4
della poíesis, quale fondamento stesso dell’arte. La poíesis indica il
produrre in quanto tale, il portare fuori qualcosa nell’apparire. All’inizio
della storia dell’Occidente la poíesis è possibile solo perché si fonda su un
sapere mimetico, che ha il suo fondamento nella verità immutabile
dell’essere, come le idee platoniche. Lungo la storia dell’Occidente la
poíesis ha dunque un referente ultimo che è la verità immutabile, ma questa
verità deve al termine di questo sentiero tramontare. Ma con questo
tramonto la poíesis, perdendo il suo referente ultimo, deve aderire
esclusivamente al divenire nichilistico, diventare essa stessa divenire
nichilistico “senza perché” e senza una meta ultima. Ed è solo per questa
sua completa aderenza al divenire nichilistico che si è reso possibile
qualcosa come l’arte contemporanea, che appunto ha sgretolato i principi
millenari dell’arte. L’hegeliana «morte dell’arte» può essere intesa come lo
scioglimento del produrre artistico dal referente eterno ed immutabile su cui
tale produrre si era sempre fondato.
La grandezza dell’arte sta nella sua capacità di cogliere la tendenza
fondamentale delle epoche e di mostrarla nella sua opera. Al di là di
qualsiasi riduzione dell’arte a qualcosa di meramente ludico e frivolo, essa
è uno degli occhi privilegianti dove l’essenziale viene colto e mostrato. In
particolare, Severino mostra come l’opera poetica di Eschilo e Leopardi
non si riduce ad opera prettamente letteraria, ma in essa si esprime la
profondità di tutto il pensiero occidentale, dal suo inizio fino al suo
compimento. L’opera di Eschilo e Leopardi è opera eminentemente
pensante, il suo essere poetante è un tutt’uno col suo essere pensante.
L’intento dell’interpretazione di Severino è quella di far emergere
dall’opera poetica di questi due autori la profondità filosofica del loro
pensiero. Ebbene, questa interpretazione mostra che il pensiero-poetante di
Eschilo e Leopardi stanno rispettivamente all’inizio e al termine di tutta la
storia del pensiero nichilista dell’Occidente. Ma non nel senso che ne sono i
“cantori”. Nella loro opera pensante cioè non è semplicemente mostrato
quello che è già “semplicemente presente”, e che viene ridetto nel
linguaggio della poesia, bensì la loro opera anticipa ciò che sarà la storia
dell’Occidente, guardano e mostrano sino in fondo il sentiero della notte
che l’Occidente è destinato a percorrere fino al suo compimento.
Anticipando il senso di questo sentiero che l’Occidente è destinato a
percorrere, essi in un certo qual modo fondano il senso di questo percorso.
5
In particolare: da una parte, Eschilo mostra il senso che l’epistéme ha per
tutta la storia dell’Occidente; dall’altra, Leopardi mostra che la stessa
epistéme è destinata a tramontare, anticipando il significato essenziale della
tecnica della nostra epoca.
Eschilo per primo mostra il senso dell’epistéme, perché coglie il rapporto
essenziale che lega originariamente il senso dell’eterno con il senso del
divenire. Quindi, Eschilo mostra il significato essenziale che l’epistéme e il
divenire avranno per tutto l’Occidente. A partire dal pensiero greco il
divenire è inteso come annientamento, distruzione non reversibile
dell’essente, ma anche la stessa provenienza dell’essente viene pensata
come nulla, come novità assoluta. Partendo da questa evidenza, Eschilo per
primo pensa l’ epistéme come “rimedio” contro la “malattia” annientante
del divenire. Con Eschilo sorge la dialettica tra divenire ed eterno, intesa
nella sua essenza come dialettica tra malattia e rimedio. Infatti, nell’opera di
Eschilo l’evidenza dell’annientamento dell’essente nella sua unicità viene
contrapposta al sapere epistemico del principio del Tutto (Zeus) che è
«sempre salvo», e che solo può liberare il mortale dal dolore
dell’annientamento. Questa liberazione, però, non significa il toglimento del
senso nichilistico del divenire, che rimane l’evidenza suprema
dell’Occidente, ma significa che solo sapendo che l’essenza di ogni cosa è
«sempre salva» nel principio del Tutto, il mortale può liberarsi con verità
dal dolore. Sapendo che la propria essenza è sempre salva nel principio del
Tutto, il mortale può scacciare con verità il dolore del divenire, ma
l’essenza sempre salva non è per Eschilo l’interezza dell’uomo, bensì solo
quella parte che appunto appartiene al principio del Tutto: quell’essenza
che l’Occidente chiamerà con la parola “anima”. Ma al di là di
quest’essenza Eschilo sa che tutte le cose sono destinate ad essere
annientate. Sa che il principio del Tutto non può salvare il mortale nella sua
interezza dall’annientamento del divenire, ma solo quella parte che
proviene e ritorna nel principio eterno del Tutto.
Ma se Eschilo inaugura la dialettica tra malattia e rimedio, Leopardi fa
un passo ulteriore, mostrando il carattere illusorio dell’epistéme, mostrando
in sostanza che anche l’essenza di ogni cosa è destinata ad essere
annientata. Con Leopardi il divenire annientante diventa l’unica verità
eterna dell’essente nella sua totalità. Ogni cosa proviene e ritorna nel nulla.
Nessun principio regola il divenire dell’essente. Con Leopardi l’Occidente
6
raggiunge il suo compimento, che si mostra come il tramonto degli
immutabili della metafisica e della corrispondente dialettica tra l’eterno e il
divenire nichilistico, il quale permane come unica verità dell’essente nella
sua totalità. La tecnica che nel pensiero di Eschilo è più debole della
Necessità del Tutto, con il compimento della storia dell’Occidente, diventa
la struttura più potente, in quanto l’unica che riesce ad essere veramente
coerente con il divenire nichilistico. Leopardi, cogliendo l’essenza
nichilistica di tutto l’essente, diventa, oltre al primo vero nichilista
dell’Occidente, ancor prima del pensiero di Nietzsche, anche il primo
pensatore della tecnica odierna. Con Leopardi l’unico rimedio che può
contrapporsi al nulla non può essere più la verità eterna del Tutto, ma
l’illusione della poesia: il profumo della ginestra. Le illusioni della poesia,
dell’opera del genio, non appartengono alla struttura immutabile della verità
epistemica, esse sono equiparabili al profumo certamente vivificante della
ginestra, che si diffonde sul deserto del divenire annientante, ma allo stesso
modo appartengono al deserto, alla mortalità di tutte le cose. Nella
dimensione piena del nichilismo non vi è più salvezza, ogni cosa è destinata
inesorabilmente ad essere annientata.
Ma quando il pensiero Occidentale con Leopardi raggiunge la sua più
piena trasparenza, nel senso appunto che per la prima volta viene affermato
ciò che l’Occidente custodisce nel proprio inconscio, ossia l’essere nulla da
parte dell’essente, si mostra la follia di questo pensiero, quello appunto che
sta nell’identificare gli assolutamente opposti: l’essere e il nulla.
Se però questa identità tra l’essere e il nulla, che lungo tutta la storia del
pensiero occidentale rimane il fondamento mai mostrato pienamente prima
di Leopardi, d’altra parte, l’Occidente e con esso lo stesso Leopardi non
coglie la follia insita in questa identità e nel conseguente divenire
nichilistico. Nel senso che la follia dell’Occidente non viene pensata come
follia, ma come la verità evidente dell’essente diveniente.
Ma una volta colta pienamente la follia del pensiero occidentale che si è
inoltrato già dalla sua origine lungo il sentiero della notte, è possibile
ritornare al bivio indicato da Parmenide e inoltrarsi lungo il sentiero del
giorno, il sentiero che dice che l’essere è e non è il non essere?
Per Severino questo sentiero è l’unico che in verità può essere percorso,
in quanto, appunto, il sentiero della notte è il sentiero della follia, di ciò che
non può essere in alcun modo, il sentiero in cui il nulla può essere predicato
7
solo del nulla. Questo significa che il sentiero della notte è in verità l’errata
interpretazione del sentiero del giorno: questa interpretazione è lo stesso
Occidente.
Se, dunque, l’unico sentiero che da sempre l’uomo necessariamente
percorre è quello del giorno, allora al di sotto dell’inconscio dell’Occidente,
si scorge la verità eterna dell’essere: l’inconscio di questo inconscio.
Nel sentiero del giorno indicato da Parmenide l’essere è eternamente
identico a se stesso, solo perché si oppone eternamente al nulla. Ma, il
punto essenziale del pensiero di Severino che va oltre Parmenide, è che
l’essere eternamente se stesso non è l’essere svuotato della molteplicità
diveniente, ma è la totalità dell’essere: tutte le positività che come tali si
oppongono al nulla. Dunque, l’essere eterno ed eternamente se stesso è la
totalità dell’essente, dall’infimo granello di sabbia alla volta celeste, tutto è
eterno, ed eternamente identico a se stesso: questo è per Severino
l’autentico contenuto dell’epistéme.
Se questo è il punto di partenza del pensiero dell’essere di Severino,
l’ultima sezione di questo lavoro propone in via del tutto “ipotetica” una
possibile interpretazione dell’arte mediante il pensiero dell’essere eterno di
Severino. È questo un tentativo, in quanto Severino non ha esposto nel suo
pensiero quale significato l’opera d’arte debba avere nel sentiero del giorno,
in cui la totalità dell’essere è eternamente se stessa.
8
I. IL SENTIERO DELLA NOTTE
9
1.1 Nichilismo come pensiero dominante dell’Occidente: il
sentiero della notte.
Έ̉στι γὰρ ει̃ναι, µηδὲν δ’ου̉κ ε̉́στιν (Parmenide fr. 6, vv. 1-2): l’essere
infatti è, mentre il nulla non è.
Per Severino
1
tutta la storia della filosofia occidentale può essere
interpretata come l’alterazione e la conseguente dimenticanza del senso
dell’essere, intravista inizialmente dal più antico pensiero greco
2
. Le parole
che indicano originariamente l’annuncio della verità dell’essere sono i primi
due versi del frammento 6 del poema di Parmenide «έ̉στι γὰρ ει̃ναι, µηδὲν
δ’ου̉κ ε̉́στιν». Eppure sono proprio queste parole ad essere state
dimenticate, portando alla struttura odierna dell’Occidente. Le parole di
Parmenide non indicano una proprietà dell’essere, ma mostrano il senso
dell’essere: «l’essere è appunto ciò che si oppone al nulla, è appunto questo
opporsi»
3
. Proprio nell’opposizione tra il positivo e il negativo sta il grande
tema della metafisica. Eppure dopo Parmenide (ma dovremmo dire già con
lui) l’opposizione tra l’essere e il nulla resta nell’ambiguità. Resta
nell’ambiguità, perché con il progressivo sviluppo della tesi dell’essere
grazie a Platone ed Aristotele: l’essere si oppone al nulla sin tanto che esso
è
4
. Con queste ultime parole l’ambiguità è già divenuta fatale e con ciò il
senso dell’essere è tramontato. In sostanza, con questa caratterizzazione
temporale - sin tanto che esso è – si ha il tramonto della verità dell’essere,
ossia della sua necessità (a-temporale): l’essere è certamente, ma solo
quando è; il nulla non è, ma solo quando non è. Tutto questo lo troviamo
esplicitato in modo rigoroso nel Liber de Interpretatione di Aristotele (19a
1
Per un primo approfondimento del pensiero di Emanuele Severino cfr.: C. Scilironi, Ontologia e
storia nel pensiero di Emanuele Severino, ed. Francisci Editore, Padova 1980; M. Visentin, Tra
struttura e problema. Note intorno alla filosofia di Emanuele Severino, ed. Marsilio Editori,
Venezia 1982; L. Messinese, Essere e divenire nel pensiero di E. Severino, ed. Città Nuova, Roma
1985; Cura e salvezza. Saggi dedicati a Emanuele Severino, a cura di I. Valent, ed. Moretti &
Vitali, Bergamo 2000; A. Zopolo, Il divenire nella speculazione filosofica di Emanuele Severino,
in «Filosofia», Fasc. II, pp. 225-268. A. Antonelli, Verità, nichilismo, prassi. Saggio sul pensiero
di Emanuele Severino, ed. Armando Editore, Roma 2003.
2
Per una prima lettura del nichilismo quale dimensione essenziale della cultura occidentale anche
in una prospettiva distante rispetto al pensiero di Severino cfr.: F. Vercelloni, Introduzione a Il
Nichilismo, ed. Laterza, Bari 1994; F. Volpi, Il nichilismo, ed. Laterza, Bari 1996; Nichilismo e
politica, a cura di R. Esposito, C. Galli, V. Vitiello, ed. Laterza, Bari 2000; F. D’Agostini, Logica
del nichilismo, ed. Laterza, Bari 2000.
3
E. Severino, L’essenza del nichilismo, ed. Adelphi, Milano 1982, p. 20.
4
L’ambiguità della tesi dell’essere è dovuta al fatto che l’essere è condizionato dal tempo – sin
tanto che esso è.
10
23-27). La differenza che si manifesta sta tra la necessità che l’essere sia,
quando è, e la necessità simpliciter che l’essere sia. Il passaggio dalla
seconda necessità alla prima comporta che: «”l’essere che non è” quando
non è, non è altro che l’essere fatto identico al nulla, “l’essere che è
nulla”, il positivo che è negativo. “L’essere non è” significa precisamente
che “l’essere è il nulla”, che “il positivo è il negativo”»
5
. Con questo
pensare il tempo in cui l’essere è il nulla significa negare simpliciter la
verità dell’essere, che appunto nega che vi sia un tempo in cui l’essere sia il
nulla, il positivo sia il negativo. Ma la verità dell’essere, ε̉́στι γὰρ ει̃ναι,
l’essere è, dice che l’essere che è non è il nulla, in quel “è” è già incluso il
suo non essere il suo opposto, il suo non essere il negativo. Il travisamento
del senso dell’essere sta tutto in questo credere che vi sia un tempo in cui il
positivo sia il negativo: questa la follia dell’Occidente. L’errore sta
nell’acconsentimento che l’essere sia nel tempo: divenga
6
. Dei due sentieri
indicati da Parmenide, quello in cui l’essere è ed è impossibile che l’essere
sia il non essere (il sentiero del giorno) e quello in cui l’essere è il non
essere (il sentiero della notte), ebbene di questi due sentieri l’occidente ha
percorso quello della notte, ponendo l’essere nel tempo, in cui a volte è e a
volte non è.
Se però andiamo più in profondità notiamo che Parmenide è sia il primo
ad annunciare la verità intramontabile dell’essere sia il primo responsabile
del tramonto dell’essere. Infatti per Parmenide l’essere non è le differenze
che si presentano nell’apparire del mondo, le molteplici determinazioni che
si manifestano sono soltanto dei nomi, e quindi non sono l’essere: il rosso,
la casa, l’albero poiché non significano “essere”, in base alla opposizione
tra il positivo e il negativo, queste determinazioni sono “nulla”. L’essere
parmenideo per Severino è l’essere trascendente
7
, che nega la molteplicità
reale, la quale soggetta al divenire è nulla. Successivamente l’elaborazione
5
Ibidem, p. 22. Il passo aristotelico dice precisamente:«Che dunque ciò che è sia quando è e che
ciò che non è non sia quando non è, è necessario; tuttavia non è necessario né che tutto quanto ciò
che è sia, né che tutto quanto ciò che non è non sia. Infatti non è la stessa cosa che tutto quanto ciò
che è sia di necessità quando è e l’essere assolutamente di necessità», Aristotele,
Dell’interpretazione, ed Rizzoli, Milano 2000, p. 99.
6
A. Antonelli, Verità, nichilismo, prassi. Saggio sul pensiero di Emanuele Severino, cit., p. 29:
«L’essere nel tempo esprime la violazione dell’incontraddittorietà autenticamente assoluta, come
impossibilità di identificare gli assolutamente in identici».
7
Saverino interpreta l’essere parmenideo come trascendente, perché in Parmenide essendo il
divenire illusione, ossia non-essere, allora l’unica dimensione veritativa è quella che sta oltre la
dimensione diveniente. La successiva interpretazione platonica dell’essere partirà proprio da
questo “stare oltre”. L’eternità dell’essere è solo di quella dimensione che sta oltre il mondo
diveniente.
11
platonica della differenza tra il non-essere come contrario (ε̉ναντίον) e il
non-essere come altro (ε̉́τερον) dall’essere è stata per il pensiero
occidentale tanto più fatale quanto essenziale. Perché essa porta le
differenze nell’essere, ma continua a lasciarle nel tempo, da cui prende
inizio la ricerca di quell’essere che è fuori del tempo: gli immutabili della
metafisica. Con Platone le differenze vengono ricondotte nell’essere, perché
se le singole determinazioni (rosso, casa, albero ecc.) non significano
essere, dall’altra non significano neanche nulla; se quindi non significano
nulla, allora di esse si deve predicare l’essere, il quale è un respinger via il
nulla. In tal modo l’essere diventa predicato di ciò che gli è diverso
(ε̉́τερον), non di ciò che gli è opposto (ε̉ναντίον). Perciò con Platone dire
che il “non-essere è” non significa più che il negativo è il positivo. L’essere
parmenideo diventa il predicato di tutte le determinazioni
8
. Ma
riconducendo le differenze (determinazioni) nell’essere, l’essere viene
interpretato come ciò che può, anzi deve, a volte non essere. L’irruzione
delle differenze del molteplice nell’area dell’essere porta ad interpretare
l’intero del positivo sulla traccia del positivo empirico, in conseguenza
dell’idea che l’essere è quando è e non è quando non è, vede l’essere come
un oscillare tra la positività e la negatività: il divenire. Sono quindi le
determinazioni molteplici che indicano adesso il senso dell’essere. Da ciò
segue che dopo Parmenide tutta la metafisica occidentale diventerà una
fisica
9
.
8
A. Antonelli, Verità, nichilismo, prassi. Saggio sul pensiero di Emanuele Severino, cit., p. 24.
9
Ibidem, p. 31: «La regione dell’essere destinata alla contingenza, ovvero il reale mondano e
fenomenico, una volta determinata come strettamente appartenente all’interno del positivo,
produce il giudizio metafisico secondo cui non di tutto il positivo è sempre necessario predicare
l’essere, bensì solo di quell’essere che è, quando è».
12
Il nichilismo è il tratto essenziale della storia dell’Occidente
10
. È
certamente un tratto nascosto, nel senso che il pensiero occidentale
apertamente non ammette il suo essere nichilistico, ma solo a livello
inconscio. Eppure se ci inoltriamo nelle trame del suo pensiero cogliamo
tale carattere. Non a caso l’essenza della libertà, di quel concetto così
caratterizzante l’Occidente appartiene all’essenza del nichilismo
11
. Ma
quando si manifestano i tratti essenziali del nichilismo?
Come abbiamo già accennato essi si manifestano nella metafisica greca,
e in particolare quando il concetto di cosa si identifica con quello di ente. Il
pensiero greco in particolare identifica il τό τι con τὸ ο̉́ν; con il primo
termine il pensiero greco nomina il qualcosa (aliquid), con il secondo
nomina l’ente. La cosa più interessante è che il qualcosa viene identificato
con l’ente quando è sia inteso come soggetto della contrapposizione tra
l’essere e il niente, diventando l’opposto del niente, sia come ciò che si
mantiene legato sia all’essere che al niente. Insomma, da una parte l’ente è
pensato come ciò che si oppone al niente, dall’altra come ciò che è insieme
non-niente e niente. Mentre nel linguaggio premetafisico tale
contrapposizione rimane celata, con la metafisica tale contrapposizione è
perfettamente delineata, e diventa lo sfondo dell’Occidente. Nella
10
Sul nichilismo quale tratto essenziale hanno insistito molti pensatori, da Nietzsche ad Heidegger,
che però per Severino rimangono sempre all’interno della dimensione nichilistica. Il caso forse più
importante è quello determinato dal pensiero di Heidegger, che per certi aspetti si avvicina molto
al pensiero di Severino, ma per altri è estremamente distante. Questo perché in primo luogo
Heidegger indica già nella sua prima fondamentale opera, Essere e tempo, un rapporto privilegiato
tra essere e tempo, il tempo diveniente, quello cioè in cui l’ente nasce, permane e poi ritorna nel
niente. In più Heidegger fin dall’inizio ha sempre insistito sulla differenza ontologica tra essere e
ente, affermando che il nichilismo non è altro che la conseguenza della dimenticanza di questa
differenza tra essere ed ente, portando l’essere alla sua impropria identificazione con l’ente.
Sempre secondo il discorso di Heidegger l’essere nell’epoca attuale identificandosi compiutamente
con l’ente porta alla dimenticanza di questa dimenticanza, all’oblio del suo oblio. Ma proprio per
Severino questa differenza ontologica, che per Heidegger indica ciò che è proprio dell’essere,
identifica l’essere al niente, oblia l’essere in ciò che gli è proprio, ossia il suo essere l’opposto del
niente. Questo perché tutta la metafisica occidentale, compresa quindi quella di Heidegger,
tralascia il valore assoluto del nulla, il suo essere nihil absolutum, per porre invece il nulla
relativo. Heidegger infatti in molte sue opere identifica l’essere al niente, non perché vuole
identificare l’essere al niente assoluto, ma al niente relativo, ossia al suo essere “altro” dall’ente, al
suo essere inoggettivo. Ora però, rispetto al nihil absolutum l’essere e l’ente non possono essere
differenti, proprio perché entrambi “sono”, non sono il niente assoluto, ed è proprio questa
riflessione sul nihil absolutum che nel pensiero di Heidegger è assente. Cfr.: Severino, Oltre
l’uomo e oltre Dio, ed. Il Melangolo, Genova 2002, p. 36: «Se l’”altro” dall’essente è
assolutamente altro…esso è il nulla assoluto; se non è il nulla assoluto è un essente – per quanto
radicale possa essere la sua differenza dagli essenti che sono manifesti».
11
Emanuele Severino, Il destino della necessità, ed. Adelphi, Milano 1980, p. 31: «è difficile
rifiutarsi di scorgere nella parola greca ε̉λευθερία (libertà) la presenza del verbo λύω (sciolgo,
libero). Per il pensiero metafisico, ancor più originaria della libertà degli dèi e dei mortali è la
libertà dell’ente in quanto ente. Esso è in sé stesso libertà, perché non è legato né all’essere né al
niente». Non essere legato vuol dire essere contingente, ma contingente è solo dell’ente che può
anche non essere.
13
dimensione mitica infatti tale contrapposizione non è presente, esiste
certamente la differenza tra mondo dei vivi e quello dei morti, ma
quest’ultimo non è inteso come dimensione del niente, del totale congedo,
anzi le cose di tale mondo sono estremamente incombenti e richiedono
un’estrema cura.
Con la metafisica di Platone si ha l’equiparazione della cosa all’ente,
perché si ha la contrapposizione della cosa al niente, al µὴ ο̉́ν: dire che il
qualcosa, τό τι, si contrappone al niente, µὴ ο̉́ν, per Platone è lo stesso
dell’ente, τὸ ο̉́ν, che si contrappone al ni-ente, µὴ ο̉́ν. Se poi verifichiamo
cosa è per Platone l’ente troviamo lo stretto rapporto tra ente e cosa: l’ente è
“ciò” che non è un niente, il “ciò” è il τι, il qualcosa. Ora, nel pensiero di
Platone la cosa è certamente legata all’essere, ossia la cosa “è”, ma tale
legame non è eterno, non è quindi necessario. La cosa si trova fra l’essere e
il niente, contesa da entrambi. La contesa in greco si dice ε̉́ρις, mentre
έρίζειν è il contendere dei contendenti, il dibattersi del conteso tra i
contendenti. Platone può allora dire che la cosa è ε̉παµφοτερίζειν, il
dibattersi tra l’uno e l’altro, tra l’essere e il niente
12
. Ma la sfera di questo
dibattersi per Platone non è oggetto dell’ε̉πιστήµη, la quale ha come oggetto
l’ente eterno ed immutabile, l’ente che sempre “è” senza alcuna contesa; la
dimensione della contesa tra essere e niente appartiene alla δόξα,
all’opinione, la quale non si basa su una verità ferma e necessaria, ma sulla
contingenza, sull’indecisione tra essere e niente, anzi proprio perché l’ente
contingente è indeciso, è compagno di entrambi
13
. La sfera dell’opinione è
il divenire, in cui l’ente nasce (entra nell’essere) e perisce (ritorna nel
nulla). Da ciò si deduce che con l’ε̉παµφοτερίζειν non si apre la sfera
dell’ente in quanto ente, ma dell’ente in quanto diveniente
14
. Ma, a sua
volta, questo comporta che quando Platone parla dell’ente immutabile, egli
non lo intende tale in quanto ente, ma in quanto un certo ente, l’idea; la
quale in primo luogo non è un ente sensibile, ossia soggetto al processo del
divenire. L’ente in quanto ente non è immutabile per definizione, perché
altrimenti ogni ente sarebbe immutabile ed eterno. Il che ci fa dire che
l’ente in quanto ente è indeciso tra l’essere e il niente, la sua dimensione è
l’ε̉παµφοτερίζειν, conteso tra l’uno e l’altro. Se da una parte per Platone la
12
Ibidem, p. 21.
13
Come vedremo la dimensione dell’ente contingente è quello della τέχνη, cfr. Platone, Simposio,
205 b-c.
14
Cfr. A. Antonelli, Verità, nichilismo, prassi, cit., p. 118.
14
cosa non è un niente, dall’altra può non essere, ossia essere un niente.
Grazie a Platone la metafisica si fonda inconsciamente sul nichilismo, su
quel pensiero che consciamente nega che la cosa sia niente, ma
inconsciamente identifica la cosa col niente. Il carattere inconscio del
nichilismo si evidenzia dal fatto che, per Platone, se da una parte una cosa
che “è niente” è inconoscibile, si pone comunque che una cosa possa non
essere, in sostanza non avverte la necessità che l’impossibilità di conoscere
una cosa nientificata sia innanzitutto dovuta all’impossibilità che una cosa
(un non-niente) non sia. È proprio nel non cogliere questa necessità che il
pensiero occidentale si erige nella sua essenza. L’ente si trova in una
dimensione indecisa, tra l’essere e il niente, in un’oscillazione che non ha
fine. Non a caso per Platone l’ente è immutabile non in quanto ente, ma in
quanto idea; ciò vuol dire che l’ente in quanto ente (non semplicemente
l’ente diveniente) è indeciso (ε̉παµφοτερίζειν) tra l’essere e il niente. Se
però ci chiediamo cosa intenda Platone come anche Aristotele per divenire,
constatiamo che esso non è interpretato come passaggio dal puro essere al
puro niente, al niente assoluto. Ad esempio, nella costruzione di una casa,
l’ente particolare che sarà quella casa così fatta non è ancora, ma i materiali
che la compongono erano prima che la casa venisse costruita. Ciò che esce
e ritorna nel nulla non è tutto l’ente ma la sua unità, il suo essere un unicum.
Questo è certamente in contrasto con il principio della sostanza di
Aristotele, per cui è la sostanza, appunto l’unità di ogni ente ad essere
immutabile, mentre sono i suoi attributi a mutare. Eppure l’unità della casa,
di una casa, prima che venga costruita non è. Se andiamo più in profondità
si constata che anche i materiali di un’unità sono a loro volta prodotti o per
natura o grazie all’operato dell’uomo, il che ci porta a dire che anche la
materia esce e ritorna nel nulla. In sostanza Aristotele, pur ammettendo che
ogni cosa è un non-niente, asserisce anche che ogni cosa oscilla tra l’essere
e il niente; se quindi ammette che la cosa “è”, è inseparabile dal suo essere,
dall’altra uscendo e ritornando nel niente, ciò che in realtà subisce tale
processo è il suo essere, il suo non essere un niente: il fondamento
inconscio dell’Occidente è quello di identificare il non-niente col niente, il
positivo col negativo. È questa la follia che l’Occidente non vede, ma ha
sempre perseguito: dire che la cosa è un ente, ossia è legata all’essere e che
la cosa come tale esce e torna nel niente, significa dire che l’essere è niente,
appunto il positivo è il negativo, che è di per se stesso impossibile, perché
15
identifica gli opposti, ciò che per essenza non possono mai identificarsi.
Ecco l’essenza del nichilismo: essa non sta nella testimonianza dell’estrema
contrapposizione dell’ente e del niente, ma nel non tenersi fermo ad essa,
dissolvendo tale contrapposizione nel proprio inconscio
15
. La
contrapposizione autentica dell’ente e del niente è possibile solo se l’ente
viene considerato come una totalità, e, a sua volta, tale totalità appare solo
se in tale apparire non vi è nulla al di fuori di essa, solo se tutto l’ente è
eternamente separato dal niente. Solo quando il niente è inteso come
contrapposizione ad una “certa parte” dell’ente, e non come nulla assoluto,
il nulla si pone come un τι, appartenendo esso stesso alla totalità dell’ente.
Ponendo la possibilità di un niente relativo che non è l’opposto dell’ente,
ma l’altro dell’ente, anch’esso quindi un ente, Platone fonda i presupposti
del pensiero nichilistico. Infatti, da Plotino ad Heidegger l’Occidente userà
il concetto di nulla relativo per individuare la differenza tra essere ed ente:
l’essere è il nulla, perché è l’altro dell’ente.
Da questi risultati si ottiene che l’ente pensato nel suo essere frapposto
tra l’essere e il niente (ε̉παµφοτερίζειν) è il presupposto della libertà. In
greco libertà si dice ε̉λευθερία, composto dalla parola λύω, che significa
sciolgo, libero. La parola libertà originariamente non è semplicemente la
libertà del mortale o degli dei, ma la libertà dell’ente in quanto ente, il suo
essere sciolto dai legami, il suo essere appunto libero
16
. Ora il concetto di
libertà presuppone l’assenza di qualsiasi necessità, che come tale vincola
l’ente; in sostanza la libertà presuppone la contingenza dell’ente. Ma
proprio l’ ε̉παµφοτερίζειν dell’ente mostra nel modo più netto questo essere
liberi da qualsiasi legame: in quanto conteso dall’essere e dal nulla, l’ente è
libero da qualsiasi legame: l’ente può essere come anche non essere.
Sarebbe interessante evidenziare come questo concetto di libertà quale ciò
che si oppone alla necessità, si sia sviluppato in tutti gli ambiti della storia
dell’Occidente, pensiamo solo alla sfida del mortale contro i lacci degli dei,
alla trasgressione di Adamo al divieto divino. Certamente questa tendenza a
liberarsi della dimensione soprasensibile per il mortale è destinata al
fallimento. Eppure se pensiamo alla dimensione dell’ente lo scioglimento è
possibile, perché, come si è visto, l’ente in quanto ente si fonda sul concetto
di libertà (ε̉παµφοτερίζειν). «Ci si libera da qualcosa perché la cosa stessa,
15
Severino, Il destino della necessità, cit., p. 28.
16
Ibidem , cit., p. 31.
16
innanzitutto, è un liberarsi»
17
. Tale libertà è libertà infinita, perché percorre
la distanza tra gli estremamente opposti (essere e nulla), liberandosi in
modo estremo dall’uno e dall’altro. È con l’instaurarsi di questo frammezzo
che inizia la storia dell’Occidente come storia della libertà. In questa
dimensione la schiavitù è interpretata come il legame che trattiene l’ente
nell’essere o nel niente, ma è un legame provvisorio. La schiavitù trova
quindi fondamento nella libertà, poiché è l’indugiare dell’ente in uno dei
due estremi della sua libera oscillazione.
La libertà così intesa (ε̉παµφοτερίζειν) è a fondamento del binomio
occidentale di creazione-distruzione. La creazione infatti è la libertà dal
niente, mentre la distruzione è la libertà dall’essere.
Possiamo con ciò dire che «il demiurgo platonico, la volontà dei mortali,
il dio creatore del cristianesimo, la macchina, le rivoluzioni della borghesia
e del proletariato, la civiltà della tecnica non aggiungono nulla alla pura
essenza della libertà, ma costituiscono i vari modi in cui, nella storia
occidentale, la metafisica si è proposta di guidare la libertà dell’ente»
18
.
Con la metafisica la persuasione che l’ente in quanto ente sia niente
sopraggiunge insieme alla persuasione che l’ente è eterno, in quanto è un
certo ente, privilegiato, “divino”. Si può anzi dire che l’eterno è la
condizione della libertà del perituro, ma anche il contrario, ossia che la
persuasione della nientità dell’ente è il fondamento dell’affermazione
dell’eterno. Questo reciproco rispecchiarsi è possibile solo con
l’ε̉παµφοτερίζειν dell’ente. Questo significa anche che il pensiero
metafisico, restando fermo sul fondamento della nientità dell’ente, scorge il
naufragio di ogni affermazione dell’eterno, nel senso che l’affermazione
dell’eternità è voluta dal mortale come legame di quel particolare ente
all’essere, ma esso naufraga perché si contrappone alla libertà dell’ente in
quanto ente dall’essere. Proprio per l’evidenza di tale libertà gli eterni, nella
storia dell’Occidente, sono destinati al tramonto: qui l’essenza dell’età della
tecnica. Il tramonto dell’eterno sta anche nel fatto che l’ente eterno essendo
il senso del tutto, quindi anche degli enti divenienti, quelli cioè che sono
niente (in quanto divengono niente), contraddice se stesso. Se cioè l’ente
eterno è eternamente legato all’essere non può raccogliere l’ente che è
libero di non essere. L’evidenza della libertà dell’ente richiede quindi il
tramonto degli eterni.
17
Ibidem.
18
Ibidem, p. 33.