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prerinascimentali, in particolar modo verrà attratto da Giotto, a cui
dedicherà, tra l’altro, la “Parlata su Giotto”.
Pur essendo sempre in prima fila nelle nuove esperienze dell’arte,
Carrà riflette continuamente sulla grandezza del passato: da Giotto a
Picasso, da Masaccio a Braque, tutta la storia nutre la sua creatività.
La sua pittura è forte, sintetica, a volte ostica perché poco concede
alla sensibilità superficiale, ma è sempre sorretta da un pensiero
profondo e determinato sull’arte e sulla realtà, che fa dei suoi dipinti
i testimoni preziosi di un’epoca in cui ancora si poteva concepire
l’opera d’arte come specchio dell’intera esistenza e non come
singolare, irripetibile “atto unico” dell’individuo.
Anche per questo motivo Carrà si tiene lontano dagli
sperimentalismi spesso gratuiti di certe avanguardie, preferendo
caute ma definitive conquiste.
Dopo gli esordi divisionisti, Carrà è tra i fondatori della pittura
futurista, la cui ricerca si sviluppa intorno alla rappresentazione
degli oggetti nella loro realtà dinamica.
Nel 1914/15 il clima sta mutando: la pattuglia marinettiana è divisa
da liti e incomprensioni; Carrà è tra gli artisti che comprendono
come il Futurismo sia solo un passaggio, sia pure importante e
complesso, e non il risultato finale del loro lavoro. In più c’è la
guerra a scompaginare le vicende di ognuno, tra gli entusiasmi
esistenziali di interventismo di molti e la dura realtà, amara, e tragica
che quell’evento racchiude.
In questo periodo matura, dunque, in Carrà la crisi del Futurismo,
che sbocca nelle opere del 1916, caratterizzate da immagini
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elementari, ferme, di primaria semplicità, talora grottesche. I
cosiddetti quadri “antigraziosi”, tutti costruzione, materia, spazio,
costituiscono la premessa alla grande avventura della pittura
Metafisica.
Le opere del 1915/16 rivelano la ricerca di un nuovo equilibrio
compositivo. Carrà, infatti, va ora allontanandosi dalla poetica
futuristica delle linee-forza e dei ritmi dinamici e adotta forme
nettamente più aspre e elementari.
Siamo nel pieno della guerra: Carrà dopo alcuni mesi di soldato a
Pieve di Cento è ricoverato all’ospedale militare di Ferrara con de
Chirico e Savinio, conosciuti in quel tempo tramite Soffici. Per
Carrà sarà un momento di nuovo fervore pittorico, alla luce di quel
ripensamento di valori essenziali che già da tempo gli fermenta
dentro: la pittura diviene pacato rapporto di “cose ordinarie”, aliene
dai simbolismi, dalle scoperte ironie, dai sogni ambigui sul
meraviglioso, in un’eccezione singolarissima della Metafisica.
Scrive Carrà in quel periodo: “Sono le cose ordinarie a rivelare
quelle forme che ci dicono uno stato superiore dell’essere. Così le
immagini esistono quando l’animo si incarna e le cose non sono
delle cose, ma espressione poetica del nostro spirito creatore”.
Realtà e valori intellettuali, in simbiosi attiva e reciproca, sono il
fondamento della nuova poetica di Carrà, ed il punto di arrivo delle
precedenti esperienze e meditazioni.
In particolar modo l’immagine metafisica, in lui, si fa specchio della
percezione spirituale dell’artista, dei suoi dubbi, dell’ambiguità
constatata fra sostanza della cosa e la sua presenza formale. La cosa
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è perseguita, quindi, e indagata nel significato “altro” che essa
racchiude, ma proprio in quanto cosa nella sua realtà vera ed
elementare. Lo stesso esito che tende al di là del visibile e unisce le
opere metafisiche di questo artista a quelle sue precedenti degli anni
1914/16.
Carrà propugna il ritorno alla tradizione non come imitazione, ma
come sintonia spirituale, anziché di regole, e sempre nuova bellezza
classica. Il suo guardare indietro alla ricerca della misura austera del
Tre-Quattrocento italiano non è quello di un passatista: l’unica
possibilità per essere moderni e vivi consiste per lui nel ritrovare
quel metodo e quel rigore.
Dopo la grande avventura della Metafisica, negli Anni Venti, Carrà
si isola sempre di più rispetto alle avanguardie ed elabora uno stile
solido e arcaizzante, nella ricerca continua di equilibrio tra
tradizione e modernità. Nella sua ricerca di solidità costruttiva e di
essenzialità si appassiona sempre più a Giotto e giunge a riproporre
il genere della pittura di paesaggio nelle sue sospese atmosfere.
Il paesaggio, quindi, diventa ora il tema preferito dell’artista.
Se Carrà divenne famoso presso i maggiori pittori europei, tuttavia
la sicurezza economica è ancora lontana. Più che la pittura
paradossalmente è il talento di scrittore d’arte ad aiutarlo
enormemente: nel 1922 infatti il quotidiano milanese
“L’Ambrosiano” gli offre la rubrica d’arte, che terrà con assiduità
per moltissimi anni.
Le sue visioni solide, arcaizzante, di lucida irrealtà, purtroppo, non
sono fatte per piacere al pubblico e in molti casi nemmeno agli
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esperti. Carrà ha intrapreso una via solitaria, difficile; quel sottile
equilibrio tra tradizione e modernità non è facile da intuire, neppure
per tanti colleghi.
Con il suo lavoro di critico ha sempre cercato di mettere in guardia
gli artisti e gli studiosi di arte dalle anguste opinioni in cui venivano
a rinchiuderli le dottrine artistiche ed estetiche.
Ha cercato fino alla fine della sua stessa vita di persuadere almeno la
gioventù che era tempo di ripensare i fondamenti della dottrina
artistica, togliendola dalla condizione servile in cui giaceva, “non
vedendo perché noi italiani avessimo dovuto farci pedissequi
seguaci di pensieri e interessi non nostri”. Ha cercato inoltre di
dimostrare che “le tendenze sortite dall’impressionismo francese
fossero solo un intermezzo nella longeva vita della nostra civiltà
artistica”. Ancora, ha cercato di far chiaro quanto fossero “veleno
per la gioventù artistica, non meno della già detta corrente, quelle
improntate ad un esasperato intellettualismo, che conducono la
pittura in quelle dottrine estetiche che si volgono sempre ad un solo
lato dei problemi e non si curano del vero concetto, fino a che si
smarrisce il superiore scopo a cui deve tendere la pittura”.
Ecco che allora, dopo le prime folgorazioni delle avanguardie, il
momento della riflessione e del ripiegamento, che riguarda tutta
l’Europa, diventa in Italia un’occasione di grandi ripensamenti.
Riflessioni che faranno numerosi artisti di primo piano, dotati non
solo di genio ma anche di una cultura vasta e approfondita, come
appunto Carlo Carrà.
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I suoi punti di riferimento sono ampi e ben orientati, aggiornato su
quanto i colleghi francesi e tedeschi vanno facendo. Il suo non è un
guardare indietro, ma è ormai definitivamente pensare europeo, che
non teme di confrontarsi con nulla, né ha complessi di inferiorità.
Carrà potrebbe crogiolarsi nella fama, che nel secondo dopoguerra
premia la sua vita tormentata e faticosa, e godersi il benessere
finalmente raggiunto. Ma i suoi interessi sono di altro tipo: a suo
tempo non ha sfruttato il momento favorevole del Futurismo, né
quello della Metafisica, ha rifiutato il ruolo di grande maestro che il
Novecento era pronto a riconoscergli. Nel silenzio del suo studio
continua ad accumulare nature morte, marine e figure, sempre più
eredi di quella perfetta regola di misura e proporzione che era stato il
segreto di Giotto, Piero della Francesca e di Paolo Uccello e che egli
vuole offrire rinnovata al mondo moderno.
L’arte dei giovani sta percorrendo altre strade, dell’Informale, del
Neodadaismo, ma Carrà non se ne preoccupa. Fin dall’inizio ha
scelto una prospettiva di grandezza fuori del tempo, fatta di lavoro
umile e privo di retorica, ma misurato sui tempi lunghi della storia.
Per questo non lo ha fermato l’insuccesso, né muta il suo
atteggiamento una volta raggiunto un po’ di fama, ma lavora
quotidianamente, continuando in silenzio la sua ricerca.
Il modo di lavorare di Carrà, dall’inizio alla fine, tende allo scopo di
ridare al suo paese un’arte nuova nella forma e nella sostanza,
vedendo dinnanzi a sé, nel loro piano immutabile, i valori di tutte le
epoche.
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CAPITOLO PRIMO
“Le strade di Dio,
nella natura come nella provvidenza,
non sono le NOSTRE strade;
né i modelli che noi componiamo possono
essere in ogni caso commisurati alla vastità,
profondità e imperscrutabilità
delle Sue opere che hanno in sé
una profondità più grande di quella del pozzo di Democrito”.
JOSEPH GLANWILL
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Cap. I:
Il “ritorno all’ordine” e la riflessione sui “Primitivi”
I primi quindici anni del 1900 furono per l’Europa una fase di
incredibile fervore: in questo breve periodo furono rintracciati tutti
gli elementi che segnarono la storia del mondo moderno, sul piano
tecnologico e scientifico, sociale e culturale.
La mitologia positiva ed esaltante di quel periodo tendeva a
mascherare ideologicamente la ben diversa realtà dei contrasti
sociali, dell’involuzione autoritaria e nazionalistica dei governi,
delle guerre in paesi lontani, conseguenza dell’espansione coloniale
europea.
Sembrava così che il mondo correva, con una sorta di incosciente
leggerezza, verso l’inevitabile resa dei conti che si presentò,
apparentemente imprevista, con lo scoppio del primo conflitto
mondiale, dove si consumò la fine di un’epoca e si giocarono i
destini del mondo moderno.
Lo scoppio della prima guerra mondiale, nell’agosto del 1914, e
l’intervento italiano, nel maggio dell’anno seguente, posero fine a un
periodo che, pure inquieto come fu, sarebbe parso più tardi un’era
felice di pace e di vivere agiato. La rivoluzione sovietica e l’impulso
che ne venne al movimento operaio; la crisi del mondo borghese;
l’acuirsi dei contrasti sociali; le reazioni fasciste in tanti paesi; la
coscienza dell’avvicinarsi graduale di un nuovo duro conflitto;
l’avventura coloniale italiana in Etiopia; la guerra spagnola: furono
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questi i fatti che segnarono di più gli anni fra le due guerre, e furono
fatti senza i quali non fu possibile dipanare i fili di un complesso
periodo di attività culturale, sia artistica che letteraria.
Ancora più complesso e contraddittorio l’insieme degli stati d’animo
con cui fu vissuto il dopoguerra, perché con la fine della guerra si
aprirono nuovi problemi: quelli politici, che riguardavano alcune
zone di frontiera dei nostri confini nord-orientali e i rapporti con il
nuovo stato costituitosi là del disfacimento dell’Impero austro-
ungarico (la Jugoslavia); quelli economici e sociali della
riconversione dell’industria e dell’economia; del riassorbimento
nella vita sociale e inattività di lavoro delle masse; del debito
pubblico gonfiatosi; della giustizia fiscale di fronte al fenomeno dei
“pescicani”, come allora si disse degli “arricchiti di guerra”
1
.
Questi problemi erano seri, ma comuni a tutti i paesi che avevano
partecipato al conflitto, come a tutti i paesi era comune uno stato
d’animo composito fatto di disagio morale per la strage vissuta, di
frustrazione, di ribellione a un sistema che con la guerra aveva
mostrato la sua insufficienza. Pertanto il problema di fondo, dinanzi
a cui si trovò l’Europa, fu di come incanalare questo disagio, degli
sbocchi da dargli, della soluzione, non solo politica, ma anche
culturale e morale, con cui affrontare il futuro.
La delusione di non aver conseguito gli obiettivi sperati provocò, in
quel clima di diffusa inquietudine, una tensione rivolta al recupero
della propria identità nazionale, attraverso un rinnovato rapporto con
1
G. Spini, Disegno storico della civiltà- Vol. III, Edizioni Cremonese, Roma 1963,
pp. 364/381
10
le radici storiche e le tradizioni culturali: tutto però confluì nello
sviluppo di tendenze nazionalistiche che spesso si spinsero a forme
esasperate ed estremiste, come il fascismo e il nazismo.
Gli anni della guerra avevano spento la carica rivoluzionaria delle
avanguardie del primo ‘900. Del resto, le stesse avanguardie,
durante gli anni del conflitto mondiale, si erano spinte fino a
sperimentazioni che segnavano in qualche modo un limite estremo,
al di là del quale non sembrava possibile proseguire.
Questo non significò, tuttavia, che sempre e dovunque vennero
interrotti i rapporti e gli scambi tra i gruppi di punta della cultura
europea, né che vennero negati i legami con le esperienze delle
avanguardie precedenti la guerra. Della loro originaria spinta
innovatrice, depurata degli aspetti irrazionali, individualistici,
distruttivi, si intendevano recuperare le potenzialità propositive,
razionali, e costruttive.
La guerra aveva rinvigorito il movimento operaio e contadino, ma
aveva anche, per ovvia reazione, accresciuto il numero degli
appartenenti ai ceti medi e intellettuali che, stretti tra un’alta
borghesia degli affari e dell’industria e un proletario organizzato o in
via di organizzarsi, si sentivano tagliati fuori dal processo storico.
Fu in questi anni che la società italiana cominciò ad articolarsi in
una gamma di gruppi sociali, con la sostituzione ormai assoluta di
una aristocrazia della finanza e dell’industria a quella della nascita;
la presenza di un “ceto medio” larghissimo e composito; l’attenuarsi
della distinzione millenaria tra città e campagna; una diffusione più
ampia dell’informazione: come lo sviluppo sempre più del
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cinematografo, della radio, delle forme nuove di stampa, tutti questi,
uniti ad altri fenomeni di massificazione, si intrecciavano a
modificare la mentalità e il costume e incidevano a fondo sull’arte,
ma in realtà su tutta la cultura in generale. Questo processo fu spesso
misconosciuto o lamentato dagli intellettuali, che vedevano in esso
la morte dell’aristocratica dignità della “cultura”, o dagli artisti, i
quali gli attribuivano “a mercificazione e reificazione dell’arte”
2
.
La “sapienza economica” condizionò anche lo sviluppo dell’arte
che, non fu più una “facoltà riposata, delicata, e dolce”, ma cedette
alla “volgarità e trivialità dei modi”
3
.
La vita di questo periodo rendeva lo “spirito tanto banale e ottuso”
da non sentire più quello che si sentiva prima e, quel che forse era
peggio, da non sentirsi più quello che si era. Molti, anzi la maggior
parte delle persone, non capivano questo stato d’animo, e “non
comprendevano quale segno di forza fosse il non divenire un bruto
assoluto e irrimediabile”
4
.
Pertanto ogni cosa si era fatta barbara, ci si atteneva alle maniere
scortesi, per cui anche la vecchia maniera di fare arte veniva presa
dagli stessi pittori per scarsa sensibilità del moderno; così più
passavano gli anni, più i tempi diventavano negativi per l’arte. Si era
giunti addirittura al rifiuto della concezione di arte come atto
creativo e del fare arte come elaborazione e trasformazione della
materia.
2
G. Spini, Disegno storico della civiltà- Vol. III, cit. , pp. 364/381
3
C. Carrà, Pittura Metafisica, Casa Editrice “Il Balcone”, Milano 1945, pp. 17
4
C. Carrà/A. Soffici, Lettere 1913/29, Edizione Feltrinelli, Milano 1983, pp. 98