ii
frattempo, aveva tessuto lentamente, nel buio dell’indifferenza, il suo
successo: il distretto industriale!
Tuttavia, tale fenomeno, non poteva essere adeguatamente analizzato con i
classici strumenti di osservazione economica. I successi di zone quali
Sassuolo per le ceramiche, Prato per il tessile, Canneto sull’Oglio per i
giocattoli, Castel Goffredo per le calze femminili, sono infatti spiegati solo in
parte dall’elevata specializzazione e flessibilità produttiva: per giustificare
quel “di più”, che fa svettare il loro nome in tutto il mondo, occorre
necessariamente gettare un occhio al loro contesto locale, e dunque estendere
l’analisi economica alla sfera sociologica. E’ in questo senso che si può
parlare di distretto industriale quale fenomeno socio-economico della realtà
italiana.
Tutto questo, ha rappresentato il contesto di partenza del seguente lavoro.
Lavoro che, si badi bene, non ha la presunzione di proporre il distretto
industriale quale unico modello di crescita economica da adottare,
consacrandolo come l’ideale strada da percorrere verso lo sviluppo e il
superamento della recessione; tutt’altro. Anche il sistema distrettuale presenta
svantaggi e debolezze, specialmente con riferimento alle difficoltà di
investimento in ricerca e sviluppo, le quali sembrano ancora oggi prerogativa
delle grandi imprese.
Quello che propongo, è un lavoro che, da una parte si preoccupa di spiegare le
condizioni e le circostanze che stanno alla base della nascita di un distretto, e
dall’altra cerca di comprendere come mai, nel contesto economico moderno di
crescita stagnante e saturazione dei mercati, il modello distrettuale non riesca
più a proporsi come soluzione ideale.
Dopo aver gettato, nel primo capitolo, qualche nozione base sul concetto di
distretto industriale e cercato di comprendere la ragione della loro importanza
quale risposta alternativa al modello fordista-taylorista, verranno analizzate,
nel successivo secondo capitolo, quelli che sono i caratteri peculiari del
modello distrettuale sia dal punto di vista economico che, soprattutto, da
quello sociologico, provando a ricostruire “virtualmente” un distretto
attraverso l’analisi individuale dei fattori che lo compongono e dei soggetti
iii
che in esso vi partecipano. Cercherò, così, di spiegare perché in alcune zone il
modello distrettuale è destinato a fallire, mentre in altre ha trovato una
“naturale” ragione d’essere.
Entrerò, poi, nel terzo capitolo, più specificatamente nel merito della
situazione italiana, ricostruendo dapprima l’iter legislativo nazionale che,
seppur ancora troppo limitato e “irriconoscente” nei confronti di quello che
rappresenta un vanto dell’economia italiana nel mondo, ha avuto il merito di
lasciare un’ampia autonomia d’azione alle Regioni e alle istituzioni locali, le
quali meglio di tutti possono capire e proteggere i bisogni e gli obiettivi del
loro territorio; e successivamente ricostruire i principali tentativi di mappatura
dei nostri distretti. Si ripercorrerà, quindi, il processo di genesi della Terza
Italia e la sua distribuzione in termini di specializzazioni produttive e
performance esportative, accennando alla situazione attuale.
Verranno poi, esaminati i contributi delle varie institutions, allo sviluppo
distrettuale nazionale, riflettendo una panoramica degli strumenti di
governance a loro disposizione e soffermandoci brevemente su alcune
esperienze regionali ed estere, per poi concludere con suggerimenti circa i
nuovi percorsi di digitalizzazione, innovazione e internazionalizzazione che i
nostri distretti dovrebbero seguire al fine di raggiungere un nuovo livello di
dimensione competitiva.
Infine, nel quinto capitolo, prenderò in considerazione, più specificatamente,
il caso del distretto tessile di Prato, applicando ad esso, gli stessi parametri di
analisi esaminati precedentemente, ricostruendone dunque il processo di
genesi storica, l’organizzazione socio-produttiva locale, i mutamenti sociali e
l’attuale contesto competitivo in cui si trova a dover operare, cercando di
comprendere su quali fattori tale distretto può ancora contare, e su quali
invece deve cercare assolutamente di puntare per ristabilire la sua leadership
competitiva.
1
CAPITOLO I:
DEFINIZIONI E CONTRIBUTI ALLA
CONCETTUALIZZAZIONE DEL DISTRETTO INDUSTRIALE
1.1 Definizioni di Distretto industriale
Il concetto di distretto industriale ha sempre presentato nel corso degli anni,
grosse difficoltà, se non veri e propri problemi, di interpretazione e analisi,
sia a livello empirico che di sola concettualizzazione.
Non esiste, infatti, tuttora una definizione universalmente riconosciuta che
sappia adeguatamente inquadrare il fenomeno secondo un’interpretazione
standard.
D’altra parte, ciò sembra, almeno per il sottoscritto, assolutamente logico,
trattandosi di un modello che rispecchia realtà specifiche ed esclusive, volto
alla flessibilità e all’identificazione di determinate aree-sistema, e che dunque
mal si versa ad un’univoca catalogazione.
Ma su questo, tornerò più avanti.
Quello, che ora, sembra opportuno, è stendere un primo spartito di definizioni
in grado di abituare le nostre orecchie al suono della nozione di distretto
industriale, in modo da familiarizzare con le sue peculiarità e darci un’idea
della potenziale vastità di una sua analisi.
Potremo cominciare la nostra carrellata, attraverso l’identificazione del
termine distretto con il suo analogo anglosassone di cluster, e intendendo con
esso un insieme di imprese e di istituzioni, geograficamente prossime ed
economicamente interconnesse.
Da tale definizione potremo poi dedurne che, al loro interno possono
svilupparsi economie esterne; cioè condizioni per le quali le imprese che ne
fanno parte divengono più competitive (a parità di altre condizioni) di imprese
identiche collocate al di fuori. Ma su questo discorso torneremo meglio più
avanti nel corso della trattazione.
2
Un’analoga interpretazione, tra l’altro, ci viene suggerita anche da uno dei più
autorevoli ricercatori in materia, e cioè da Gianfranco Viesti, il quale utilizza
la terminologia di distretto per indicare “tutti i casi in cui determinate
produzioni si concentrano in determinati luoghi, generando economie
esterne”
1
.
Ma un passo successivo, utile all’identificazione del fenomeno, viene fatto da
altri tre autori: Pyke, Sengenberger e Becattini (quest’ultimo considerato, a
ragione, uno dei massimi esponenti della causa distrettuale e autori di
numerosi trattati a riguardo), secondo i quali i distretti industriali
“sono sistemi produttivi geograficamente definiti, caratterizzati da un alto
numero di imprese impegnate in diversi stadi e in modi diversi nella
produzione di un prodotto omogeneo”
2
. Ecco, che si cominciano così a
delineare più chiaramente i contorni che ruotano attorno alla nostra
trattazione; in particolare, aggiungiamo al nostro “puzzle” un nuovo tassello
relativo all’elemento della specializzazione per fasi o prodotti dell’intero
processo produttivo.
Ma, addentrandosi nella letteratura economica, si possono riscontrare decine e
decine di osservazioni a riguardo; quel che però ci serve è qualche elemento
“identificativo”, capace di assegnare al distretto una sua impronta propria. Si
scopre così, che nel distretto industriale vi è una divisione del lavoro tra molti
operatori specializzati, in genere piccole o piccolissime imprese, che viene
mediata non da qualche grande azienda, ma dalla comune impronta culturale e
da un forte senso di appartenenza.
Potremo così intendere i distretti come: “entità socio-economiche-territoriali
caratterizzate dalla compresenza in una stessa località di un gran numero di
imprese specializzate (in una o poche fasi del processo economico-produttivo
di un’industria) e di una comunità di persone che ha interiorizzato un sistema
di valori e di regole di comportamento che favoriscono la concorrenza e la
1
Cfr: Come nascono i distretti industriali; G.Viesti, Laterza 2000.
2
Cfr: Distretti industriali e cooperazione tra imprese in Italia: F.Pyke,G.Becattini,W.Sengenberger, Banca Toscana
1991
3
cooperazione fra le imprese locali”
3
. Anche in questo caso, tale contributo ci
viene fornito da Becattini, il quale “svela” così, la natura non solo economica,
ma anche (e soprattutto) “sociologica” del modello distrettuale.
Dunque, distretto industriale come sistema “locale”.
Il sistema locale è, infatti, un territorio che ha elementi propri di stabilità
economica e sociale, derivanti da un alto grado di interazione fra le sue
componenti, quali le località residenziali e produttive. Dunque, il distretto
industriale è un sistema locale che ha una forma particolare, identificata dalla
compresenza attiva di una comunità di persone e di una popolazione di piccole
imprese caratterizzate dall’appartenenza a un particolare sistema di
produzione locale principale.
Molto meno chiara, appare invece la definizione che ne dà l’ISTAT, secondo
la quale sono considerati distretti “quei sistemi locali (del lavoro) che
soddisfano una serie di condizioni riguardo alla specializzazione produttiva e
alla rilevanza delle piccole e medie imprese”
4
. Spiegazione che non spiega
niente!
Tuttavia, tale generalizzazione ci suggerisce di indagare il fenomeno dei
distretti industriali partendo dal concetto di “sistema locale del lavoro” (SLL)
appena enunciato. Con esso intendiamo unità territoriali definite dagli
spostamenti giornalieri per motivi di lavoro effettuati dalla popolazione
residente in una tipica giornata lavorativa.
Perché una porzione di territorio possa definirsi un sistema locale del lavoro,
è necessario che la maggior parte della popolazione che vi abita abbia in essa
la propria sede di lavoro e che gli imprenditori che vi operano reclutino la
maggior parte dei lavoratori fra la popolazione residente.
Si genera in questo modo un tessuto localizzato di relazioni socio-economiche
fra i diversi membri e strati della società locale tale da favorire la formazione,
la diffusione e il mantenimento di un sistema di valori, di conoscenze
3
Cfr: Il Distretto industriale: un nuovo modo di interpretare il cambiamento economico: G.Becattini,
Rosenberg&Sellier 2000.
4
Cfr: ISTAT-IRPET: I mercati locali del lavoro; Franco Angeli 1989
4
produttive, di comportamenti tipici e di istituzioni attraverso i quali la società
locale interagisce con l’organizzazione produttiva.
Quelli focalizzati su un’industria principale, costituita per la maggior parte da
unità produttive di piccola e media dimensione, la cui numerosità approssima
la presenza di una divisione del lavoro fra unità specializzate della stessa
industria, vengono riconosciuti come “distretti industriali”.
Negli studi che hanno per oggetto i distretti industriali, questi appaiono come
centri duraturi e importanti di una o poche attività industriali, caratterizzati,
primo, da una miriade sempre rinnovantesi di piccole imprese che risultano
spesso molto specializzate fra di loro; e, secondo, da una rilevante
integrazione fra fenomeni produttivi e fenomeni socio-culturali, che passa per
una rete di famiglie e di altre istituzioni insediate nei centri stessi.
Concludendo: di definizioni, interpretazioni e tentativi, più o meno
interessanti, volti alla creazione di un’immagine più nitida della realtà
distrettuale, se ne possono trovare in gran quantità nella letteratura economica
(e non solo!). Tuttavia, occorre riconoscere, almeno secondo il mio punto di
vista, che quello che ci apprestiamo ad analizzare nelle prossime pagine, è un
fenomeno che per sua stessa definizione risulta essere un aggregato di
comportamenti, relazioni, strategie che danno vita a modelli produttivi e
organizzativi sempre diversi, che in qualche modo si armonizzano alla realtà
fisica in cui essi si sviluppano e le cui ragioni di successo, ma anche di
insuccesso (infatti, non è detto che ogni modello distrettuale abbia le carte in
regola per competere sul mercato) dipendono da un fitto tessuto storico-
culturale che è l’identità propria di una determinata area-sistema.
5
1.2 Marshall: punto di partenza dell’analisi distrettuale
Credo, non ci si possa incamminare nel sentiero di analisi distrettuale senza
prima “far visita”all’autore che per primo ne ha osservato le effettive fattezze,
e che l’abbia portato all’attenzione del pubblico economico.
Andremo dunque a rivisitare (anche con l’aiuto di Becattini, il quale per primo
ne rispolverò l’idea a distanza di decenni) il distretto industriale marshalliano.
Mi limiterò in un primo momento a riportare, qui di seguito il pensiero
dell’autore attraverso le sue stesse parole, e riflettervi sopra nel paragrafo
seguente.
“ I grandi stabilimenti, sono avvantaggiati rispetto a quelli piccoli poiché
sono in grado di impiegare in ogni particolare lavorazione una macchina
specializzata, che è, forse, più efficiente e, in termini relativi, certamente
meno costosa di quelle macchine polivalenti così diffuse nelle piccole officine.
La grande impresa può suddividere il lavoro tra molti dipendenti, ed
assegnando a ciascuno una particolare mansione, favorisce attraverso la
pratica continua, la loro specializzazione, tanto che essi saranno in grado di
svolgere il proprio lavoro meglio e molto più velocemente anche di un
artigiano dotato di maggiori capacità.
L’obiettivo del piccolo produttore è di restringere la propria produzione ad
un gruppo di merci così limitato da rendere possibile una specializzazione dei
dipendenti ed un uso dei macchinari simili a quelli ottenibili negli
stabilimenti più grandi.
Egli si può occupare della vendita dei suoi prodotti standardizzati senza
incorrere in spese eccessive per la pubblicità o per stabilire relazioni
commerciali con singole imprese e seguire con maggior attenzione le
particolari esigenze locali e i gusti dei vari clienti.
In ogni paese industrializzato vi è un mercato sufficientemente ampio per
quelle specialità che possono essere prodotte, con un certo tornaconto, da un
uomo dotato di mezzi modesti; quest’uomo spesso può impiegare nel modo
migliore le proprie doti energiche ed attive concentrando tutte le sue forze
nella produzione di una sola cosa.
6
Egli finirà col dotarsi degli impianti e dei metodi più adatti alla sua specifica
attività e si circonderà degli uomini più indicati allo scopo.
Questi dovranno dimostrare di essere abili e di possedere tutte le qualità
necessarie. Egli non sosterrà spese per capacità professionali. Di cui non ha
bisogno e non permetterà ad operai qualificati di perdere tempo in mansioni
per le quali è sufficiente un lavoro meno retribuito.
Quando i suoi impianti saranno attrezzati così bene e disposti in un modo tale
che non vi siano motivi di pensare ad ulteriori miglioramenti, egli
probabilmente sarà in grado di rivolgere a settori più vasti le nuove energie
così acquisite. In questo modo egli si unirà al gruppo dei grossi produttori e
aprirà, probabilmente senza saperlo, nuove strade attraverso le quali altri
uomini dotati di mezzi modesti potranno farsi avanti.
Così si spiega come il piccolo imprenditore riesca a sopravvivere. Lo salva il
fatto che per quanto i macchinari siano impiegati nella maggior parte delle
fasi che costituivano il processo di produzione, il resto è eseguito nel modo
tradizionale.
In ogni dato momento ed in ogni data condizione della tecnica produttiva, è
presumibile che vi sia un punto oltre il quale ogni ulteriore aumento nelle
dimensioni procura solo un piccolo incremento nel rendimento e
nell’efficienza.
Le piccole imprese sono i migliori maestri della versatilità e dell’iniziativa,
che sono le fonti più importanti del progresso industriale.
I distretti industriali sono concentrati in una o in più grandi città. All’inizio
ciascuna di queste città è stata all’avanguardia nella tecnica tanto
dell’industria quanto nel commercio, e la maggior parte dei suoi abitanti
erano artigiani. Dopo un certo tempo le fabbriche, richiedendo più spazio di
quello che poteva essere facilmente ottenuto solo dove il valore dei terreni
era alto, si spostarono verso i sobborghi della città, e nuove fabbriche
crebbero.
Un centro affermato e specializzato in una particolare attività se non è
dominato da associazioni di categorie o da sindacati che perseguono politiche
restrittive, è generalmente in condizione di applicare vantaggiosamente tutte
7
le innovazioni che interessano la sua attività; e se il cambiamento si svolge
gradualmente, non si presenta nessuna occasione particolarmente attraente al
sorgere della stessa attività in un altro luogo. Occorre ricordare che un uomo
si può facilmente trasferire da una macchina ad un’altra, ma che la
lavorazione manuale di una materia prima spesso richiede una accurata
abilità, che non può essere facilmente acquisita in età avanzata, dato che
costituisce una caratteristica di una particolare “atmosfera” industriale.
La maggiore economia nella produzione si ottiene suddividendo la domanda
dei vari tipi di prodotti dello stesso genere in modo che ogni impresa possa
adattare i propri impianti ad una ristretta serie di operazioni e possa
utilizzarli quasi senza interruzioni”
5
.
1.2.1 Il distretto industriale marshalliano come concetto socio-economico
Da quanto appena letto, si può brevemente trarre che alcuni vantaggi della
divisione organizzativa del lavoro, sembra che si possano ottenere solo nelle
fabbriche di maggiori dimensioni; eppure molti di essi possono essere
conseguiti anche da piccole fabbriche e laboratori, purchè ve ne sia un numero
molto elevato nella stessa attività.
Occorre notare che la fabbricazione di un prodotto, spesso si compone di
diversi stadi distinti, a ciascuno dei quali è riservato uno spazio separato nella
fabbrica; se però il volume complessivo della produzione è molto grande può
essere conveniente destinare piccole unità produttive separate a ciascuna fase.
Ma le piccole fabbriche, qualunque sia il loro numero, si troveranno in forte
svantaggio rispetto alle grandi, a meno che non ve ne siano molte addensate in
uno stesso distretto.
Laddove larghe masse di persone si dedicano ad uno stesso genere di attività,
danno vita ad un intenso feedback di interrelazioni, dove ognuno impara
dall’altro e viceversa.
In questo modo, la specializzazione diviene un bene che si trasmette
“nell’aria”, e che, gioco-forza, permette a chiunque di imparare facendo
5
Cfr: Marshall: antologia di scritti economici, a cura di G.Becattini, Il Mulino, Bologna 1981
8
(learning by doing) e di specializzarsi solo in più fasi, permettendo così un
rapido turnover qualora si crei un vuoto in una specifica mansione.
Per Alfred Marshall, il “distretto industriale” è definito come una realtà socio-
economico-territoriale, per indicare che “non si tratta semplicemente di una
forma organizzativa del processo produttivo, ma di un ambiente sociale dove
le relazioni fra gli uomini presentano un loro particolare timbro e carattere”
6
.
Il distretto industriale si pone così, come un’unità di analisi intermedia fra il
sistema industriale e l’impresa.
In altre parole, in un’analisi distrettuale, convergono molti fattori, dei quali
non tutti hanno natura economica. Occorre infatti cercare anche radici
sociologiche, che derivano prima di tutto dai soggetti coinvolti nel processo
produttivo.
Ma, attenzione! Quando ci si riferisce ai soggetti coinvolti nel processo, non
si deve solo pensare i classici imprenditori e lavoratori subordinati. Essi sono
senz’altro una parte importante, ma se riflettiamo sulle varie definizioni
fornite in precedenza, ci accorgiamo che i distretti sono un fenomeno “locale”,
e in un dato contesto locale, vivono e interagiscono centinaia se non migliaia
di soggetti che “circondano” il nocciolo meramente produttivo, o centro di
produzione industriale.
Si nota così, che il successo di un determinato distretto, non si sarebbe potuto
avere se, le autorità governative locali non lo abbiano “equipaggiato”
adeguatamente con tutte le strutture ausiliarie alla produzione; oppure se il
tessuto familiare presente nell’area-sistema non avesse garantito quel certo
tipo di organizzazione che facilità la flessibilità lavorativa del proprio
membro coinvolto nel processo.
Sembra, quindi, doveroso, quando si parla di modello distrettuale, gettare
sempre un occhio sul panorama locale, analizzando il suo successo non
esclusivamente in termini di divisione del lavoro, economie interne o sviluppo
tecnologico, ma soprattutto in termini di “vantaggi di sistema”, quegli stessi
vantaggi che permettono anche alle piccole imprese (che siano però
concentrate) di usufruire di determinati fattori di sviluppo, che, fino a poco
6
Cfr: Mercato e forze locali: il distretto industriale; G.Becattini, Il Mulino 1987.
9
prima dell’analisi di Marshall, sembravano esclusiva prerogativa delle grandi
imprese.
Concludendo, l’analisi del contributo marshalliano può riassumersi in una
prima approssimazione delle caratteristiche-base, osservate nei distretti del
Lancashire e di Sheffield ma che di fatto devono essere attribuite alle altre
aree produttive affinché possano definirsi distretti industriali.
Tali principali caratteristiche sono:
1) modesta dimensione unitaria delle imprese che lo compongono: ognuna di
esse svolge una o poche fasi del processo produttivo; ogni unità produttiva
presenta dunque un elevato grado di specializzazione;
2) la grande numerosità delle imprese. Le grandi dimensioni “complessive”
fanno sì che il distretto benefici, sotto forma di economie esterne, dei vantaggi
della specializzazione e della produzione su larga scala; le economie di scala
sono infatti operanti a livello di sistema;
3) il raggruppamento delle imprese in uno stesso ambito geografico; il
distretto gode di economie di agglomerazione, vale a dire economie sui costi
di produzione e di transazione dovute all’inserimento delle unità produttive
“nell’ispessimento localizzato”
7
delle interdipendenze.
Tali caratteristiche, saranno analizzate approfonditamente più avanti
attraverso l’ausilio di diversi contributi.
1.2.2 L’”atmosfera industriale” nel modello di Marshall
Nella letteratura economica, ed in particolare nel contributo di Alfred
Marshall, si fanno convergere le specificità e peculiarità del distretto nella
formula “atmosfera industriale”, intendendo con essa la sintesi sia di elementi
tali da portare ad una elevata capacità produttiva (reti fiduciarie, reciproco
adattamento delle competenze nei processi di aggiustamento, risorse
produttive riorganizzabili), sia la capacità di riuscire a riprodurre queste
competenze attraverso un giusto rapporto fra divisione del lavoro,
apprendimento localizzato e capacità di adattamento ai bisogni e ai mercati.
7
Cfr: Mercato e forze locali: il distretto industriale; G.Becattini, Il Mulino 1987
10
Tale atmosfera è il prodotto di una storia, di una coerenza fra attività
economiche, istituzioni e patrimonio di valori che ha come esito la capacità di
riprodurre la stessa organicità sociale.
Le fortune dei distretti industriali possono essere dunque da ricondurre anche
alla creatività e al tempismo con cui essi sanno rispondere all’evoluzione dei
bisogni e a una domanda variegata.
Questo, non sarebbe possibile se non esistesse una rete di collegamenti fra le
diverse imprese distrettuali, fissata in termini di fitti rapporti intrecciati fra
imprenditori finali (ad esempio, gli impannatori pratesi) e produttori intermedi
specializzati.
Marshall, si lamentava spesso della limitata analisi economica classica, la
quale correlava troppo facilmente i vantaggi delle economie di scala, al
modello organizzativo della grande impresa.
Sappiamo, infatti, come Marshall pensasse, almeno per certi settori
manifatturieri, come i tanto osannati vantaggi di scala, potessero
tranquillamente essere realizzati anche da piccoli produttori raggruppati in
uno stesso distretto. Infatti, molte produzioni possono essere suddivise in
parecchie fasi, e per ciascuna di esse si possono ottenere massime economie,
se vengono fatte convergere in un unico stabilimento, specializzato solo per
essa.
Facile intuire, che se esistesse una moltitudine di questi piccoli stabilimenti
specializzati per l’esecuzione di una particolare fase del processo produttivo,
si otterrebbero, nel corso dell’intero processo produttivo, tante piccole
preziose riduzioni di costo, che permetterebbero al prodotto finale di
competere con quelli prodotti nelle grandi imprese.
Ma fin qui, niente di nuovo. A questa prima categoria di vantaggi
dell’industria localizzata se ne aggiungono altri concernenti l’addestramento
di manodopera specializzata e quelli concernenti la più rapida circolazione
delle idee.
“Quando il numero di uomini interessati ad una attività è molto grande, si
troveranno fra loro molti che, per intelligenza e carattere, sono idonei a
concepire idee nuove. Ciascuna di queste sarà analizzata e migliorata da
11
numerosi cervelli e ogni nuovo esperimento, accidentale o deliberato, fornirà
materia di riflessione e spunto per nuovi suggerimenti non a poche ma a molte
persone”
8
.
Ciò che qui interessa sottolineare è che l’unità cui Marshall fa riferimento fin
d’allora non è l’industria fisicamente definita, ma l’area o distretto
industriale. E’ a questo che si riferiscono le condizioni di densità di
popolazione, di dotazione infrastrutturale, di “industrial atmosphere”, che
sono, la causa e l’effetto, di quella parte dei rendimenti crescenti che non si
spiega né con le economie interne di scala, né con le vere e proprie
innovazioni.
E’ questa atmosfera che ci permette ci intuire le origini di quel “di più” di
produttività del lavoro che fa svettare determinate zone locali dislocate nelle
più diverse regioni d’Italia, in misura maggiore, e in Europa e nel mondo, in
tono minore.
Se si riflette bene, ciò che tiene insieme le imprese che fanno parte del
distretto marshalliano, è una rete complessa ed inestricabile di economie e
diseconomie esterne, di congiunzioni e connessioni di costo, di retaggi
storico-culturali, che ravvolge sia le relazioni interaziendali che quelle più
squisitamente interpersonali.
8
Cfr: Marshall: antologia di scritti; a cura di G.Becattini, Il Mulino, Bologna 1981
12
1.3 Crisi del fordismo: il contributo di quattro autori
L’importanza dei distretti industriali per lo sviluppo locale e regionale è stata
ampiamente discussa da Michael Piore e Sabel e da Allen Scott e Michael
Storper.
Piore e Sabel
9
fondano il loro lavoro sull’idea di una transazione radicale da
un modello di sviluppo industriale basato sulla produzione di massa, ad una
possibile, prossima epoca di specializzazione flessibile, basato su tecnologie
flessibili e su un’organizzazione del lavoro basato su dipendenti specializzati.
Per i due autori, tale regime di specializzazione flessibile è da ricondurre ad
una parallela crisi della produzione di massa, tipica del modello fordista-
taylorista: i mutamenti nella struttura sociale, dovuti ai miglioramenti
qualitativi della vita, e soprattutto delle retribuzioni, ha portato i consumatori
a ridefinire le loro gerarchie dei consumi, e soprattutto a diversificare i
bisogni i quali si fanno via via sempre più “qualificati”. La saturazione dei
mercati e quindi l’eccessiva omogeneità dell’offerta, ha fatto si che il sistema
produttivo di massa, sia diventato obsoleto e incapace di far fronte alla
differenziazione della domanda.
E’ chiaro, infatti che nel nuovo ambiente instabile ed incerto, sia diventato
fondamentale per le organizzazioni, attrezzarsi affinché diventino capaci di
rispondere in modo rapido e “flessibile” ai mutamenti delle condizioni di
mercato. Le aziende flessibili specializzate sono flessibili rispetto ai
produttori di massa, e perciò più competitive in ambienti instabili. Tutto
questo ha implicazioni territoriali particolari. La relazione fra l’economia e il
suo territorio sta cambiando: più incerti diventano i mercati, più le imprese
sperimentano forme flessibili di organizzazione tali da permettere rapidi
mutamenti di prodotto.
La flessibilità, diventa frutto della specializzazione, la quale richiede una
nuova articolazione della divisione del lavoro sia all’interno che nei rapporti
fra imprese.
9
Cfr: Le due vie dello sviluppo industriale; M.J.Piore, C.F. Sabel, Petrini, Torino 1987