gibt).
La Kehre, come cammino del pensiero, indica l’originaria
appartenenza del pensiero all’essere. Perciò Essere e tempo non
può esaurire il senso dell’essere perché esso è solo una tappa
della Kehre. Infatti, riprendendo la citazione posta all’inizio di
questo paragrafo, Heidegger afferma che ciò che rimane costante
nel pensare è il cammino stesso. Ma la citazione non si esaurisce
in questo “Medesimo” (Selbe) che unisce pensiero e cammino. In
essa è indicato anche il modo con cui il pensiero si muove nei
sentieri. Il pensiero avanza in questo cammino solo se percorre i
sentieri a ritroso. Il modo di pensare della metafisica considera
ciò che qui è detto una contraddizione. Ci si chiede: come può
avanzare qualcosa retrocedendo? Noi potremo rispondere a tale
domanda solo se considereremo questo cammino del pensiero
appartenente a una “regione” fondante e perciò risonante in
cui la metafisica ne rappresenta solo una parte e forse nemmeno
la più importante
6
. Il retrocedere è un passo indietro. È un salto
(Sprung) che dall’illuminato (l’ente) deve risalire all’illuminarsi
dell’apertura (l’essere) in cui solo l’illuminato può apparire. Il
passo indietro è il salto che va dall’ente all’essere. Esso è il
5
Per ciò che concerne il problema dell’ascolto si rimanda al prezioso contributo di J. Derrida,
L’orecchio di Heidegger. Filopolemologia, in La mano di Heidegger, ed. Laterza, Bari 1991.
6
La regione qui è da intendere come l’inizio, il da-dove la metafisica pro-viene. Si veda in tal senso il
contributo di Otto Pöggeler nel cap. Superamento della metafisica, in Il cammino del pensiero di
Martin Heidegger, ed. Guida Editori, Napoli 1991, pp. 167-221.
11
tentativo di risalire alla sorgente nascosta di tutte le possibilità
concesse all’ente nel suo manifestarsi. La Kehre, dunque, come
cammino del pensiero è ciò che inerisce alla Seinsfrage. Il
pensiero può procedere a ritroso avanzando in questo cammino
solo perché, considerando l’ente come ciò che sta dinnanzi, lo
raccoglie nel suo essere. E’ l’essere che permette questo
raccoglimento. Permettere qui vuol dire donare al pensiero la
possibilità che qualcosa appaia, s’illumini in questo
raccoglimento. Solo il semplice donare dell’essere dà la cosa
stessa del pensiero. Ciò che più conta non è la raccolta di questo
raccoglimento, ma il suo stesso raccogliersi.
Il senso della Kehre di Heidegger è proprio il movimento
che retrocede dall’esser manifesto dell’essente in direzione della
manifestatività come tale, e che, a sua volta, resta celata
nell’esser manifesto proprio dell’essente. Ma quando Heidegger
dice, nel passo più volte indicato, che il percorrere a ritroso
consente di avanzare, vuole evidenziare che questo retrocedere
comporta la “pro-duzione” di una distanza da ciò che anzitutto
vuole avvicinare. Questo farsi distanza è un allontanamento che
consente il libero approssimarsi di ciò che è da pensare. Ciò che
la Kehre come passo indietro persegue è il pensare il movimento
dell’essere che si cela illuminando l’ente. E solo in questo modo
la Kehre consente la vicinanza del pensiero all’essere. Ma la
prossimità di pensiero e essere accade solo se il pensiero si
trasforma. Tale tras-formazione richiede un superamento del
pensiero metafisico, che in tutta la sua tradizione ha interrogato
l’essere come l’essere dell’ente, e non l’essere come tale. «La
trasformazione che è richiesta al pensiero è un lottare portato
sempre più avanti per rivedere la propria impostazione, affinché il
pensiero divenga libero per l’esperienza della verità dell’essere
stesso»
7
.
7
Ivi, p. 191.
12
Ma cosa vuol dire propriamente Kehre? Kehre indica un
tornante di una strada di montagna. Il viandante, che cammina su
questa strada, deve svoltare perché è la strada stessa che svolta
8
.
Insomma, la svolta non è qualcosa che decide l’uomo liberamente,
se pur in un certo qual modo vi partecipa. Egli, in questo
cammino, svolta perché “pone attenzione” ai cenni con cui
l’essere si dà (Es gibt). I cenni per loro natura non sono dei
semplici segni. Essi sono qualcosa di poco vistoso: «i cenni sono
enigmatici. Essi ci fanno cenno. E il loro cenno invita a un
distacco, mentre addita quello donde d’improvviso muovono a
noi»
9
.
Questo additare è un mostrare ciò che già si è rivolto a noi.
Un mostrare che addita noi possiamo figurativamente
immaginarcelo come una mano. Proprio quest’ultima «non
soltanto afferra e prende, non soltanto prende e urta. La mano
porge e riceve, e non soltanto le cose, ma anche porge se stessa e
riceve se stessa nell’altra mano. La mano trattiene. La mano
regge. La mano traccia dei segni, perché probabilmente l’uomo è
un segno»
10
.
Per Heidegger il pensiero è un mestiere, Hand-werk, un
lavoro della mano. Ora però, «se c’è un pensiero della mano o una
mano del pensiero, come Heidegger lascia intendere, non è
nell’ordine del coglimento concettuale. Appartiene piuttosto
all’essenza del dono, di una donazione che donerebbe, se
possibile, senza nulla prendere»
11
. È proprio il libero donare
dell’essere che dà (gibt) la cosa stessa del pensiero, della mano.
La Sache del pensiero come mano è la «vocazione a mostrare o a
far mostrare o a fare segno (zeigen, Zeichen), e a donare o a
donarsi, in una parola la mostratività del dono o di ciò che si
8
M. Ferraris, Cronistoria di una svolta, in Heidegger, La svolta, ed. Il melangolo, Genova 1990, p.
39.
9
In cammino verso il linguaggio, cit., p. 102.
10
M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, ed. Surgarco Edizioni, Carnago 1971, p. 108.
11
J. Derrida, La mano di Heidegger, cit., p. 47.
13
dona»
12
. La mano è sia un dare sia un darsi. In termini
heideggeriani ciò vuol dire che la mano (il pensiero) dà in quanto
cor-risponde ai cenni dell’essere, ri-mostra ciò che Es gibt (si dà)
come Lichtung (radura), ma anche si dà in quanto porge la sua
custodia al darsi dell’essere, nel senso che ascolta l’essere,
manifestandone gli enigmatici cenni.
La mano manifesta ciò che è nascosto.
La Kehre come Denkweg, come Hand-werk, è un cammino.
È un’ascoltare-mostrante ciò che nel suo darsi cela se stesso.
12
Ivi, p. 50.
14
1.2 KEHRE COME RAPPORTO TRA UOMO E
ESSERE.
I risultati del paragrafo precedente ci dicono che il senso
della Kehre prende fondamento in quel luogo che raccoglie tutta
la speculazione filosofica di Heidegger. Questo luogo è il
Medesimo (das Selbe) che dà il senso al cammino del pensiero:
esso è la questione dell’Essere. Quindi per poter chiarire il
significato della Kehre c’è parso necessario dare una sufficiente
determinazione di alcune delle tappe fondamentali di questo
cammino. Le diverse tappe, a loro volta, saranno determinate nei
loro fondamenti solo se, in via del tutto preliminare, sarà
mostrato ciò che è proprio di questo luogo (Ort) che dà il senso
del cammino. Ma allora, ciò che qui si fa necessario è un atto
ermeneutico che collochi le diverse tappe del cammino nel luogo
che raccoglie il senso dell’essere.
Qual è il carattere essenziale di questo luogo? Heidegger, in
In cammino verso il linguaggio, chiama il luogo: Ort. Tale Ort
oltre a significare luogo significa anche punta della lancia. Ma
allora considerando proprio questo secondo significato Heidegger
potrà dire che «l’Ort riunisce attirando verso di sé in quanto
punto più alto ed estremo. Ciò che riunisce trapassa e permea di
sé tutto. L’Ort, come quel che riunisce, trae a sé, custodisce ciò
che a sé ha tratto, non però al modo di uno scrigno, bensí in
maniera da penetrare della sua propria luce, dandogli solo così la
possibilità di dispiegarsi nel suo vero essere»
13
. Insomma l’Ort,
inteso come punta della lancia, raccoglie tutte le vie di questo
cammino a sé, e raccogliendole le dispiega nel loro vero essere,
cioè ogni via assume il suo senso solo rispetto all’Ort. Ma se
questo luogo raccoglie la questione stessa dell’essere nelle sue
diverse tappe, e se queste tappe sono il cammino del pensiero che
13
In cammino verso il linguaggio, cit., p. 45.
15
fa esperienza dell’essere ed è tale perché cor-risponde da sempre
all’essere, e se, ancora, il pensiero è un carattere costitutivo
dell’uomo, allora questo luogo at-trae uomo e essere in ciò che è
loro proprio. Il luogo rende vicini uomo e essere. Esso è il loro
stesso rapporto. Quindi questo luogo ci deve guidare in queste
diverse tappe in modo tale che attraverso una determinazione
delle tappe del cammino ci sia anche dato un chiarimento del
luogo stesso, e quindi della Kehre.
La prima significativa tappa del cammino di Heidegger è
ovviamente Essere e tempo. In quest’opera Heidegger tenta di
porre il problema del senso dell’essere in generale rispetto alla
temporalità, intesa come orizzonte dell’essere. Ora però, per poter
porre in modo genuino il senso dell’essere rispetto al tempo come
suo orizzonte si dovrà trovare un fondo sicuro su cui la ricerca
potrà svilupparsi, assicurandosi sia la fondatezza dei suoi
presupposti sia la veridicità dei suoi risultati.
È un fatto indiscutibile che noi ci muoviamo da sempre in
una comprensione se pur vaga dell’essere. Ogni cosa "che è" ha
un suo modo di essere. La metafisica chiama ente tutto ciò che
semplicemente è, e chiama il modo in cui qualcosa è, il che cosa
di un ente, la sua essenza. Avere un rapporto con l’ente vuol dire,
quindi, avere un rapporto con l’essere dell’ente. Ma allora se la
comprensione dell’ente rimanda a una pre-comprensione
dell’essere, in cui solo l’ente è come tale, si potrà trovare quel
fondo sicuro, su cui la ricerca dell’essere potrà svilupparsi, in
quell’ente che ha un rapporto privilegiato con l’essere, cioè
quell’ente che già nel suo essere ha una comprensione dell’essere.
Tale ente, che noi stessi siamo, sarà chiamato da Heidegger
Esserci (Dasein).
Ma perché far partire la ricerca dell’essere dall’esserci e
non dall’essere stesso? Perché la ricerca dell’essere richiede già
una prima svolta, una base preliminare che non è certamente
l’essere?
16
La metafisica in tutta la sua tradizione ha sempre
considerato l’essere come un ente, cioè qualcosa di
semplicemente presente. Se quindi l’ente si determina come
qualcosa di presente, allo stesso modo l’essere si dissolve nella
presenza di ciò che è presente, assumendo il carattere di un ente.
Ma proprio Heidegger attribuisce alla metafisica l’errore di aver
mal posto il problema dell’essere, riducendo quest’ultimo a una
semplice presenza. Perciò un’ontologia, che voglia porre il senso
dell’essere su basi più sicure, dovrà assumere come suo
presupposto guida la differenza stessa dell’essere dall’ente. In
base a questo presupposto Heidegger dirà che «L’Essere è il
transcendents puro e semplice»
14
, ed è trascendente perché
oltrepassa tutte le possibili determinazioni che lo riducono a
qualcosa che è, cioè a un ente.
Fin dal pensiero greco l’essere è stato sempre inteso con la
nozione di presenza, addirittura anche l’essere supremo della
metafisica, Dio, ha assunto il carattere dell’eternità quindi di
eterna presenza. Perciò è la storia stessa dell’essere a imporre un
rapporto in sé originario tra essere e tempo. L’essere come
presenza si fonda sull’orizzonte della temporalità. Essere e tempo
non inizia, però, con la ricerca del tempo, inteso come orizzonte
trascendente dell’essere, ma dall’esserci, in quanto l’essere di
quest’ente è comprensibile proprio grazie alla temporalità. Infatti
già nell’introduzione Heidegger dirà che l’essere dell’esserci è in
sé temporale
15
. Si comprende quindi che sia l’esserci sia l’essere
possono essere genuinamente indagati solo in base alla
temporalità, in più l’esserci e l’essere non possono essere
considerati delle semplici presenze. L’ontologia potrà
comprendere l’essere solo se partirà dall’ontologia dell’esserci. Il
primato dell’esserci è duplice, in quanto è quell’ente che pone il
14
M. Heidegger, Essere e tempo, ed. Longanesi & C. Milano 1970, p. 59.
15
Ivi, p. 35.