3
esaurirsi su quel terreno, per ammissione dello stesso mondo della scienza. In
questo senso si configura quella strutturale multidisciplinarità spesso invocata
per descrivere questa disciplina. Nel dettaglio occorre notare come la scienza
sollevi una questione di rilevanza etica, che quindi richiede uno sforzo di
mediazione filosofica, all’interno del panorama scientifico, non già dall’esterno,
come se si chiedesse ad una disciplina eterogenea di pronunciarsi sui risultati
della scienza.
Dalla situazione di eterogeneità tra etica e scienza si verificano due
diverse soluzioni: da una parte si può avere un imperialismo della scienza, la
quale cerca nell’etica semmai una giustificazione del proprio operato, non certo
una valutazione critica, dall’altra si potrebbe configurare un inverso imperialismo
dell’etica sulla scienza, tale per cui la ricerca scientifica dovrebbe essere condotta
secondo criteri estranei alla propria caratterizzazione. In realtà, si assiste sempre
più al verificarsi del primo atteggiamento e non del secondo, possibile,
comunque, in linea teorica. La ragione di questa situazione è da identificarsi,
quindi, dalla mancata sintesi delle due discipline, per cui l’una viene ridotta
all’altra.
Riconosciuto a questo punto, non tanto l’auspicabilità, quanto la
necessità di una sintesi tra le due discipline, occorre interrogarsi su dove si possa
cercare la forza sintetica per ottenere il risultato.
Su questa questione l’indagine filosofica può risultare preziosa. È
possibile, infatti, all’interno della prospettiva filosofica, studiare i limiti e le
competenze di scienza ed etica, per poter capire se e come queste due discipline
siano compatibili. Il vantaggio della trattazione filosofica è costituito dal fatto
che, dal punto di vista metodologico, la filosofia non può essere ricondotta
all’interno di nessuna delle due discipline sulle quali è chiamata a compiere
l’analisi; a differenza di quanto avviene, per esempio nella bioetica, quando ci si
4
propone di affrontare le questioni secondo uno spirito ora scientifico, ora etico,
ma comunque parziale.
In questo senso la speculazione filosofica rivolta alla scienza si sviluppa
in epistemologia, chiarificando le condizioni i limiti e le aspettative delle quali
l’impresa scientifica è titolare. In questo studio, un’epistemologia attenta
riconosce il modello di scienza più adeguato, sul quale è possibile innestare la
riflessione etica. In questo senso si scanseranno quelle derive epistemologiche
formaliste di matrice nominalista, per le quali la scienza è sufficiente a se stessa,
e si riaffermerà l’istanza realista della scienza, che distingue sempre il proprio
referente dall’indagine. Si può già notare l’utilità di questo vaglio epistemologico,
che riconosce la permeabilità del discorso scientifico ad altre prospettive,
compresa quindi quella etica. Non si può però pretendere che questa riflessione
sulla scienza sia compiuta dalla scienza stessa, è questo un momento
squisitamente filosofico, anche se di interesse chiaramente scientifico.
È sempre la riflessione filosofica a sviluppare un’etica che sia
compatibile con il discorso scientifico. In questa direzione vanno letti i dibattiti
interni all’etica tra le diverse prospettive: deontologiche, utilitariste e cognitive.
L’indagine filosofica, dimostrando la legittimità di una prospettiva cognitivista,
apre la riflessione morale alle acquisizioni scientifiche, proprio riconoscendo il
cognitum come punto focale del discorso morale. Esemplificando questo
rapporto, si può vedere come in una questione di rilevanza bioetica, quale quella
dei diritti da riconoscere all’essere umano allo stato embrionale, si ammette, dal
punto di vista etico, che l’essere o no titolare di diritto, dipende dall’essere
considerati o no appartenenti al genere umano, e a questo livello del discorso si
chiede alla scienza di esprimersi in merito a quest’appartenenza, decisiva
moralmente.
Come si vede, da quest’esempio, l’interazione tra scienza ed etica è
possibile in un contesto in cui si siano precisati gli ambiti di competenza, e
5
questa precisazione può essere un lavoro filosofico, che risulta necessario, oltre
che per evitare una confusione tra i livelli del discorso, anche per dare una
configurazione unitaria ad una materia che, altrimenti, risulterebbe il composto
di diverse discipline eterogenee.
A questo punto potrebbe considerarsi conclusa l’indagine filosofica: una
volta accertati i limiti e le competenze dei diversi ambiti, e dopo aver proposto
un modello di sintesi valido per tutte le componenti in gioco, si potrebbe dire
che la nuova disciplina può camminare con le proprie gambe. Così dicendo,
però, si tradirebbe la storia dalla quale è nata la bioetica. Si è visto, infatti, che la
bioetica è nata in un contesto scientifico, precisamente per l’improvvisa
accelerazione che lo sviluppo scientifico tecnologico fornisce alla scienza,
dilatando l’ambito delle possibili applicazioni. In questo panorama
continuamente in divenire la riflessione filosofica può essere chiamata a quel
lavoro di pulizia concettuale, e interpretazione dei modelli proposti dalle nuove
discipline, così come all’elaborazione di proposte etiche calzanti e recettive di
queste nuove acquisizioni, mantenendo sempre gli ambiti distinti ma informati
gli uni degli altri.
Sulla scorta di queste considerazioni abbiamo impostato il nostro lavoro
in tre capitoli relativi all’indagine epistemologica, alla riflessione etica, e un
capitolo conclusivo in cui vedere in pratica un modello di bioetica, emerso
dall’analisi dei testi studiati. Il nostro lavoro prende le mosse da un’opera di
divulgazione scientifica: Biotecnologie della vita quotidiana, proprio per ripercorrere
concettualmente l’itinerario storico, dal quale inizia la riflessione bioetica. Si è
poi preso in considerazione il modello di scienza che risultava implicito dalle tesi
esposte nel testo, e lo spazio restante alla riflessione etica all’interno di una
scienza così intesa. A questo punto si è sviluppata l’indagine epistemologica, tesa
a vagliare la legittimità del modello di scienza proposta dagli autori, per ricavarne
6
indicazioni utili all’elaborazione di un modello di scienza fedele a se stessa, e
interagente con l’etica.
Nel secondo capitolo, quindi, si è sviluppata l’analisi di un modello
d’interazione tra etica e scienza, proposto da Agazzi, che pure ha contribuito in
modo significativo all’indagine epistemologica, per proseguire l’itinerario di
sintesi risultato necessario dalle considerazioni precedenti. Si è studiata la
formula sistemica, proposta dall’Autore come modello d’interazione tra scienza
ed etica, per capire che tipo di logica fosse sottesa a questo esempio
d’interdisciplinarità.
È stato, infine, possibile studiare all’opera questo modello di sintesi
proposto da Agazzi, poiché l’Autore ha presieduto alla stesura del documento
del CNB sull’Identità e statuto dell’embrione umano, nella quale si trova operante, in
un caso concreto, il paradigma, elaborato in sede teorica, d’interazione tra
scienza ed etica, così da poter valutare l’efficacia della Sua proposta.
7
Capitolo primo
Neutralità della scienza
Nell’introduzione del libro Biotecnologie della vita quotidiana si sostiene che
«le biotecnologie ormai sono tra noi. In realtà molte di esse esistono da millenni,
da quando l’essere umano ha cominciato a selezionare specie animali e vegetali
più utili per la sua sopravvivenza»
1
. Queste affermazioni descrivono un fatto di
cui gli autori intendono specificare la dinamica. Il fine del libro, pertanto, non è
quello di valutare la bontà o meno delle biotecnologie, ma quello di «compiere
un viaggio nei luoghi dove si creano e consumano prodotti biotech»
2
.
L’atteggiamento descrittivo che gli autori si propongono è già segnalato
nel titolo che riprende il classico testo di Freud Psicopatologie della vita quotidiana.
Come in quel caso, infatti, Freud pensava che la presenza nella quotidianità delle
psicopatologie fosse un’evidenza di per sé incontestabile, così anche Paolo
Vezzoni ed Adriana Bazzi prendono le mosse dalla stessa considerazione, non
interrogandosi sul perché della situazione, come a dire contra factum non valet
argumentum.
Se dunque il titolo, nel suo richiamo al classico freudiano, dispensa gli
autori dall’argomentare circa il perché della situazione contemporanea, in quanto
assunta come fatto, la citazione precedente, specificando che da millenni l’uomo
modifica l’ambiente, vorrebbe comunque legittimare la situazione attuale.
Sarebbe quindi la storia umana come tale a giustificare l’intervento
biotecnologico testimoniandolo. Questo argomento, oltretutto, non supera
l’obiezione della cosiddetta “legge di Hume”: non si vede perché, infatti, la
semplice constatazione che si sia sempre agito in un certo modo implichi la
1
Adriana Bazzi, Paolo Vezzoni, Biotecnologie della vita quotidiana, Laterza, Bari 2000,
p. XI.
2
Ibidem, p. XI.
8
legittimità dell’azione stessa. Ci sarebbe un indebito passaggio dal piano
descrittivo a quello normativo.
A questo punto vanno fatte delle precisazioni: se, infatti, non è
contestabile che l’uomo da sempre abbia coltivato la terra e selezionato il
bestiame secondo l’utilità che ne avrebbe potuto derivare, non si può però
considerare questo tipo di interventi “biotecnologici”. L’agricoltura e
l’allevamento sono in sé tecniche, o se si vuole bio-tecniche in quanto applicate
ai fenomeni vitali nell’ordine dei vegetali e degli animali.
Per poter parlare di biotecnologie si deve prima specificare la tecnologia
dalla tecnica di cui è figlia. Ciò che distingue la conoscenza tecnica dalla scienza
in generale potrebbe essere sintetizzato nel diverso interrogativo che si pongono
le discipline: se la scienza in quanto tale si chiede il “perché” del fenomeno, la
tecnica si interroga sul “come” dello stesso. Da questa prospettiva la tecnica può
essere considerata, come sostiene Agazzi: «un accumulazione di procedure
operative, utili dal punto di vista pratico al conseguimento di fini particolari; esse
costituiscono un sapere come si fanno certe cose, senza implicare il sapere perché si
fanno così»
3
.
Lo specifico della tecnologia rispetto alla tecnica sarebbe invece la
conoscenza del perché la tale tecnica è efficace. La dimensione tecnologica,
dunque, è quella «per cui si giunge ad un operare efficace che conosce le ragioni
della propria efficacia e su di esse si fonda»
4
. Come si vede qui il tratto che
caratterizza questo piano è il retroterra teorico che ne spiega la validità. Queste
considerazioni non vogliono però escludere la tecnica in quanto tale dal sapere.
Si riconosce, infatti, una diversa finalità del sapere tecnico che è orientato
all’ambito della prassi, ma non per questo ne viene negato lo statuto conoscitivo;
3
E. Agazzi, Il bene il male e la scienza, Rusconi, Milano 1992, pp. 75.
4
Ibidem, p. 77.
9
sotto la categoria della “tecnica” rientra la dimensione del saper fare, che, come
tale, è appunto un sapere.
Il riconoscimento di uno statuto conoscitivo alla tecnica è importante
sin d’ora perché da un lato dice della compresenza dell’ambito pratico e di
quello conoscitivo, dall’altro prefigura la tecnologia quale esito naturale della
tecnica; infatti, se entrambe sono forme di sapere, e il sapere si sviluppa quale
indagine sulle cause dei fenomeni, lo sviluppo della tecnica non può che
terminare nella tecnologia.
Si può osservare un certo parallelismo tra questa dinamica e quella
conoscitiva: come, infatti, nell’uomo la conoscenza, in prima battuta, è presenza
a sé dell’oggetto, e solo poi, attraverso la riflessione, l’uomo acquisisce
coscienza di sé, divenendo cosciente di sapere; così la tecnica conosce
praticamente l’oggetto di cui dispone e la tecnologia, riflessivamente, conosce la
conoscenza pratica relativa all’oggetto. Si è voluto notare quest’analogia per
mostrare lo stretto rapporto di dipendenza ed anticipazione che lega le due
attività, pur distinte.
A questo punto potrebbe affacciarsi l’obiezione per cui, stante la
definizione precedente di tèchne quale accumulo di procedure operative, e
quella di scienza, quale scire per causas, questa non rientrerebbe in quella. Si
potrebbe infatti notare che: il sapere come compiere determinate azioni per
l’ottenimento di determinati fini, nella misura in cui non è accompagnato dalle
ragioni dell’operare, non può ambire all’aggettivo di scientifico. A
quest’obiezione si può rispondere rilevando che, pur essendo relativo al come, il
sapere tecnico non è comunque estraneo alla conoscenza delle cause; il tecnico,
infatti, applica le proprie conoscenze per raggiungere determinati scopi ben
sapendo che, a certe condizioni, si possono ottenere determinati effetti mediante
procedure specifiche. Certo, questo non è sufficiente per il riconoscimento di
scientificità, lo è però per riconoscere una certa consapevolezza all’ambito
10
pratico che, come si è visto, si svilupperà in tecnologia, la quale a tutti gli effetti
può vantare la propria scientificità.
Queste brevi considerazioni vorrebbero mostrare la non estraneità della
dimensione pratica da quella teorica e viceversa. Si è inteso sottolineare questa
reciproca appartenenza degli ambiti per evitare di tradire il fenomeno nella sua
complessità. Riconoscendo all’ambito pratico un’istanza conoscitiva, ed a quello
teorico una fase operativa, si mostra la pertinenza del giudizio morale, a diverso
titolo, in entrambi i casi.
Quando A. Bazzi e P. Vezzoni, quindi, scrivono che le biotecnologie
sono da sempre retaggio dell’umanità, misconoscono il ruolo che la scienza
opera nell’ambito biotecnologico. È rilevante, invece, riconoscere che tipo di
rapporto intercorra tra scienza e tecnica ai fini di una corretta valutazione della
stessa. Accade infatti che, se si riconosce alla tecnologia soltanto lo statuto di
scienza, questa in quanto tale pretenda per sé l’immunità da ogni vincolo, anche
di tipo etico; se invece la si assimila all’ambito tecnico avviene che questa
pretenda di essere valutata in ragione dei benefici che può apportare. In
entrambi i casi si avrebbe comunque un’errata impostazione della questione
proprio per i motivi suddetti. La tecnologia verrebbe valutata per ciò che non è.
Gli autori qui considerati. Entrambi oscillano sempre tra queste due
posizioni e, infatti, scrivono che: «le biotecnologie devono essere spinte o
bloccate non sulla base di ideologie precostituite, bensì di una valutazione costi
benefici»
5
. La valutazione in base ai costi e benefici segnala che si sta trattando la
biotecnologia alla stregua di una tecnica, quale non è. Il riferimento alle
ideologie, invece, svela l’atteggiamento dello scienziato che non sopporta
ingerenze rispetto alla propria ricerca. Scrivono, infatti, gli autori: «di diversa
natura sono le obiezioni ideologiche, alle quali non è possibile pensare che siano
gli scienziati a dover rispondere, per il semplice motivo che queste sono di
5
A. Bazzi, P. Vezzoni, op. cit., p.202.
11
natura diversa, ovvero extrascientifiche»
6
. È evidente da queste battute che per
lo scienziato tutto ciò che non goda dell’attributo di scientifico sia eo ipso
ideologico. Lasciando da parte, per ora, la questione relativa al valore che si vuol
riconoscere all’ideologia, si deve però rilevare quale idea di scienza emerge da
questa concezione: essa esprime il convincimento che ci sia un’assoluta
impermeabilità tra ciò che viene considerato scientifico e tutte le altre forme di
conoscenza e di sapere.
Sulla scorta di quanto detto sin d’ora, appare chiaro che una corretta
valutazione del fenomeno biotecnologico deve essere compiuta sull’estensione
semantica che implica il termine tecnologia.
Ricalibrare la suddetta estensione significa anzitutto riconoscere
l’interconnessione tra scienza e tecnica nei termini di reciproca immanenza. Non
è più possibile oggi sostenere una posizione che predichi l’indipendenza dell’una
dall’altra, infatti non c’è disciplina sperimentale che non si avvalga di una
qualche tecnica per l’osservazione dei fenomeni che studia, così come non esiste
alcuna tecnica che non sia stata pensata sulla scorta delle nuove acquisizioni
scientifiche
7
.
Questo rilievo assume particolare importanza ai fini di una valutazione
del fenomeno scientifico. Se, infatti, la scientificità di una disciplina è data dal
metodo di cui questa si avvale, e dalla considerazione precedente si è ricavato
che la tecnologia è indispensabile alla rilevazione dei fenomeni che la scienza
studia, dobbiamo allora concludere che la tecnologia non è una possibilità della
scienza contemporanea, bensì ne è il tratto caratterizzante. L’oggettività invocata
dalla scienza, quale proprio tratto specifico, viene ottenuta grazie alla
mediazione tecnologica, che a questo punto diviene parte integrante del
processo scientifico, almeno a livello metodologico.
6
Ibidem, p. 204.
7
Cfr. Hans Jonas, Tecnica medicina ed etica, Einaudi, Torino 1997, pp.16-8.
12
All’interno di questo quadro va ripensato il rapporto tra tèchne e scienza
per meglio comprendere lo statuto delle discipline biotecnologiche e, di
conseguenza, la pertinenza del giudizio etico a riguardo. Per compiere questo
approfondimento occorre preliminarmente studiare il fenomeno scientifico e
vagliare la legittimità della sua pretesa indifferenza morale. Se, infatti, si scoprisse
che anche la scienza in quanto tale va soggetta al giudizio etico, si scalzerebbe
alla radice lo statuto di privilegio che lo scienziato invoca oggi per sé. A maggior
ragione poi questo avverrebbe nella sintesi tecnologica.
13
L’autonomia della scienza.
Il problema relativo al riconoscimento da parte dello scienziato delle
istanze etiche è connesso con la questione dell’autonomia quale criterio fondante
della scienza. L’autonomia della ragione, quando viene applicata alle scienze,
significa sostanzialmente che la specificità dei rispettivi ambiti comporta la
determinazione di criteri interni, in base ai quali giudicare il raggiungimento dei
fini perseguiti dalla singola disciplina. In questo senso l’autonomia viene intesa a
livello metodologico e fu rivendicata a vario titolo da tutte le scienze: S.
Tommaso per la filosofia, Machiavelli per la politica, Galileo per la scienza, i
liberalisti inglesi per l’economia, Kant e i romantici per l’arte etc.
8
.
Questa autonomia poi può essere intesa secondo modi e gradi diversi. In
un primo caso, che è il senso metodologico suddetto, essa si configura come
indipendenza nei criteri di giudizio; questo significato dell’autonomia è tale per
cui si possa giudicare un quadro artisticamente valido nonostante il contenuto
osceno, così come un esperimento scientifico potrà essere ineccepibile dal punto
di vista procedurale, ma immorale sul piano etico, ad esempio la vivisezione
compiuta sugli esseri umani
9
. Questa posizione afferma pertanto l’indipendenza
delle scienze da valori estranei alle procedure scientifiche.
Altro senso dell’autonomia, ben più impegnativo, è quello per cui la
suddetta autonomia implica altresì piena indipendenza d’azione alle discipline.
Scrive Agazzi: «ciò equivale a sostenere che l’uomo politico “in quanto politico,
l’imprenditore “in quanto homo oeconomicus”, l’artista “in quanto artista” – e
possiamo ora aggiungere lo scienziato “in quanto scienziato” – possano
8
Cfr., E. Agazzi, op. cit., pp.11-12.
9
Cfr.., Ibidem, p.12.
14
lecitamente agire in conformità dei puri e semplici criteri della propria professione,
almeno quando opera all’interno di essa»
10
.
In questo contesto risulta possibile, all’interno di una scienza,
promuovere determinate azioni nonostante queste confliggano con le finalità di
altre scienze, nel caso degli esempi precedenti ciò significa: «che si è autorizzati a
promuovere una certa azione politica nonostante sia economicamente
svantaggiosa, a realizzare un dato comportamento economico nonostante sia
moralmente riprovevole, a produrre un’opera d’arte nonostante il suo contenuto
osceno»
11
. Accade cioè che il fine giustifichi i mezzi, laddove per fine s’intende
quello stabilito di volta in volta dalla scienza presa a modello, mentre i mezzi
sacrificabili sarebbero le finalità relative a quelle scienze non considerate
paradigmatiche. Questo è il risultato di un sistema scientifico chiuso, che non
comunichi con le proprie parti: «ogni disciplina, staccandosi dal sistema del
sapere medievale, ha rivendicato una piena autonomia “superiorem non
recognoscens»
12
.
Quest’atteggiamento ridurrebbe alla deontologia professionale ogni
controllo o valutazione sulla disciplina, che diviene così autoreferenziale non
solo riguardo all’ambito del giudizio, ma anche nella passi. Deontologia che si
tradurrebbe poi nella weberiana onestà intellettuale
13
, con la quale l’autore
specifica che gli unici doveri dello scienziato sono sintetizzabili nella trasparenza
dell’operato, cioè l’esibizione delle fonti e la giustificazione dei criteri assunti,
senza mai prendere posizione sugli stessi. È questo il principio dell’avalutatività
weberiana della scienza: «la caratteristica essenziale dell’onestà intellettuale sta
nel rinunciare ad esprimere giudizi di valore nel contesto di un discorso
scientifico, e nello stesso tempo nella capacità di individuare quali atteggiamenti
10
Ibidem, p. 13.
11
Ibidem, p. 12.
12
Ibidem, p. 12.
13
Cfr. Max Weber, La scienza come professione, Rusconi, Milano 1997, p.107.
15
valoriali di fondo costituiscano il presupposto inespresso di ciascuna azione e di
ciascuna teoria»
14
.
Il passaggio dalla deontologia all’onestà intellettuale rivela la vocazione
formalistica della struttura scientifica, ed è il terzo senso dell’autonomia, quello
per cui le scienze non tollerano intrusioni da altri ambiti di sapere «in nome della
protezione o promozione di fini o valori di natura diversa»
15
. La logica di questo
ulteriore sviluppo risiede in ciò che si è definito autoreferenzialità della scienza: se,
infatti, la coerenza viene ad essere l’unico criterio, ciò che differisce dalla
struttura non ha alcun titolo per interagirvi a nessun livello.
Come risulta evidente da quanto scritto sino ad ora, il termine autonomia
riferito alle scienze assume diversi significati: sia autodeterminazione quanto al
giudizio, sia autodeterminazione quanto all’azione, sia assenza di coazione
quanto all’azione. Esiste un ordine logico particolare tra i tre sensi del termine;
infatti, si può accogliere il primo rifiutando però gli altri, mentre non è possibile
accogliere il terzo significato senza condividerne anche i precedenti.
Nel tratteggiare la polisemia dell’autonomia si è volutamente parlato di
scienze, e non della scienza, per rilevare da subito come non sia solo il metodo a
configurare una scienza in quanto tale, giacché, se così fosse, non si
distinguerebbero la biologia dalla fisica, dall’astronomia, dalla sociologia e così
via, ma anche l’oggetto di cui queste trattano. Ciò detto va però precisato che la
ragione dell’autonomia, che la scienza rivendica per sé, è di ordine metodologico
formale, dunque prescinde dall’oggetto costitutivo dell’orizzonte scientifico.
Per quanto riguarda la scienza sarà utile distinguere la scienza pura da
quella applicata, infatti, possono entrambe essere considerate delle conoscenze,
ma mentre quella pura ha come scopo la verità, quella applicata mira alla
realizzazione di qualche azione o all’ottenimento di un risultato pratico
16
. Questa
14
Cfr. Idem, p.147.
15
E. Agazzi, Op. cit., p. 13.
16
Cfr., Ibidem, p.14.
16
distinzione, valida a livello di principio, lo è molto meno nell’orizzonte reale,
dove i due piani, prassi e teoria, sono spesso inestricabilmente intrecciati. Si deve
pertanto segnalare che se «in linea di principio, è moralmente lecito conoscere
qualunque cosa, e non esistono verità moralmente proibite, non si può
lecitamente fare qualunque cosa, e possono ben darsi azioni moralmente
proibite»
17
.
Se dunque a titolo di principio sembra giustificato l’appello
all’autonomia della scienza, almeno nel suo primo significato, poiché l’anelito
alla verità è un fine di per sé, deve poi essere considerato il modo in cui questa
viene perseguita. Questo rilievo assume decisamente importanza se si pensa alla
scienza nella forma delle scienze sperimentali. Assumendo questo modello
dell’impresa scientifica, si deve constatare che la ricerca della verità, il vedere
come stanno le cose, sia tutt’altro che una forma di sapere teorico-
contemplativa, ma piuttosto «viene richiesto un complesso lavoro operazionale,
che comporta la manipolazione dell’oggetto che viene sottoposto all’indagine»
18
.
La stessa idea di ricerca dice di come la verità sia di per sé indisponibile ad una
contemplazione immediata, ma debba essere conseguita con sforzo, laddove per
sforzo s’intende il processo sperimentale di verifiche e controlli tesi a
corroborare o smentire le ipotesi relative all’oggetto d’indagine.
Quest’immagine dell’attività scientifica mostra come la scienza rientri a
pieno titolo nel novero delle azioni e così, in quanto azione essa risulta soggetta
alla normativa morale, anche laddove il fine della manipolazione fosse
conoscitivo. Si deve inoltre rilevare che, quand’anche si sostenesse un’idea di
scienza come pura osservazione, questa non cesserebbe di essere comunque
un’azione, e quindi come tale soggetta alla sfera morale.
17
Ibidem, p.14.
18
Ibidem, p.14.