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1. QUASIMODO TRADUTTORE DI CLASSICI
1.1 Quasimodo traduttore di classici
Le traduzioni di Quasimodo sono numerose, sia per quel che riguarda la
poesia (classica e moderna), sia per quel che riguarda il teatro.
Fra le traduzioni dai classici, sono da ricordare: Lirici greci (1940), Il fiore
delle Georgiche (1942), Dall’Odissea (1945), Il Vangelo secondo Giovanni
(1946), Canti di Catullo (1955), Dalle Metamorfosi di Ovidio (1959),
Dall’Antologia Palatina (1968), Iliade – Episodi scelti (1968, postumo).
Per completezza di informazione, converrà citare anche le traduzioni
teatrali, nelle quali Quasimodo tende a ottenere non tanto il livello
“equilirico” che si proponeva nelle traduzioni poetiche, quanto un
linguaggio semplice, non aulico, non accademico, rispettoso, però, dei
valori poetici originali. Da ricordare: per il teatro classico, di Sofocle, Edipo
re (1946) ed Elettra (1954); di Eschilo, Coefore (1949); di Euripide, Ecuba
(1963) ed Eracle (1966); per il teatro moderno, di Shakespeare, Romeo e
Giulietta (1948), Macbeth (1952), Riccardo III (1952), La tempesta (1956),
Otello (1959), Antonio e Cleopatra (1966).
Quasimodo non si limita alla resa letterale della singola parola. Per lui, la
filologia è importante, anzi essenziale, per un primo approccio a un testo
classico o straniero, ma l’unico strumento per trasferire una poesia in
un’altra lingua-cultura è la tecnica professionale ed emotiva del verso e
della parola poetica.
In altre parole, secondo Quasimodo la poesia va tradotta solo dai poeti:
Queste mie traduzioni non sono rapportate a probabili schemi metrici d’origine,
ma tentano l’approssimazione più specifica d’un testo: quella poetica […] Il valido apporto
della filologia decade sempre oltre i limiti d’una interpretazione del testo esaminato e
ricostituito. L’indicazione dello studioso non può esaurire la “densità poetica” del testo; ma
prepara alla scelta di quella parola o costrutto che rientri nella situazione di canto del poeta
che si traduce.
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Quasimodo, Salvatore, Sulla versione dei lirici greci, in Il poeta e il politico e altri saggi,
Milano, Schwarz, 1960, pp. 61-62
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Inoltre, Quasimodo raramente traduce tutto un poema o un poeta: in genere
sceglie i passi che gli sembrano più adatti a una sua interpretazione, le parti
che, secondo lui, meglio si prestano alla trasposizione, quelle che presentano
zone di “moderno” tali da consentire una rilettura personale, originale.
Questa consuetudine rientra nel frammentismo ermetico, dovuto alle
possibilità e aperture che il frammento offre ai fini dell’illuminazione lirica
immediata. Sulla rivista “Primato”, nel numero del 15 giugno 1940, Cesare
Angelini, a proposito dei Lirici greci, sottolineava l’equivoco di chi,
esasperando il culto del frammento, forzava l’interpretazione, adattandola a
un intellettualismo chiuso ed esasperato. A suo parere, ciò era tipico di una
“poesia per iniziati” come quella ermetica. In realtà, più che di frammenti, si
trattava, secondo lui, di “frantumi”, giunti incompleti da testi
tendenzialmente mitici, e come tali “essenzialmente narrativi”
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.
Lo scambio fra traduttore e tradotti si rivela, comunque, reciproco: i Lirici
greci, Virgilio, Catullo, Omero, lasciano nella poesia di Quasimodo segni di
concretezza, di realismo, visibili già nelle Nuove Poesie (1936-42; la prima
traduzione dei Lirici greci risale al 1940). Già sulle rive dello Xanto (Alceo)
ha come presunto modello Sulle rive del Lambro; Lo stellato (titolo di
Ibico) è ripreso da Cavalli di luna e di vulcani: “cieli densi aperti agli
stellati”; nella citata poesia Cavalli di luna e di vulcani, l’espressione “a rive
d’alberi e fiumi” ha generato il titolo di Ibico Albero in riva al fiume; il
motivo iniziale degli uccelli presso il fiume e quello finale delle canne di
Alceo, in Già sulle rive dello Xanto (“Già sulle rive dello Xanto ritornano i
cavalli, / gli uccelli di palude scendono dal cielo”, e verso la fine “la verde
canna spunta”) è presente anche in La dolce collina: “Lontani uccelli aperti
nella sera tremano sul fiume / [...] / Fra le tenere canne delle rive”; l’uccello
in movimento verso l’acqua è in Ride la gazza, nera sugli aranci: “già
l’airone s’avanza verso l’acqua”.
L’ingresso di Quasimodo nel mondo dei classici comincia con i Lirici greci
(1940). Ma di quest’opera si parlerà a parte, e più dettagliatamente, più
avanti.
Dopo i Lirici greci, accanto ad altri classici, Quasimodo incontra Omero.
Anche in questo caso, Quasimodo non traduce tutto Omero, con le sue
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Angelini, Cesare, in “Primato”, 15 giugno 1940; cfr. Quasimodo, Salvatore, Lirici greci, a
cura di Niva Lorenzini, Milano, Mondadori, 1985, pp. 220-221
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forme iterative e le aggettivazioni fisse, ma opera una selezione delle parti
da tradurre:
Qualcuno mi rimprovera questo “amore” per le antologie di opere costruite e
complesse; ma sappiamo tutti che un poema non è mai completamente toccato dalla grazia;
e chi traduce, poi, sa più degli altri, dovendo leggere tutto il testo, dove il canto decade al
limite dell’informazione di legamento, e dove invece rimane intatto. Dovremmo anche noi
arrivare alla tecnica di un Pindemonte, per leggere tutto Omero, anche là dove il poeta
ritorna, con le riprese consuete agli aedi, a ripetere se stesso senza l’intensità della prima
voce?
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Quasimodo sceglie nei poemi omerici i brani che sente più congeniali,
cercando di riportarne alla luce le valenze emotive:
Di Omero ho tradotto millecinquecento versi dell’Odissea […] come per Virgilio,
ho tentato una misura d’esametro libera da monotone cesure, da ripetibili accenti,
chiamiamoli di consenso ritmico, cercando di raggiungere quella serena e smemorata aura
di racconto che risulta da una lettura dei poemi omerici. Un’antologia, dunque, e questa
volta con un’evidente preferenza per uno, anzi che per l’altro romanzo omerico.
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Ciò significa che Quasimodo non rifiuta la poesia epica, anzi, pone sullo
stesso piano lirica ed epica. Si preoccupa di “attualizzare” la parola omerica.
Traducendo dall’Odissea, scioglie i nessi composti, modifica gli epiteti,
riduce e omette i “legamenti formali” tipici della tecnica espressiva greca. Il
poeta intende liberare i classici dalla costrizione filologica che li lega ai
ricordi scolastici. Per questo elimina gli epiteti ripetitivi che accompagnano
un nome: “veloci” o “curve” le navi; “occhiglauca” o “glaucopide” Atena; il
generico attributo dell’eroe. O, viceversa, scioglie un aggettivo esornativo in
una frase. La tecnica usata per entrambe le traduzioni omeriche è identica,
nonostante i tempi diversi in cui vengono eseguite. Tuttavia l’Odissea
risulta un testo più congeniale a Quasimodo e viene tradotta, con gli altri
testi di quel periodo, nel momento più tragico della guerra. Ulisse diviene
così simbolo dell’uomo esiliato: dalla natura, dall’amore, dalla patria.
L’Iliade esce postuma, nel 1968, con illustrazioni di Giorgio De Chirico.
Anche qui, si tratta di “episodi scelti” (Incontro di Glauco e Diomede,
Ettore e Andromaca, Giochi funebri in onore di Patroclo. Il pugilato…);
anche qui, Quasimodo rivolge la propria attenzione ai singoli nuclei poetici.
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Quasimodo, Salvatore, Traduzioni dai classici, in Il poeta e il politico e altri saggi, cit.,
p.75
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Quasimodo, Salvatore, Traduzioni dai classici, in Il poeta e il politico e altri saggi, cit.,
pp. 75-76
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Due frammenti del libro XXIII, Giochi funebri in onore di Patroclo, erano
già stati pubblicati nella terza parte di Dare e avere (1966). Confrontando il
testo dato in Dare e avere con quello definitivo del ’68, si nota la cura
estrema di Quasimodo nel migliorare, ridurre e rendere più concreto il testo
tradotto: mani “potenti” che diventano “robuste”, elisioni dei soliti “così
disse” o loro attenta conservazione, eliminazione di congiunzioni.
Un’altra opera che costituisce un nuovo incontro di Quasimodo con i greci è
Dall’Antologia Palatina, uscita nel 1958. L’Antologia Palatina è una
raccolta di poesie ritrovata nella Biblioteca Palatina di Heidelberg. Si tratta
di un corpus di circa 4000 epigrammi greci, riuniti in “corone”, che coprono
più di dieci secoli: dal VII-VI a. C. attraverso l’età ellenistica e il massimo
fiorire del genere, fino al VI sec. d. C., a Giustiniano e all’età bizantina.
Sono composizioni brevi, bozzetti di genere, amorosi o campestri, oppure
iscrizioni funebri, epitaffi. Perduti i valori eroici della polis, gli artisti
alessandrini scoprono i controvalori individuali e la brevità dell’umana
esistenza.
Al poeta si affianca lo specialista, il filologo: Caterina Vassalini (“Scelta di
testi a cura di Salvatore Quasimodo e Caterina Vassalini” è il retro del
frontespizio dell’edizione Guanda, 1958). Anche in questo caso si effettua
una selezione: quantitativa (dei 4000 epigrammi originari, se ne danno solo
245) e tematica (prevale l’antitesi Eros-Thánatos). Il tema Amore-Morte, del
resto, è dominante nella poesia di Quasimodo (v. Thánatos Athánatos in La
terra impareggiabile). Il poeta predilige le epigrafi che tracciano a rovescio
– ossia, dopo la sua conclusione – la linea della vita. Si scopre così un
mondo in una serie di vite vissute, un panorama storico-sociologico che ci
racconta anche più della storia ufficiale. Protagonista è l’uomo comune.
Quasimodo sceglie i testi più lirici, più adatti ad essere riportati in italiano
moderno, al suo linguaggio e alla sua metrica. La preferenza accordata al
tema della morte, nonostante la volontà di documentare ogni aspetto delle
“corone”, è tipica di Quasimodo. Il filologo Gabriele Steinmayr osserva
come “la prova migliore della sua abilità Quasimodo ce l’offre nel cogliere
l’essenzialità della parola e della frase […] e rigenerarla in un’espressione
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italiana altrettanto essenziale”
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Osserva anche “come la tecnica della brevità
e concisione, che gli è propria, comporta pure qualche volta il sacrificio di
alcune sfumature tonali dell’originale”.
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L’altro importante tentativo riuscito
di Quasimodo è il “ricreare l’atmosfera musicale del metro classico”
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,
disintegrando lo schema metrico greco e ritrovandolo attraverso un proprio
ritmo interiore.
Al contrario Marcello Gigante, nello studio su L’ultimo Quasimodo e la
poesia greca,
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ritiene la traduzione degli alessandrini un impegno formale,
come risulta anche dalla resa del distico elegiaco in endecasillabi, settenari e
quinari e non trova una reale consonanza del traduttore coi tradotti, come
dimostra la larga rappresentatività della scelta, tendente a mostrare le
variazioni di un genere. Tuttavia, nonostante individui più di un documento
carico di bravura e di compiacimento tecnico, ma estraneo alla poetica e
all’ideologia di Quasimodo, Gigante, alla fine, è costretto a riconoscere un
momento di adesione integrale (ad es. riguardo ai vv. di Diodoro Zona, I
sec. a. C.) al contenuto penoso dell’umana trepidazione, in una cadenza
discorsiva che accentua, paradossalmente, la tragicità dell’evento.
In realtà, nessun linguaggio rimane definitivo, ma spesso resta fisso nella
mente il modello insuperato dei Lirici greci e la critica, di fronte a ogni
nuova traduzione quasimodiana, si riporta, più o meno consciamente, a
quella prima esperienza. Ma anche il linguaggio del poeta-traduttore risente
delle modificazioni storico-politiche, etiche, sociologiche dell’ambiente, nel
corso della propria vita. Anche la lingua della comunicazione,
modificandosi, influisce inevitabilmente sul linguaggio poetico, sulle forme
emozionali, sulle tecniche espressive. Anche la metrica può subire
mutamenti, parallelamente alle ricerche che il poeta sta svolgendo nelle
propria poesia creativa.
Ne deriva, quindi, nell’Antologia Palatina, una maggiore prosasticità del
verso, che si può riscontrare nella poesia coeva di La terra impareggiabile:
un verso scarno, secco; una parola colloquiale e concreta.
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Steinmayr, Gabriele, L’Antologia Palatina, in Quasimodo e la critica, a cura di Gilberto
Finzi, Milano, Mondadori, 1969, p. 369
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Steinmayr, Gabriele, L’Antologia Palatina, in Quasimodo e la critica, a cura di Gilberto
Finzi, cit., p. 369
7
Steinmayr, Gabriele, L’Antologia Palatina, in Quasimodo e la critica, a cura di Gilberto
Finzi, cit., p. 373
8
Gigante, Marcello, L’ultimo Quasimodo e la poesia greca, Napoli, Guida, 1970