4
pubblica si invertiva nella distrazione privata”
1
; la tv facilita l’approccio
individuale e familiare alla comunicazione e così pure al mito.
L’ampliamento e l’enorme diffusione di tale mezzo di comunicazione di
massa hanno permesso un indiscutibile passo avanti nel percorso verso
l’informazione da parte dell’intera umanità; attualmente si stimano oltre due
miliardi di apparecchi televisivi diffusi nelle abitazioni e nei locali di tutto il
mondo. “Grazie alla nuova disponibilità di tali mezzi di comunicazione sono
aumentate in maniera considerevole le possibilità di circolazione per beni e
messaggi, che non devono più necessariamente rimanere legati ad un
particolare luogo sociale o culturale”
2
.
Quella che si è aperta negli ultimi decenni, ma i cui prodromi vanno
ricercati nei lavori di studiosi che operavano già a cavallo delle due guerre
mondiali, è pertanto l’era di una ‘terza dimensione’, ovverosia l’interattività:
ciò che prima si poteva solo ascoltare ed in un secondo momento anche
vedere, ora si ha l’opportunità di ‘toccare’ con mano. E’ un tatto
prettamente virtuale, aggettivo questo che ricalca un ruolo di primaria
importanza nel contemporaneo gergo tecnologico, nonchè l’acquisita
relazionabilità (si parla sempre di relazioni in tempo reale) fra utenti del
medesimo mezzo di comunicazione: si pensi a tal proposito alle chat o ai
forum ormai popolarissimi nella rete mondiale, internet.
E’ tuttavia ancora troppo presto per potere individuare con certezza
fino a quale punto potrà spingersi tale indirizzo dell’evoluzione tecnica; di
certo invece possiamo constatare gli sbalorditivi progressi avvenuti con
l’introduzione e la diffusione dell’immagine televisiva nelle nostre case. Ed
è naturale accostare immediatamente al suo ruolo di informatrice,
proseguendo sulla scia del mitologico Mercurio, quello di intrattenitrice: lo
spettacolo si evolve e trova nuove forme e soluzioni sotto l’egida del mezzo
televisivo. Non che questo fatto comporti obbligatoriamente un’evolversi in
meglio, ma quantomeno si tratta di un beneaugurante, vitale innesto di
creatività e di proposte nuove sulla già rigogliosa pianta dai molti e svariati
rami che è il mondo dello spettacolo.
1
Abruzzese A., Lo splendore della TV, Costa & Nolan, Milano, 1995, p. 46.
2
Codeluppi V., Consumo e comunicazione, Angeli, Milano, 1990, p. 39.
5
Inevitabile che quest’ultimo subisca proprio ad opera dell’avvento
della tv i cambiamenti più forti e repentini mai vissuti storicamente; gli
ultimi decenni sono stati caratterizzati da innumerevoli fenomeni
tipicamente televisivi di larga presa sulla massa, che si possono racchiudere
in ordine cronologico dal telequiz (l’opportunità per il telespettatore di
divenire estemporaneo protagonista del programma) all’odierna ampia
casistica dei reality show, dove ognuno può tentare di entrare ed inserirsi
stabilmente nell’intero sistema dello spettacolo. Indiscutibile lo spirito naïf
in questa situazione, purtroppo oggi oramai completamente rimpiazzato da
un altro spirito così deprecabile quale quello di protagonismo.
Lo show business, industria dello spettacolo, è chiaramente
preesistente alla tv, ma proprio con essa trova nuovi spazi inesplorati sui
quali estendere i propri tentacoli, sperimentare innovative formule e forgiare
mezzi alternativi per conquistare folle sempre più vaste. In tale contesto
risulta inoltre determinante il fattore economico, che vedeva la fiduciosa
ripresa postbellica garantire favorevoli sviluppi non solo nelle tasche, ma
anche nelle menti della gente. L’atmosfera di ricostruzione e di pacifica
riapertura al dialogo e all’interrelazione, permetteva un effettivo
rilassamento e un simbolico rimboccarsi le maniche che avrebbe generato
un periodo sostanzialmente positivo sotto molti aspetti per i popoli usciti,
vincitori o vinti comunque non indenni, dal secondo conflitto mondiale.
6
1.1. (Ri)costruzione
Stiamo parlando degli anni ’50, e con essi della nascita o rinascita
degli speranzosi segnali di ripresa che inequivocabilmente gettarono le basi
per i decenni a venire, gli stessi anni ’50 a cavallo dei quali nasce un
termine fondamentale nella nostra ricerca: teenager. Sebbene oggi sia di uso
frequente anche nella lingua italiana, non per questo l’etimologia della
parola è comunemente nota; si tratta di una indicazione ben precisa sull’età
(age, in inglese), ovvero quella di coloro i cui anni sono pari a un numero
che contiene il suffisso –teen: 13 (thirteen), 14 (fourteen), 15 (fifteen), 16
(sixteen), 17 (seventeen), 18 (eighteen), 19 (nineteen). Insomma, la fascia
presa in considerazione si delimita fra quella immediatamente
preadolescenziale e quella adolescenziale, la qual cosa appare sorprendente
se si pensa che fino ad allora tale fascia non solo non aveva avuto
particolare risalto nell’opinione pubblica, ma soprattutto non disponeva di
libertà quali quelle che le vennero concesse nel periodo che ora trattiamo.
Una di queste libertà su tutte, il neonato potere d’acquisto: per la prima
volta nel corso della storia i ‘ragazzini’ hanno a disposizione somme di
denaro abbastanza cospicue per potersi permettere spese straordinarie come
quelle destinate allo svago, alla pura ricreazione.
Questo è il momento economico in cui nasce il rock and roll, evento
musicale paragonabile in campo storico ad una vera e propria rivoluzione.
Facile capire il perché tale moda (accanto ai dischi c’era tutto il debito
sistema iconografico dei modelli di tale ‘rivoluzione’) attecchisca
immediatamente e in maniera tanto sconvolgente, rapida e penetrante: oltre
a rivolgersi ad un pubblico ben disposto a spendere il proprio denaro in
divertimento, e dotato di un entusiasmo e di una carica vitale largamente
superiori a quelli delle generazioni precedenti, il rock and roll si muoveva
contemporaneamente su binari decisamente validi, funzionali; vale a dire il
disco, il 45 giri piuttosto che il 33 (il cosiddetto LP, Long Playing), ormai
consolidato come mezzo di comunicazione dai tanti anni di onorata carriera,
al pari della trasmissione radiofonica, e la nuova arrivata televisione che,
come già accennato, è apparsa realmente sconvolgente fin da subito, e tanto
7
fascino ha esercitato particolarmente sulle generazioni più giovani che con
essa sono cresciute.
La nascita del rock and roll viene generalmente fissata all’aprile del
1954, con l’uscita di Rock around the clock di Bill Haley; in realtà
occorsero mesi prima che il fenomeno si diffondesse, ma l’effetto ‘a
macchia d’olio’ consentì entro un paio di anni la definitiva consacrazione
del genere: siamo allora nel 1956, anno in cui raggiunge le vette delle
classifiche statunitensi e britanniche Heartbreak Hotel di un certo Elvis
Presley, cantante americano destinato al successo planetario non soltanto
per l’aspetto musicale, ma soprattutto per quanto riguarda l’accattivante
mimica e la fisicità antesignana di qualunque Jagger o Bowie.
Contemporaneamente alla leggiadra scalata di Elvis ‘the pelvis’ (nomignolo
che la dice lunga su quanto appena detto) si verificano analoghi, trionfali
ingressi nelle charts e nei sogni di milioni di adolescenti da parte di artisti
del calibro di Jerry Lee Lewis (Great balls of fire), Little Richard (Lucile,
Tutti Frutti), Buddy Holly (That’ll be the day) o Chuck Berry (Johnny B.
Goode, Sweet little sixteen), per dirne solo alcuni fra i principali. Va
evidenziato che l’origine della musica rock and roll ha radici ben profonde
nella cultura nera americana dei primi del novecento, prendendo spunti
preziosi innanzitutto dal blues, e infatti si può constatare la evidente
preminenza di cantanti di colore in questa prima fase. “Prima di Elvis c’era
il nulla. E’ stato lui a spingermi a comprare dischi”. Parola di John Lennon.
Anche il cinema ha un ruolo fondamentale: la seminale Rock around the
clock, contenuta nella colonna sonora del film Blackboard jungle
(primavera 1955), scatenerà un vero pandemonio, sia per il contenuto del
film stesso, una sorta di manifesto sulla violenza e delinquenza giovanile,
che per l’epifanica comparsa di un brano di simile impatto: non saranno
pochi i cinema americani letteralmente devastati dalla risposta fisica al
messaggio acquisito da parte dei giovani spettatori presenti nelle sale.
E’ in questo periodo che nascono le bande giovanili, e con esse il
correlato fenomeno del teppismo adolescenziale, traendo linfa da un
apposito sistema di merci e valori i quali comprendono fra gli elementi più
rappresentativi il ciuffo ribelle modellato con la brillantina dal rocker e, sul
finire degli anni cinquanta, l’eleganza originale ma sempre sobria dei mods.
8
Proprio questi due gruppi, come ripercorrendo idealmente le orgogliose
faide di guelfi e ghibellini o di Montecchi e Capuleti, si combattono
aspramente basandosi più su criteri ideologici che di effettiva differenza
materiale. Quasi ogni edizione domenicale dei quotidiani inglesi del periodo
riportava incresciosi incidenti causati dalle lotte fra le due opposte fazioni.
A chiosare l’atteggiamento accomodante che ebbero i Beatles su questioni
tanto socialmente pressanti quanto la disputa fra rockers e mods, si ricordi la
battuta del film A hard day’s night (1964) con cui Ringo Starr risponde ad
un intervistatore che si preoccupava dell’eventuale appartenenza dei quattro
a una delle due parti: ‘We are.. mockers’. Esitando un solo istante, Ringo
precisa con ineffabile sarcasmo non solo di tenere i piedi su entrambe le
rive, confondendo i due termini nel bisticcio da lui evocato, ma anche di
sentirsi dei veri e propri ‘burloni’ (mockers, appunto). Del resto i Beatles si
inseriscono perfettamente in questo contesto, essendo nati tutti e quattro fra
il 1940 ed il 1943 ed avendo vissuto sulla propria pelle il momento storico
della ricostruzione postbellica, e sperimentando in prima persona le tanto
agognate distrazioni sopraggiunte sotto le sembianze del rock and roll,
proveniente dall’altra parte dell’oceano.
Il motivo di tale origine geografica ha spiegazioni immanenti alla
situazione storica: gli Stati Uniti escono vincitori dal secondo conflitto
mondiale, e con danni decisamente inferiori rispetto a quelli riportati dalle
potenze europee. Pertanto possono permettersi di esercitare un ruolo
dominante nei rapporti internazionali, contando comunque su una
indipendenza ormai consolidata dalle tradizioni degli ultimi due secoli e
mezzo. Ciò comporta non solo l’imporsi di modelli americani sull’Europa
(oltre alla musica di Elvis Presley, il cinema di Marylin Monroe o la
letteratura con la creazione di Holden Caulfield da parte di Salinger); ma
anche l’esclusività protezionista autoimpostasi dagli Stati Uniti per quanto
riguarda la produzione artistica, in modo assoluto poi nel settore musicale.
E’ in effetti inequivocabilmente necessario il successo americano nella
splendida parabola dei fab four; rappresenta la consacrazione definitiva e
l’entrata nel mito, con la vera e propria creazione di un’isteria di massa
totalmente nuova al pubblico americano.
9
Stampa, televisione, radio, ogni mezzo di comunicazione venne
improvvisamente intasato da un flusso intermittente di parole e note che
provenivano da al di là dell’oceano Atlantico.
1.2. Pop
In Inghilterra già si discuteva della beatlemania da mesi, per la
precisione dal 4 novembre del 1963, quando il quotidiano Daily Mirror
propose il neologismo nel titolo di un imponente articolo a 9 colonne; negli
Stati Uniti il fenomeno arrivò dilagando prepotentemente nei primi mesi del
1964, quando tutto era ormai pronto per essere sconvolto. Ma un altro
vocabolo in questo periodo venne a radicarsi definitivamente nella cultura a
livello mondiale: si tratta del termine ‘pop’, abbreviazione di tutto quanto si
ritiene essere ‘popular’, cioè popolare
3
.
E’ un universo mediatico, quello del pop, una cultura (pop culture)
particolarmente influenzata dall’immagine e fondata sul messaggio, dai
media creata e diffusa, è un suono, una figura, una cultura intrinsecamente
legata all’arte. Pertanto, spesso a ‘pop’ segue ‘art’ (ma ricordiamo che la
‘pop art’ come tale ha origini statunitensi), e pop è l’emblema di quanto
accada negli anni sessanta inglesi: la musica, la pittura, la fotografia, il
cinema, la letteratura, la sostanza popolare assume ogni tipo di forma; oggi
è uso comune identificare ciò che è pop con tutto ciò che va incontro ai gusti
della massa, incarnando oramai più uno stereotipo che una vera forma
d’arte. Non è arbitrario suggerire che siano i Beatles ad incarnare l’idealtipo
del musicista pop, coloro i quali per primi, e meglio di quanto sia stato fatto
anche nel quarantennio a seguire, hanno saputo prendere le parti della
massa, confondersi con essa e da essa venire portati in trionfo idealmente,
dalla working class (classe operaia) al titolo di baronetti.
La BBC già nel 1963 offre il suo importante contributo alla
diffusione del termine, mandando in onda la rubrica musicale Top of the
pops, seguitissimo successo televisivo. In particolare pop è un concetto
3
Cfr. Colaiacomo P. e Caratozzolo V., La Londra dei Beatles, Editori riuniti, Roma, 1996,
p. 16.
10
strettamente relato a quello di gioventù, o per lo meno di giovanile; pop è il
punto d’intersezione fra le svariate prospettive di svago verso cui sono
inclini le giovani età. Nel contesto si inseriscono inoltre a perfezione una
rinnovata voglia di aggregarsi pacificamente e di ritrovarsi con intenti
propositivi e costruttivi, che sostituisce gradualmente lo spirito nichilista e
aggressivo tipico della diatriba di mods contro rockers di cui sopra; in tali
condizioni sociologiche è legittimo il sorgere di movimenti pacifisti come
quelli degli hippies e della summer of love del 1967. Il contributo della
musica, ed in particolare di quella dei Beatles, in tale momento è innegabile;
furono un’ondata di sano ottimismo proveniente dagli strati sociali bassi e
diretta pertanto alla massa anzichenò, furono una ventata di quello spirito
aggregativo amichevole e disimpegnato che non soltanto la Gran Bretagna
stava attendendo. Questa impostazione ingenua ed affabile, questo mix
inedito di cortesia e sovversione che poteva lasciare il pubblico con un
atteggiamento variabile fra il perplesso e l’entusiasta, ma che difficilmente
avrebbe potuto negare il fascino dei quattro ragazzi di Liverpool, o
addirittura ignorarlo; ebbene, tutte queste caratteristiche vennero a sostenere
l’ascesa dei Beatles verso il mito pop(olare).
Il processo in atto accosta al pop un altro mito verbale, quello del
classless: una dimensione sociale dove ognuno è ugualmente libero di
usufruire e godere della cultura, del divertimento, dell’arte; non ci si sta
limitando all’ambito della working class, così cara in seguito verso la
seconda metà dei sessanta, quando la canzone di protesta troverà negli strati
sociali più bassi il proprio punto di riferimento
4
. Ci si riferisce ad esempio al
Dylan di Freewhelin’, pioniere nel 1963, o alla Saigon bride che Joan Baez
canta nel 1967, o, perché no?, al tardo beatle John che inneggia alla
fratellanza universale nel mantra Give peace a chance, singolo del 1969. Lo
stesso John Lennon che solo 17 mesi dopo pubblicherà nel suo primo album
solista Plastic Ono Band un brano esplicitamente intitolato Working class
hero, dove si scaglia contro le principali istituzioni, incappando
inevitabilmente nella censura inglese.
4
Ibidem, pp. 16-26.
11
2. Comunicazione di massa
Che cosa è effettivamente pop(olare)? Occorre a questo punto
definire più concretamente cosa si intenda quando si parla di massa, questa
incognita sociale che sottende l’intero concetto di popolarità, essendone
propriamente la madrina. Facendo fede al dizionario Zingarelli della lingua
italiana, la massa è un insieme sociale di persone accomunate da
caratteristiche psicologiche e comportamentali
5
. Andando più nello
specifico, e riferendosi a testi come quello di Bernardo Valli (1999), si
rileva per la ‘massa’ un ruolo di soggetto/oggetto solitamente connotato
negativamente, a seconda dei casi capace di attività o soltanto di passività
6
.
Ad esempio: Comte - padre della sociologia - la vede come un
insieme di individui accomunati da null’altro che la presenza spazio-
temporale; Marx la definisce invece collegandola all’alienazione e allo
sviluppo delle differenze di classe (concetto di massificazione);
ciononostante si tenga ben presente che la massa proletaria ha per lui uno
specifico ruolo positivo, e in seguito (Le Bon, Ortega) si concettualizzerà
l’impersonalità del collettivo come una garanzia di impunità per
un’istintività irrazionale e belluina, protetta in questo senso dall’anonimato,
da cui il caso limite e plateale della rivoluzione. E’ per Freud questo un
fenomeno che consente l’ideale fuoriuscita dell’ego individualista per
lasciare spazio all’accettazione dell’altro, ad una disponibilità amichevole
all’altruismo. McQuail parlando della massa ci spiega inoltre che “i suoi
significati negativi derivano storicamente dal suo uso in riferimento alla
folla o alla moltitudine, la massa di persone prive di educazione e di regole
nel suo senso positivo … rappresenta invece la forza e la solidarietà”
7
. Di
Nallo approfondisce spiegando come l’individuo che viene a ritrovarsi
distaccato dai contesti sociali tradizionali ed autoritari è da sempre una
sostanziale preoccupazione per i conservatori, che non possono tollerare
associazioni alternative a quelle preesistenti, debitamente mantenute sotto
5
Cfr. Zingarelli N., Vocabolario della lingua italiana, Zanichelli, Bologna, 2002, p. 1067.
6
Cfr. Valli B., Comunicazione e media, Carrocci, Roma, 1999, pp. 113-119.
7
McQuail D., Le comunicazioni di massa, Il Mulino, Bologna, 1993, p. 39.
12
continuo monitoraggio
8
. E’ ancora una connotazione negativa della massa,
incapace di autogestirsi e bisognosa di accurati controlli dall’alto, dagli
impianti organizzativi sociali. Ma se da un lato si incappa
nell’interpretazione riduttiva di un organismo informe, più ammasso che
massa, indefinibile creatura senza testa ma dalle tante mani che
difficilmente riescono a rimanere ferme, dall’altra è questo un concetto
basilare per concettualizzazioni politiche come quelle socialiste o marxiste,
che trovano invece nella massa l’unione, la parità e l’uguaglianza che non
sono riscontrabili nell’impianto sociale.
Passando alla comunicazione ci addentriamo nel campo
dell’interrelazione, raggiungendo quindi la dimensione dei rapporti fra gli
individui che vengono a formare questa ‘massa’; comunicazione è insomma
“tutta la fenomenologia della vita relazionale e sociale”
9
, oppure per dirla
con le autorevoli parole dello Zingarelli, “scambio di messaggi fra un
emittente e un ricevente”
10
, e anche trasmissione di conoscenza, di
informazione. Soltanto poco più di mezzo secolo fa, nel 1941 lo stesso
dizionario della lingua italiana a proposito di comunicazione parlava del
“far partecipare, rendere comune ad altri, dividere insieme”: c’era come
oggi l’idea di contatto e partecipazione, ma a quanto pare si dovevano
attendere gli anni cinquanta per sentire parlare per la prima volta di
passaggio di informazione, andando a toccare nuovi elementi quali quello
geografico, del trasporto effettivo, e del messaggio implicito in tale
passaggio.
La comunicazione va inoltre ad essere suddivisa in due principali
sottoinsiemi: comunicazione digitale (o verbale, il linguaggio in senso lato)
ed analogica. Quest’ultima, in particolare, corrisponde a quanto
un’immagine ci offre del significato della comunicazione stessa. In senso
stretto può essere fra l’altro tutto l’insieme comportamentale dei gesti, degli
atteggiamenti, degli sguardi, delle posture, dei toni e volumi vocali di una
persona. Se la comunicazione verbale ha vita propria indipendentemente dal
8
Cfr. Di Nallo E., Per una teoria della comunicazione di massa, Angeli, Milano, 1977, pp.
38-41.
9
Valli B., Op. cit., p. 11.
10
Zingarelli N., Op. cit., p. 413.
13
contesto, così non è per quella analogica, corollario della digitale-verbale e
ad essa necessariamente legata.
Stabiliti questi semplici principi, possiamo già intendere la
comunicazione di massa in un senso tridimensionale, che si delinea nello
spazio, ovvero di una forza espressiva che agisce dalle singole persone e
sulle singole persone, raggiungendo la propria forma esteriore
nell’uniformità di tutti questi singoli partecipanti all’azione comunicativa,
creandosi come massa (punta dell’iceberg del processo comunicativo)
proprio all’atto del dotarsi, in quanto tale, di un determinato sistema
necessario alla veicolazione dell’informazione.
14
2.1. Mezzi di comunicazione di massa
Questo sistema prende vita nel mass media, nel mezzo di
comunicazione di massa; esso è il motore generatore degli impulsi
comunicativi che costituiscono infine il legame culturale dell’intera massa
sociale. Ma, messa così, si tratta soltanto di una questione puramente
teorica: cerchiamo ora di capire meglio cosa si intenda tecnicamente con il
termine ‘mass media’. Luhmann in relazione a ciò scrive: “tutti gli apparati
della società che si servono di strumenti tecnici di riproduzione per
diffondere la comunicazione”
11
; in questo modello il destinatario non è
predeterminato dall’emittente, per cui “decisivo è comunque il fatto che non
può avere luogo nessuna interazione faccia a faccia tra gli emittenti e i
riceventi”
12
. Luhmann pone insomma l’accento sulla tecnicizzazione della
trasmissione del messaggio e sulla mancanza di effettiva interazione
materiale fra chi lo manda e chi lo riceve. La differenza sostanziale quindi
fra comunicazione interpersonale e di massa sta in ciò che si frappone tra
emittente e ricevente. Pertanto si giunge a connotare formalmente anche il
singolo elemento mass media: esso è la televisione, o il quotidiano, la
pubblicazione stampata di ogni genere, è la radio o il cinema, la
videocassetta o il dvd, il cd e l’audiocassetta, ma sicuramente non si può
parlare in questi termini di altri fenomeni informativi quali ad esempio il
teatro, il museo, il telefono o internet. Storicamente lo sviluppo della
comunicazione umana ha vissuto quattro fasi: segni, linguaggio, scrittura e
stampa. Ovvero dalla rappresentazione simbolica alla parola, dove il ‘segno’
è per il famoso linguista F. De Sausurre ciò che risulta dall’associazione fra
un significante e un significato; il segno linguistico riunisce concetto ed
immagine acustica, fino all’ampia tecnicizzazione e diffusione del
messaggio, che dalla stampa arriva ai progressi dei giorni nostri
13
.
Da non sottovalutare in questa analisi la componente mediatrice, che
prende un posto inequivocabilmente importante già dalla composizione del
termine stesso (mass media, appunto); mediare è il fine per cui è stato creato
il mezzo, è lo stare a metà strada fra emittente e ricevente, da cui si ricava
11
Luhmann N., La realtà dei mass media, Angeli, Milano, 2000, p. 16.
12
Ibidem.
13
Cfr. De Sausurre F., Corso di linguistica generale, Laterza, Bari, 1972, p. 83 e segg.
15
quella componente tecnologica su cui Luhmann fa leva. Mediare è anche
l’essere tramite, partecipare al processo comunicativo ma solo in veste di
messaggero: il medium non è il messaggio, arriverà a specificare in uno dei
punti cardinali della sua teoria McLuhan. Con un gusto estremo per l’ironia,
egli infatti spiegherà la differenza esistente fra medium e messaggio
scrivendo: “Le armi da fuoco in sé stesse non sono né buone né cattive, è il
modo in cui vengono usate che ne determina il valore. In altre parole, se le
pallottole colpiscono le persone giuste, le armi da fuoco sono buone. Ed è
buono il tubo della tv se spara le munizioni giuste contro le persone
giuste”
14
. A prescindere dalla questione morale, prendendo le armi solo
come semplici oggetti destinati all’espulsione di proiettili, non si può non
essere d’accordo. E il paragone fra un fucile e il tubo catodico è realmente
calzante, si provi a pensare a come si organizzano le strategie di attacco
militare e, similmente, i palinsesti televisivi! E’ un sistema aggressivo,
deciso coraggiosamente a spendere le proprie cartucce migliori laddove sa
per certo di incontrare il nemico più considerevole; di conseguenza nelle
battaglie ci si gioca, oltre all’arsenale umano e materiale, anche una discreta
fetta di credibilità, e di potere. Ancora più facile e diretto il paragone fra
eserciti ed emittenti televisive, in continua disputa, costantemente impegnati
nella rincorsa alla supremazia e consapevoli dell’importanza di sgominare il
proprio nemico per potere raggiungere il fine supremo: il dominio. Che sia
sul territorio o sull’audience, il mezzo rimane lo stesso: esplodere colpi e
cercare nella maniera più funzionale possibile di penetrare il bersaglio con il
proiettile o il programma appositamente curati.
14
McLuhan M., Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, Milano, 1967, p. 19.
16
2.2. Cultura
Uno dei ruoli caratteristici dei media si ritrova nella formazione della
cultura. Per essa si intende generalmente, sempre aiutandoci con il debito
dizionario, un complesso di cognizioni, procedimenti e comportamenti
trasmessi sistematicamente all’interno di un gruppo sociale; la cultura è ciò
che l’innovazione crea, ma che solo la tradizione, un solido perpetuarsi nel
tempo conserva, per venire a conformare una determinata mentalità in tutti
coloro che sono disposti ad abbracciare gli stessi canoni culturali. Come
sostiene Livolsi, nello scenario sociale contemporaneo la cultura si
trasforma seguendo le evoluzioni del sistema dei media
15
, volendo accostare
l’evoluzione culturale nella seconda metà del XX secolo a quella dei media,
tecnicamente come strutturalmente, al proprio interno. Se però guardiamo
indietro nel tempo, scorgiamo immediatamente l’elemento mediatico
nell’ambito della formazione e soprattutto della conservazione della cultura;
ancora Luhmann: “la scrittura…era stata concepita inizialmente soltanto
come supporto mnemonico per una comunicazione primariamente orale”
16
.
Ma attenzione: “è soltanto con la stampa che gli scritti si moltiplicano al
punto che si arriva ad escludere…un’interazione orale di tutti coloro che
partecipano alla comunicazione”
17
, il primo media privato dell’interazione
diretta è la stampa, i cui “utenti si fanno notare quantitativamente, nelle
cifre;…il quantum della loro presenza può essere indicato e interpretato, ma
non viene trasmesso da una comunicazione di ritorno”
18
. Distacco ed
unione: in sostanza il progresso tecnico nella veicolazione dei messaggi è
stato artefice di un verosimile allontanamento fra emittenti e riceventi,
proprio nello stesso momento in cui andava generando un insieme di valori
con i quali strutturare i legami culturali sociali.
15
Cfr. Livolsi M., Manuale di sociologia della comunicazione, Laterza, Roma-Bari, 2000,
pp. 333-335.
16
Luhmann N., Op. cit., p. 32.
17
Ibidem.
18
Ibidem.
17
2.3. Spettacolo
Certamente, parlando in termini generali di ‘cultura’ si ha a che fare
con un concetto piuttosto vago, difforme e variabile, esteso nelle più
svariate direzioni; uno di questi immaginari vettori è quello che
maggiormente interessa il nostro discorso, cioè lo spettacolo. ‘Spettacolo’ è
una generica rappresentazione destinata al pubblico, con carattere di
eccezionalità insito nella maniera in cui tale fenomeno si manifesta. Si tratta
del film come del concerto, del programma televisivo come della mostra.
Effettivamente ciò che distingue il ‘microspettacolo’, dotato dell’approccio
casalingo come ad esempio la visione privata di fotografie personali, dallo
spettacolo ‘macro’, ovvero quello che caratterizza la linea generale del
fenomeno, e che pertanto a noi interessa, è appunto quella propagazione del
messaggio facendo uso di determinati dispositivi tecnologici appositamente
integrati nel sistema di mediazione, della quale si è fatto cenno sopra
parlando dei mass media. Dall’integrazione fra mezzi di comunicazione di
massa e spettacolo nasce lo show business, l’industrializzazione del
prodotto-spettacolo, e così pure accade per lo star system, il fatato mondo
lussuoso ed etereo dove risiedono esclusivamente coloro che dello
spettacolo sono i principali rappresentanti in carne ed ossa. La star, la stella,
è il divo (stessa etimologia nonché significato di divino), il protagonista
dell’evasione per milioni di spettatori affamati di diversivi spensierati o
stuzzicanti; è colui che incarna i desideri irrealizzabili del pubblico assorto
nella contemplazione della sua immagine di celluloide, o di vinile, o di
quant’altro gli abbia permesso di assurgere a tale ‘beatificazione sociale’.
Lo star system, edenico modello di realtà in cui proiettare ideali e
sogni degli spettatori, nasce perciò successivamente alla seconda guerra
mondiale, accanto a quelle idee di rinascita e rinnovamento già enunciate
sopra; star system è anche sistema di sfruttamento, massimizzazione degli
introiti provenienti dalle bendisposte tasche di chi in tali sogni è assorto e ai
quali non può rinunciare. Quindi spettacolo e consumo vanno di pari passo
in questo percorso; esemplificando raggiungiamo di nuovo la seconda metà
degli anni ’50, dove avevamo lasciato giovani ribelli ad esercitare nuove
libertà inaspettate, e osserviamo il fenomeno dei cantanti ragazzini, lanciati