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mancanza di un processo di alternanza al potere e quindi di ricambio della classe
dirigente, ritardo nel varo delle leggi più importanti e attese dal Paese, a fronte di
eccessiva produzione di leggi in materie poco importanti, diffusione della
corruzione come strumento di finanziamento dei partiti, forte aumento del debito
pubblico, irresponsabilità finanziaria di governi, parlamenti e autonomie.
Ci si rese conto inoltre che tali disfunzioni non erano attribuibili solo a cattiva
volontà o errori di partiti e uomini politici, o a disapplicazione della Costituzione
Repubblicana, ma anche al fatto che molti dispositivi della Parte II della stessa
Costituzione (e certe leggi ordinarie importanti, come quelle elettorali) erano
superati e da rivedere.
Il dibattito sulle riforme costituzionali subì una forte accelerazione a seguito dei
profondi cambiamenti politici avvenuti nel nostro paese fra il 1990 e il 1994. In
quel periodo il crollo del Muro di Berlino e le difficoltà del PCI-PDS consentirono
a molti elettori di DC e PSI di spostare il proprio voto senza temere una svolta a
sinistra. Di questi consensi in uscita beneficiarono al Nord la Lega Lombarda e la
Liga Veneta (poi confluite con altri nella Lega Nord) e al Sud il MSI, in seguito
trasformatosi in Alleanza Nazionale. Nel 1992 le elezioni politiche videro il
successo della Lega Nord, l’arretramento di DC e PSI e quello del PDS che,
penalizzato anche dalla scissione di Rifondazione Comunista, non confermava i
consensi del PCI. Poco dopo il sistema giudiziario cominciò a incriminare per
corruzione e concussione i più importanti esponenti politici e imprenditoriali, con
clamorose inchieste e processi che proseguirono per alcuni anni.
Nel 1994 il Parlamento, delegittimato dalle inchieste su molti deputati e senatori, fu
di nuovo sciolto. Berlusconi, temendo il crollo di DC e PSI e una conseguente
svolta a sinistra, fondò Forza Italia e contrasse al Nord un’alleanza con la Lega
(Polo delle Libertà) e nel resto del Paese con Alleanza Nazionale (Polo del
Buongoverno). Le elezioni di quell’anno segnarono il successo di quest’alleanza e
la scomparsa dei partiti che avevano scritto la Costituzione Repubblicana e
governato l’Italia per tutto il dopoguerra. Del vecchio “arco costituzionale” rimase
solo il PDS, mentre Berlusconi guidava il suo primo Governo (1994-1995).
In tutta la prima metà degli anni Novanta il crescente voto leghista rese pressante
per la classe politica la richiesta di maggiori autonomie regionali e locali da parte
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degli elettori del Settentrione d’Italia, costringendo i partiti a recepire almeno in
parte le idee autonomiste e federaliste della Lega, per non restare spiazzati e
perdere ulteriori consensi. La “conversione” federalista di gran parte delle forze
politiche e sociali, e della classe politica locale, in effetti ha favorito il varo,
nell’arco di tutto il decennio, di alcune riforme autonomiste (vedi tabella 1).
Tuttavia, nonostante l’apparente unanimità di consensi che si è creata nel nostro
paese sul federalismo, il processo di riforma delle autonomie regionali e locali,
lungi dall’essere facilitato da un ampio accordo tra le forze politiche, è stato
ostacolato dalla presenza di aspirazioni contrastanti e caratterizzato da un rilevante
conflitto fra le coalizioni e al loro stesso interno, con il coinvolgimento anche di
associazioni di categoria, sindacati, associazioni di regioni, province e comuni.
Spesso l’appoggio al federalismo in Italia viene motivato da ragioni di efficienza
delle istituzioni, come la speranza in un governo più vicino ai cittadini e meglio
capace di conoscerne e realizzarne aspirazioni e interessi, variabili a seconda della
comunità locale di appartenenza. Tuttavia c’è ragione di credere che queste siano
soltanto le motivazioni proposte alla pubblica opinione, diverse però da quelle
effettivamente sentite dagli attori politici e istituzionali. Quanto a questi ultimi è più
convincente ipotizzare motivazioni diverse:
a) Da parte della Lega Nord, la volontà di decentrare i poteri per contare di più
nella formulazione delle politiche pubbliche destinate al suo elettorato,
concentrato nel Settentrione. Inoltre la credenza che gli italiani del Nord
abbiano interessi e aspirazioni irrimediabilmente diverse da quelle degli italiani
del Centro-Sud, e quindi che sia necessaria un’articolazione del potere che
consenta l’adozione, in ciascuna parte del paese, di scelte il più possibile
indipendenti da quelle dell’altra parte.
b) Da parte delle forze della Casa delle Libertà la credenza che i problemi siano
meglio risolvibili col mercato che con l’intervento pubblico, che la
privatizzazione dei più importanti servizi sia meglio raggiungibile in un sistema
istituzionale con forti autonomie, nonché la volontà di rappresentare gli interessi
di quanti operano come imprenditori nel mercato medesimo. Ciò può spiegare
l’insistenza per l’adozione, insieme col federalismo e il connesso principio di
sussidiarietà istituzionale, anche del principio di sussidiarietà sociale, che
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appunto pone un limite al diritto dei pubblici poteri ad intervenire nella
soluzione di problemi collettivi. D’altronde si spiega come il Centrosinistra e
Rifondazione Comunista, maggiormente fiduciose nell’intervento pubblico,
abbiano spinto per formulazioni più deboli della sussidiarietà sociale o abbiano
cercato di togliere il problema dall’agenda.
c) Da parte di regioni, province e comuni, la volontà di accentrare più poteri nelle
proprie mani, in competizione sia tra loro che con lo Stato, in questa fase
comunque costretto a cederne perché considerato inadatto alla soluzione di certi
problemi e perché messo in discussione dal risveglio delle identità locali in
Italia come in tutta Europa.
Al primo Governo Berlusconi seguirono, causa la rottura dell’alleanza Polo-Lega, il
Governo tecnico Dini, le elezioni politiche del 1996 vinte dall’Ulivo e i governi
Prodi (1996-98), D’Alema (1998-2000) e Amato (2000-2001).
Le elezioni politiche del 2001, come è noto, hanno visto il successo della rinnovata
alleanza Polo-Lega nella Casa delle Libertà e il ritorno al Governo del leader di FI
Berlusconi.
Nella tabella 1 sono passate in rassegna le tappe fondamentali compiute dal 1971 ad
oggi sulla via, impervia e a tratti non ben delineata, del mutamento istituzionale e
costituzionale.
Nel complesso fino al 2001 tutti i tentativi esperiti avevano raggiunto risultati assai
modesti in rapporto al tempo trascorso e al lavoro di elaborazione svolto dai vari
promotori di riforme. Ogni volta la necessità di maggioranze ampie, le contingenze
della politica, le elezioni anticipate, gli stessi contrasti sul merito delle riforme da
attuare, nonché i timori che esse andassero a vantaggio degli avversari politici,
avevano travolto il processo riformatore a metà del cammino. Erano state possibili
soltanto riforme di singoli articoli della Costituzione oppure di leggi ordinarie,
spesso con inerzia nell’attuazione ed effetti innovativi molto limitati. In particolare
dopo la costituzione del Governo D’Alema (1998) era ancora sentita nella classe
politica la delusione per il fallimento della Commissione Bicamerale da lui stesso
presieduta, tanto da indurre lo stesso Presidente del Consiglio a intervenire
direttamente presentando un progetto di legge governativo di riforma del Titolo V
della Costituzione (marzo 1999) che riprendeva le conclusioni della Commissione
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in merito alla forma di stato, accantonando per il momento il problema della forma
di governo, oggetto di divergenze politiche troppo profonde tra fautori del
presidenzialismo e sostenitori di un sistema parlamentare corretto. E’ stato scelto
altresì di rinviare la soluzione di altri nodi importanti, come quello del superamento
del bicameralismo perfetto con l’istituzione di un’assemblea rappresentativa delle
autonomie e la riserva alla Camera dei Deputati della competenza generale sulla
legislazione statale, nonché la riforma dei criteri di nomina della Corte
Costituzionale con l’immissione di giudici espressione di regioni ed enti locali. Ciò
può essere stato dovuto alla volontà di accontentarsi delle riforme possibili,
evitando l’ennesimo fallimento, così come alla preoccupazione di non perdere
pregiudizialmente il consenso del Senato; tuttavia queste scelte hanno rappresentato
e rappresentano altrettante carenze dell’impianto della riforma.
La legge costituzionale n. 3 del 2001 fu deliberata durante la XIII Legislatura da un
Parlamento composto in maggioranza di eletti nel Centrosinistra, e sotto la spinta
dei governi D’Alema e Amato, espressione di questa coalizione. Tuttavia gran parte
dell’iter parlamentare si compì dopo le elezioni regionali dell’aprile 2000, vinte
dalla Casa delle Libertà, e quindi con l’aspettativa che questa alleanza avrebbe
probabilmente vinto anche le successive elezioni politiche del maggio 2001. Ciò
influenzò profondamente il dibattito, portando a un duro scontro tra le coalizioni in
luogo dell’ampio consenso solitamente auspicato per la deliberazione di leggi di
riforma della Costituzione. Il Centrosinistra premeva così per approvare la riforma
anche per accreditarsi all’opinione pubblica come forza federalista durante la
campagna elettorale, e impedire al Centrodestra di fare altrettanto, mentre per lo
stesso motivo il Centrodestra aveva interesse che la legge costituzionale non
passasse. Inoltre vi erano divergenze di sostanza sul tipo di riforma federalista da
realizzare; per cui la chiarezza dei rapporti di forza attuali e futuri consigliava al
Centrosinistra di approvare la riforma finché era in tempo, prima di finire in
minoranza nella legislatura a venire, mentre il Centrodestra aveva interesse a
investire della questione il Parlamento della legislatura successiva, nel quale sapeva
che avrebbe contato di più.
Dopo la vittoria della Casa delle Libertà nelle elezioni politiche del maggio 2001 il
Titolo V, approvato definitivamente di lì a poco col voto popolare dell’ottobre
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successivo, ha impattato sul fatto che la sua attuazione è stata demandata proprio
alla coalizione che si era fortemente opposta alla sua deliberazione, e che era
portatrice di un progetto alternativo.
Occorre infatti tenere conto che, per quanto riguarda le leggi costituzionali come il
Titolo V, molta dell’attuazione compete al medesimo Parlamento che deve
provvedere con leggi ordinarie attuative di certi articoli del testo costituzionale,
nonché al Governo che deve intervenire con decreti delegati per trasferire le
funzioni amministrative e le risorse umane e materiali connesse.
Pertanto l’attuazione del Titolo V si presentava problematica già mesi prima della
sua stessa approvazione referendaria, candidandosi a entrare nella casistica
dell’implementazione fallita sotto l’impatto della congiuntura politica.
D’altronde la formulazione della stessa riforma costituzionale alternativa della Casa
delle Libertà, la cosiddetta devoluzione, non sembrava avere prospettive molto
migliori, considerate le ben diverse aspirazioni costituzionali delle forze politiche al
governo nella XIV Legislatura, in particolare Alleanza Nazionale e UDC da una
parte, e Lega Nord dall’altra.
I primi mesi dopo la vittoria della Casa delle Libertà hanno mostrato subito la
concordia dei vincitori nel disapplicare la riforma varata dal Centrosinistra, ma
anche la discordia in merito all’alternativa a questa riforma. Dapprima il Ministro
per le Riforme Istituzionali Bossi ha proposto una ambiziosa revisione di diversi
articoli della Costituzione, per fare esprimere una parte della Corte Costituzionale
dalle autonomie, destituire i giudici costituzionali in carica, elencare espressamente
(fermo restando il principio della competenza residuale introdotto dal nuovo Titolo
V) alcune delle materie di competenza regionale, eliminare il vincolo del diritto
internazionale ed europeo dalle leggi di Stato e regioni, consentire alle regioni
l’attivazione di competenze esclusive in materia di sanità, istruzione e polizia
locale. Poi, di fronte alle contestazioni dei suoi alleati, ha dovuto ridimensionare il
suo progetto alla sola aggiunta di un comma al IV dell’art.117, con la previsione
dell’attivazione delle competenze esclusive regionali.
Fra il 2002 e il 2003 il Parlamento è stato impegnato nella discussione di questa
proposta di legge nonostante il fatto che la stessa maggioranza promotrice la
considerasse incoerente col resto del testo costituzionale, e che la stessa Lega Nord
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con ogni probabilità la considerasse solo uno strumento di propaganda elettorale
piuttosto che aspettarsi davvero la sua approvazione definitiva. Nel frattempo ne è
stata rallentata la discussione sulla legge di attuazione del nuovo Titolo V,
approvata solo a maggio del 2003. Sul federalismo fiscale il Governo si è mosso a
ritroso rispetto alle politiche seguite dall’Ulivo, non solo rifiutandosi di definirne i
principi, ma riducendo la base imponibile della più importante imposta regionale
(l’IRAP), tagliando i trasferimenti a regioni ed enti locali, limitando l’imposizione
fiscale e la spesa delle autonomie, il tutto con insufficiente compensazione
mediante quote del gettito di tributi erariali. Non sono state definite né le funzioni
fondamentali degli enti locali né i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i
diritti civili e sociali.
Il 14 aprile 2003 la devoluzione è stata approvata in I lettura alla Camera dei
Deputati (dopo esserlo stata al Senato) quando pochi giorni prima il Governo aveva
presentato un nuovo proposta di legge di riscrittura dell’art. 117, con abolizione
delle competenze legislative concorrenti, attribuzione alle regioni delle competenze
esclusive di cui al disegno di legge sulla devoluzione, ma anche reintroduzione del
concetto di interesse nazionale come limite negativo alle competenze legislative
regionali, autonomia speciale per Roma nell’ambito della Regione Lazio e
abolizione del procedimento pattizio per trasferire ulteriori competenze. Ciò era
risultato della mediazione con l’UDC e AN e segnava, dal punto di vista della Lega,
un arretramento.
Nonostante il fatto che il Titolo V della Costituzione sia stato effettivamente
riscritto, tutta la successione di eventi dal 2001 ad oggi sembra purtroppo riproporre
quanto accaduto nei decenni precedenti: continui tentativi di riforma travolti a metà
del cammino (di approvazione o di attuazione) dal cambiamento del quadro
politico, dall’uso strumentale della questione come arma di propaganda elettorale,
dalla diffidenza negli interlocutori, dal timore che la realizzazione di riforme
costituzionali potesse avvantaggiare gli avversari in termini di potere,
dall’irrompere di proposte alternative (a loro volta destinate ad essere superate in
breve tempo) e, a partire dagli anni Novanta, anche dalla presenza nella classe
politica di aspirazioni costituzionali profondamente diverse in merito al carattere
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parlamentare o presidenziale della forma di governo, al riparto di poteri fra Stato e
autonomie e all’assetto del sistema giudiziario.
Le conseguenze di tutto ciò sono assai gravi, perché il nostro sistema politico,
sempre più afflitto da conflittualità istituzionale, non riesce a chiudere la transizione
iniziata negli anni Novanta dandosi regole condivise, attuate e ben collaudate dagli
attori politici e istituzionali, come sarebbe desiderabile. Un effetto di questa
situazione è il perdurare dell’instabilità di governo (tre presidenti del consiglio e
quattro governi nella scorsa legislatura) suscettibile di venire meno solo se il
sistema partitico produce una leadership particolarmente forte, a prezzo però
dell’indebolimento delle garanzie di pluralismo e ponderazione delle decisioni.
Senza contare che la stessa stabilità dell’attuale Governo sembra essere messa alla
prova dai contrasti Polo-Lega e incombe il rischio dell’ennesimo scioglimento
anticipato. Altra conseguenza è la difficoltà nel discutere e affrontare tutti i
problemi più sentiti dalla popolazione e diversi da quelli istituzionali, la qual cosa
dovrebbe essere l’occupazione principale di un sistema politico.
2. La prospettiva adottata: fra scienza politica e diritto
La presente tesi di laurea si propone di affrontare le problematiche della riforma in
senso federale del nostro ordinamento sia sotto il profilo giuridico che sotto quello
politologico-istituzionale e quello dell’analisi delle politiche pubbliche. Ciò perché
la riforma in questione può essere analizzata sia nel suo valore precettivo e nelle
conseguenze che comporta sull’ordinamento giuridico, oggetto d’analisi dei
giuristi, sia come prodotto di un processo politico che ha richiesto diversi anni di
tempo e lavori, ha coinvolto una molteplicità di attori istituzionali (Governo,
Parlamento, regioni, enti locali), politici (i partiti), sociali (associazioni di categoria,
sindacati, stampa) ciascuno portatore di proprie percezioni, interessi, aspettative e
strategie tese a contrarre alleanze per meglio raggiungere obiettivi propri e
condivisi. Gli stessi giuristi sono considerati degli attori rilevanti nelle politiche
costituzionali come esperti del settore. I costituzionalisti hanno formalmente il
compito di consigliare la classe politica sia sull’interpretazione del senso della
Costituzione così com’è (diritto costituzionale) sia sulla valutazione di come una
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buona Costituzione dovrebbe essere (politica costituzionale). Tuttavia secondo gli
studi politologici i politici non sono recettori passivi degli orientamenti dei
costituzionalisti, bensì se ne servono per definire le prevedibili conseguenze delle
leggi costituzionali che hanno deliberato e che potrebbero deliberare, in modo da
ridurre l’incertezza su quali siano i propri poteri e la struttura di vincoli e
opportunità entro la quale devono operare. Infine occorre considerare che la stessa
esistenza, in seno alla comunità dei giuristi, di gravi divergenze sull’interpretazione
del testo vigente, tende a ostacolarne l’attuazione per leggi ordinarie da parte della
classe politica.
Gioverà mettere in evidenza il diverso modo di pensare di giuristi e politologi
poiché mentre il giurista:
1. cerca di estrarre dal testo costituzionale il suo significato “intrinseco”
indipendentemente dall’uso che possono farne le forze politiche o sociali;
2. considera i sistemi costituzionali neutrali rispetto alle politiche pubbliche
distributive, redistributive e regolative;
3. nel formulare giudizi di valore in materia costituzionale, si pone per lo più
questioni di ingegneria costituzionale, ossia riguardanti l’efficienza e l’efficacia
delle istituzioni nel produrre leggi e politiche pubbliche;
4. tende a considerare l’esistenza in vigore della norma come automaticamente
produttrice di effetti sull’ordinamento.
Invece il politologo:
1. considera l’influenza che i sistemi costituzionali possono avere rispetto alla
formulazione di politiche pubbliche distributive, redistributive e regolative;
2. si chiede come gli attori si serviranno delle leggi costituzionali per aumentare il
proprio potere e rendere più raggiungibili i propri obiettivi di politiche
pubbliche;
3. si pone il problema dell’esistenza del consenso necessario a che le leggi
costituzionali possano essere approvate e attuate;
4. studia il ruolo che gli attori politici giocano in fase di attuazione, a difesa dei
propri interessi e aspirazioni, similmente a quanto avviene in sede di
formulazione.
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3. Le politiche di riforma istituzionale nella scienza politica
Secondo la dottrina prevalente la formulazione delle regole costituzionali ed
elettorali di un sistema politico, come politica pubblica, va sotto il nome di “politica
istituzionale” che, a sua volta, appartiene alla più ampia categoria delle “politiche
costituenti”. Queste ultime, come fine prioritario, non hanno quello di risolvere o
gestire determinati problemi collettivi, bensì di predisporre gli attrezzi istituzionali,
organizzativi e procedurali necessari al trattamento dei problemi di rilevanza
collettiva. Detto in altri termini, le politiche costituenti hanno per oggetto le “regole
sulle regole”, ossia le modalità istituzionali attraverso le quali le decisioni vengono
formulate e attuate, anziché il loro contenuto sostantivo.
Sebbene da un punto di vista normativo si sostenga spesso che le regole
costituzionali debbano essere condivise per dare stabilità e legittimazione a un
sistema politico, e che pertanto devono ingenerare negli attori partitici l’aspettativa
che avranno effetti imprevedibili sui contenuti delle politiche pubbliche in genere
(redistributive, distributive e regolative), tuttavia dal punto di vista descrittivo gli
studi politologici attribuiscono ai partiti politici una percezione tutt’altro che
neutrale delle regole istituzionali, bensì ideologico-programmatica oppure
strumentale. Nel primo caso i partiti politici le percepirebbero come un fine in sé
facente parte delle loro aspirazioni. Nel secondo caso le considererebbero uno
strumento funzionale agli obiettivi di politiche pubbliche in genere che vi
riterrebbero correlati, ossia che riterrebbero più facilmente raggiungibili vigendo
determinati assetti istituzionali. A maggior ragione gli attori istituzionali avrebbero
in merito forti preferenze, essendo direttamente interessati alle regole che
definiscono i propri poteri e i vincoli entro i quali devono operare e, benché
formalmente non presenti nell’arena decisionale, tuttavia disporrebbero di efficaci
strumenti di intervento poiché, attraverso la mediazione del sistema partitico cui
tutto il personale politico appartiene, potrebbero esercitare pressioni sui decisori.
Occorre chiedersi quando si interviene in politica istituzionale, ossia quando gli
attori decidono che per risolvere i problemi connessi con la normale attività di
politica pubblica è necessario intervenire sulle regole del gioco.
Secondo un approccio funzionalista-efficientista ciò accadrebbe perché gli attori
maturano la convinzione che gli assetti istituzionali vigenti siano inefficienti nel
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produrre decisioni. Secondo i neoistituzionalisti però le regole costituzionali non
sono da intendersi come mero strumento per decidere, bensì come modelli di
comportamento persistenti del personale politico oppure come contesto normativo
che consente a quest’ultimo di attribuire un senso alla realtà nella quale opera.
Inoltre secondo gli autori di policy studies le regole formali sono solo uno degli
elementi realmente strutturanti l’adozione delle decisioni, poiché gli attori possono
utilizzare risorse informali per aggirare o contraddire le regole formali senza
bisogno di modificarle.
Sebbene l’approccio efficientista possa essere usato per motivare la decisione di
intervenire sulle regole fondamentali, in realtà i motivi più sentiti dagli attori
politici possono essere altri:
a) volontà degli attori di aumentare o istituzionalizzare il proprio potere, ovvero di
istituzionalizzare i propri interessi nell’ambito del sistema politico;
b) convinzione degli attori che determinati obiettivi desiderabili di policy siano
meglio raggiungibili con determinate forme istituzionali.
Il contenuto delle politiche istituzionali fa si che i loro destinatari siano gli stessi
decisori delle politiche pubbliche in genere. Ciò non significa che non vi sia la
partecipazione di altri soggetti; tuttavia si ritiene che questa tenda ad essere
scoraggiata dalla classe politica proprio perché quest’ultima è la titolare degli
interessi in gioco e cercherebbe quindi di monopolizzare il processo decisionale.
Ciò potrebbe spiegare perché non si sia mai scelta, come via alle riforme
costituzionali, l’elezione di un’assemblea costituente, che avrebbe costretto i partiti
politici ad assumere con i propri elettori impegni chiari e difficilmente eludibili,
riducendo quindi la loro discrezionalità.
Le politiche istituzionali, data l’importanza della posta in gioco, tendono a essere
formulate unicamente attraverso il compromesso tra gli attori politici della
coalizione che le sostiene, i quali ottengono tutti di migliorare, o almeno di non
peggiorare, le proprie posizioni di potere nel sistema politico. E’ invece
improbabile che uno degli attori sostenga una policy istituzionale nella quale perde
potere, in cambio di qualche contropartita in altro tipo di policy che probabilmente
non lo compenserebbe, o sarebbe troppo differita nel tempo e incerta.
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4. Il problema dell’implementazione delle politiche pubbliche
Fino agli anni cinquanta gli studiosi di politiche pubbliche facevano conto che una
legge, una volta decisa in sede politica, fosse automaticamente eseguita nel solo
modo possibile dagli apparati burocratici competenti. Soltanto negli anni sessanta
negli Stati Uniti si cominciò a notare le difficoltà che i programmi di welfare
incontravano nel raggiungimento degli obiettivi dichiarati (implementation deficit).
A partire dai primi anni settanta lo studio dell’implementazione (implementation
research) si affermò come campo autonomo all’interno della più vasta disciplina
che studia le politiche pubbliche. Le sue finalità sono sia analitiche (ricostruzione
dei processi e studio dell’efficacia) che prescrittive (indicazione delle condizioni
per assicurare il successo delle policies).
Proprio il carattere non automatico dell’attuazione obbliga a scartare come
fuorviante il termine “esecuzione” e a preferirgli quelli di “implementazione”,
“messa in opera” o “attuazione”.
Secondo l’approccio teorico cosiddetto top-down l’implementazione presuppone
una fase precedente in cui sono state formulate decisioni di carattere generale,
contenenti obiettivi che si cerca di conseguire mediante appunto l’attività attuativa.
La sua analisi accentra l’attenzione sul rapporto tra obiettivi e risultati e sulla
congruenza tra modalità attuative (azioni, attori, procedure) previste dal programma
normativo e quelle concretamente poste in essere nella messa in opera. In
quest’ottica la conformità alle norme nell’azione attuativa assicura il
raggiungimento degli obiettivi indicati. Assunto implicito di tale prospettiva è che
ottenere un’adeguata attuazione è solo un problema di capacità di controllo dei
decisori sui processi politici, organizzativi e tecnologici rilevanti per la policy e la
sua attuazione. Occorrerebbe quindi valutare l’eventuale scarto tra obiettivi indicati
ed effetti realmente prodotti, e sulla scorta di questo cercare di individuare le cause
in grado di spiegare l’insuccesso eventualmente registrato. A ben guardare tale
approccio risente fortemente di un pregiudizio di stampo gerarchico-costituzionale
che discende dalla teoria classica di tripartizione dei poteri, rafforzata dall’assunto
weberiano secondo cui l’azione della burocrazia legale-razionale consiste (o
dovrebbe consistere) nella mera esecuzione di norme che disciplinano
puntualmente le modalità d’azione della burocrazia. L’approccio top-down ha
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l’ambizione prescrittiva di individuare le condizioni il cui rispetto da parte dei
policy-makers è necessario per assicurare il raggiungimento degli obiettivi:
trattabilità del problema, capacità del programma normativo di strutturare la sua
stessa implementazione, nonché variabili esterne al programma come consenso e
condizioni socioeconomiche. In realtà, le condizioni indicate ben di rado sono
presenti e di conseguenza i programmi pubblici registrano spesso un certo grado di
fallimento; questo approccio rischia pertanto di fornire un contributo di scarso
interesse, documentando al limite i continui esempi di scostamento tra obiettivi
previsti e obiettivi raggiunti. In particolare, si possono muovere diversi ordini di
critiche:
a) i policy-makers non sono mai davvero in grado di esercitare un controllo
stringente sull’attuazione delle politiche che formulano; per di più la fedeltà di
esecuzione non è condizione necessaria, e nemmeno sufficiente, per assicurare
l’efficacia delle politiche, poiché può darsi il caso di politiche pubbliche che
raggiungono gli obiettivi dei loro decisori proprio grazie al fatto che la
burocrazia esercita un ruolo “creativo” nell’attuazione, oppure che non li
raggiungono proprio perché gli apparati statali non sanno discostarsi dagli
strumenti (oggettivamente inidonei) di attuazione previsti dai decisori;
b) spesso i programmi contengono una pluralità di obiettivi, anche in parziale
contrasto fra loro, generici o ambigui, che rispecchiano i conflitti esistenti tra i
diversi soggetti coinvolti nella formulazione delle politiche. Questi accettano
compromessi o tregue solo temporaneamente in modo da poter raggiungere
accordi, ma in realtà le ostilità sono destinate a riprendere subito dopo la
formalizzazione della decisione, nella fase attuativa. Gli esecutori dovranno
allora risolvere le questioni che i decisori hanno lasciato insolute in sede di
formulazione della policy;
c) non sono rare politiche con intenti simbolici che si esauriscono in un effetto
enunciativo, in relazione alle quali l’attuazione non dovrebbe avere luogo nelle
stesse intenzioni dei policy-makers;
d) le cause dei fallimenti possono essere già iscritte negli stessi programmi, per
esempio nella fissazione di obiettivi eccessivamente ambiziosi o
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nell’assegnazione di risorse inadeguate rispetto ad essi, oppure nell’assunzione
di una teoria errata circa rilevanti relazioni di causa-effetto;
e) infine esistono casi di attuazione anche in assenza di programmi (solo in seguito
viene approvato un programma che legalizza le attività già poste in essere) o in
cui vi sia una molteplicità di programmi sovrapposti in competizione tra loro.
Traendo spunto dai limiti dell’approccio top-down, tra la fine degli anni 70 e gli
inizi degli anni ottanta emerge l’approccio bottom-up che, considerando il
verificarsi di deficit di attuazione un fenomeno fisiologico piuttosto che patologico,
rovescia l’approccio analitico partendo dal basso verso l’alto. La domanda è ora
quali siano gli impatti delle politiche sui problemi che intendono affrontare, i
comportamenti degli attori (decisori, attuatori e destinatari) coinvolti e le
motivazioni alla base di questi, nonché gli outputs politici e amministrativi.
Principali limiti dell’approccio bottom-up sono:
a) rischio di sottovalutare la capacità dei decisori di influenzare obiettivi,
preferenze e strategie degli altri attori, grazie all’impiego delle risorse che
controllano;
b) elevata soggettività lasciata al ricercatore nella valutazione degli esiti della
policy, non essendoci più il parametro rappresentato dagli obiettivi dichiarati del
programma.
Una possibile sintesi di questi due approcci potrebbe comprendere:
a) verifica di quanto i policy-makers siano in grado di conseguire gli obiettivi che
si prefiggono;
b) indagine anche dal basso, per cercare tutti i fattori che hanno influenzato
l’efficacia della policy;
c) considerazione non solo dei soggetti il cui intervento sia previsto dai programmi
da mettere in opera, ma anche di altri attori (compresi i destinatari) che abbiano
svolto un ruolo significativo, quali che siano le previsioni formali circa la
distribuzione di competenze e poteri.
La corrispondenza tra burocrazia e attuazione va mitigata alla luce del fatto che le
burocrazie intervengono anche in altre fasi del processo di policy, in particolare
consigliando i decisori, contribuendo a formare l’agenda e valendosi dei margini di
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autonomia di cui godono per plasmare in maniera sostanziale le politiche nel corso
della loro attuazione, magari per aumentarne l’efficacia nel produrre beni pubblici.
Inoltre gli stessi destinatari non recepiscono passivamente le politiche ma
esercitano pressioni su decisori e attuatori affinché mutino le politiche in itinere.
Spesso più pubbliche amministrazioni sono responsabili dell’attuazione della stessa
policy, per cui la loro capacità di collaborazione influenza l’efficacia.
Si può pertanto pervenire a due generalizzazioni:
a) contrariamente all’attuazione come mera attività tecnico-esecutiva, essa risulta
avere una valenza politica. E’ in sede di attuazione che si determina in cosa
consista effettivamente una politica pubblica, quali siano i suoi reali scopi e
soprattutto le sue reali conseguenze in termini di allocazione di risorse. I
soggetti portatori di interessi e aspirazioni intervengono anche durante
l’attuazione ottenendo correzioni di rotta. Pertanto la reale distribuzione del
potere è verificabile soltanto considerando l’intero processo di policy, e non
solo la fase della sua formulazione da parte dei decisori.
b) La distinzione tra fasi di formulazione e di attuazione si riferisce a una sequenza
logica ma non cronologica, per via delle continue riformulazioni e
trasformazioni in fase attuativa decise anche in base ai risultati prodotti o ai
cambiamenti del contesto sociale in cui la politica pubblica si sviluppa.