6
La diminuzione del gettito è così compensata con un aumento della
pressione fiscale su cespiti meno mobili come il lavoro.
D’altra parte la Comunità Europea sta cercando di invertire questa tendenza
alla competizione e alla tassazione eccessiva del lavoro, perseguendo
l’introduzione di un coordinamento fiscale.
Nei suoi atti la Comunità Europea non prende in esame la possibilità di
esentare il risparmio, ma spinge unicamente verso una tassazione uniforme
del risparmio stesso, che sollevi il lavoro dal carico fiscale.
Il dibattito sulla tassazione o detassazione del risparmio ha invece origini
remote: a dare il via fu J.S.Mill verso la fine dell’800 con il suo teorema
della doppia imposizione del risparmio.
Mill, riferendosi ad una realtà economica diversa, sosteneva che non è
giusto che due redditi di pari ammontare annuo, ma di durata diversa siano
tassati nella stessa misura. Tassare allo stesso modo un reddito temporaneo
come il lavoro e un reddito perpetuo come una rendita è un’ingiustizia.
Per ripartire il carico tributario in modo equo occorre, secondo il Mill,
esentare il risparmio “necessario”, cioè quello che il possessore del reddito
temporaneo deve fare per trasformarlo in perpetuo.
Se non si esenta il risparmio “necessario” il contribuente subisce una
doppia tassazione: una prima volta quando risparmia e una seconda quando
consuma.
7
Tassare la somma investita e poi tassare ancora il ricavo dell’investimento
significa tassare due volte la stessa quota di ricchezza del contribuente.
Queste affermazioni del Mill hanno scatenato una lunga serie di
elaborazioni oltre che di critiche da parte degli economisti.
Einaudi sosteneva che tutto il risparmio in generale doveva essere esentato
e non solo quello “necessario”; Kaldor, uno degli autori più recenti, prende
spunto dal teorema del Mill per dichiarare che non è tanto questione di
“doppia imposizione del risparmio”, quanto quella che per incentivare gli
investimenti che vanno ad alimentare lo sviluppo economico è necessario
esentare il risparmio.
La nostra analisi parte da questi ragionamenti teorici per diventare via
via sempre più pragmatica e contestuale: nel capitolo 2 si prende in esame
il sistema di imposizione sui rendimenti delle attività finanziarie da un
punto di vista storico.
L’imposizione sui rendimenti delle attività finanziarie in Italia si basa
tutt’oggi sulla scelta di fondo compiuta dal legislatore tributario nel 1973.
Difatto in occasione della Riforma tributaria del 1973 il legislatore decise
di assoggettare i proventi delle attività finanziarie non all’imposizione
personale progressiva, ma ad un prelievo sostitutivo proporzionale, ad una
tassazione “separata” rispetto a quella degli altri redditi percepiti dagli
individui.
La scelta per l’applicazione di ritenute alla fonte o imposte sostitutive da
parte degli emittenti ed intermediari è stata dettata da due ragioni
fondamentali:
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1) superare le difficoltà non trascurabili dell’accertamento dei rendimenti in
esame;
2) evitare un’imposizione progressiva su tali redditi che sarebbe stata
politicamente inopportuna e tale da generare fughe di capitali verso i
Paesi vicini avvantaggiati da un sistema fiscale meno oneroso.
Con la recente Riforma della tassazione dei redditi delle attività finanziarie
(Dlg. 461/97 entrato in vigore il 1° luglio 1998) il legislatore tributario ha
riconfermato la scelta per il sistema di imposizione separata e lo ha esteso a
tutti i redditi finanziari, incluse le plusvalenze o capital gains.
Il prelievo è esteso a tutti i redditi derivati dall’impiego finanziario del
risparmio: sia ai redditi di capitale sia ai redditi “diversi” o plusvalenze.
L’intento del legislatore con la Riforma del 1° luglio 1998 è stato
principalmente quello di uniformare la tassazione di tutti i proventi
finanziari (interessi, dividendi, plusvalenze) in modo che la scelta del
risparmiatore tra i diversi tipi di investimento fosse fiscalmente neutrale ed
effettuata in base alle caratteristiche di rischio-rendimento di ciascuna
forma di investimento.
Nel fare questo il legislatore ha introdotto due grandi novità:
1) ha ampliato la base imponibile con la ridefinizione di redditi di capitale
e soprattutto dei redditi “diversi” (artt. 41-81 del Tuir);
2) ha armonizzato le aliquote; finalmente ha fatto ordine tra le aliquote
accorpandole a due livelli soltanto: una aliquota ordinaria del 27% e
un’aliquota ridotta del 12,5%.
L’obiettivo ultimo della Riforma è stato quello di “razionalizzare” il
sistema.
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Nel capitolo 3 abbiamo voluto analizzare il sistema fiscale italiano
descrivendo in maniera più completa possibile le modalità di tassazione
delle principali categorie di redditi di capitale: interessi, dividendi e
plusvalenze.
Trattando della Riforma del 1° luglio 1998 abbiamo analizzato forme di
investimento intermediato come i Fondi Comuni d’Investimento, che sono
stati toccati dalla Riforma.
Inoltre abbiamo dedicato un paragrafo a parte al problema della
tassazione dei titoli pubblici che, collegato all’esigenza di trovare
compratori del debito pubblico, ha sempre un po' vincolato il legislatore
italiano, impedendogli anche con il nuovo regime di passare all’aliquota
unica, cioè ad un sistema fiscale più equo.
Nell’ultimo capitolo invece abbiamo voluto comparare il sitema fiscale
italiano a quello degli altri Paesi europei non per individuare il sistema
fiscale più equo oppure quello in cui è più conveniente investire, ma per
mettere in evidenza l’eccezionalità del nostro sistema fiscale: l’imposta
sostitutiva sugli interessi prevista in Italia, in particolar modo, costituisce
un caso eccezionale in un contesto europeo in cui è diffuso un sistema di
imposizione progressiva. In quest’ultimo gli interessi derivanti da depositi
bancari e obbligazioni concorrono a formare la base imponibile
dell’imposta personale e progressiva sul reddito.
Da una analisi comparata risulta che la tendenza in Europa è verso la
tassazione del risparmio.
Secondo un’accurata ricerca condotta dalla Banca d’Italia nel periodo
1989-1999 l’imposizione degli interessi percepiti da non residenti nei 15
10
Paesi dell’UE si è ridotta approssimandosi all’aliquota zero, mentre le
ritenute per i residenti mostrano una tendenza all’aumento.
L’assenza tutt’ora di un intervento normativo della Comunità Europea che
porti all’armonizzazione fiscale e l’incapacità dei Paesi membri di
pervenire ad un accordo sulla tassazione dei redditi di capitale, hanno fatto
prevalere la soluzione degli aggiustamenti tramite le forze di mercato e
un’accesa concorrenza.
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CAP. 1 PRINCIPI DISTRIBUTIVI DELL’IMPOSTA-
TEOREMA DELLA DOPPIA IMPOSIZIONE
DEL RISPARMIO.
1.1 Principi distributivi.
Lo Stato nel ripartire l’onere dei servizi pubblici tra le varie classi sociali
adotta un sistema di prelievi commisurati a parametri diversificati.
Nella scelta dei tributi lo Stato dovrebbe avere come obiettivo finale quello
della equità o giustizia tributaria: questa è l’ opinione fondamentale della
maggior parte degli economisti, i quali hanno cercato di dare a queste
parole un contenuto logico.
Possiamo parlare di equità in due sensi:
- equità orizzontale, per cui persone che si trovano in condizioni uguali o
simili devono essere gravate in modo uguale, cioè nella stessa
misura.L’uguaglianza si raggiunge quando ciascuno paga i servizi per
l’utilità che ne trae. Se accettiamo questo modo di concepire l’uguaglianza
abbracciamo il principio della contoprestazione: l’imposta non è altro che
un prezzo pagato per godere di certi beni e servizi.
Questa tesi parte implicitamente da un giudizio di valore: che la
distribuzione del reddito nazionale è giusta e non va modificata.
12
- equità verticale, per cui persone che si trovano in condizioni disuguali
devono contribuire agli oneri sociali in modo diverso: il ricco in misura
più che proporzionale del povero.
Se l’uguaglianza è concepita in questo modo si accoglie necessariamente
il principio della capacità contributiva.
Questo principio, a differenza del principio della controprestazione,
implica una redistribuzione del reddito.
L’idea è per sè stessa semplice, bisogna vedere cosa significa avere la
medesima capacità contributiva, ci vuole un parametro comune idoneo a
misurare detta capacità: può essere il reddito, il consumo, il patrimonio
anche combinati tra di loro in proporzioni diverse.
1.2 Equità fiscale e capacità contributiva secondo John Stuart Mill.
Partendo dalla premessa che lo Stato dovrebbe avere come obiettivo finale
e primario quello di adottare un sistema tributario che sia il più possibile
equo la maggior parte degli economisti si sono chiesti quale sia il sistema
di imposte ottimale.
E’ questa una questione centrale che è stata affrontata in tempi antichissimi
verso la fine dell’ottocento dallo stesso John Stuart Mill.
J. S. Mill, chiedendosi quali siano le qualità desiderabili di un sistema di
imposte, decide di far proprie le massime formulate da Adamo Smith
confermate dagli scrittori successivi e che sono ormai per così dire divenute
classiche:
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1) I cittadini di ogni stato dovrebbero contribuire al mantenimento del
governo in proporzione alla loro capacità , cioè in proporzione al reddito
di cui godono sotto la protezione dello Stato;
2) L’imposta che si deve pagare dovrebbe essere certa e non arbitraria:
dovrebbe essere chiaro il tempo , il modo del pagamento, la somma da
pagare;
3) Ogni imposta dovrebbe essere pagata nel tempo e nel modo più comodo
al contribuente;
4) Ogni imposta dovrebbe essere congegnata in modo da prelevare solo la
somma che è destinata alle casse dello Stato, senza oneri aggiuntivi.
Di queste quattro massime è la prima che interessa particolarmente Mill :
l’uguaglianza è la norma in materia di imposizione e secondo Mill
eguaglianza di imposizione significa eguaglianza di sacrificio.
Sono due le considerazioni fatte dal Mill :
a) adotta il principio della “capacità contributiva”.Ogni persona deve
contribuire alle spese del governo in proporzione alla propria capacità, al
proprio reddito;
b) lo Stato deve chiedere a tutti i cittadini uguali sacrifici.Qualunque
sacrificio, onere tributario, richiesto ai cittadini deve ricadere su di loro
con una pressione per quanto possibile uguale per tutti.Ogni persona
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deve contribuire alle spese del governo in modo tale che, pagando
l’imposta, non senta un danno nè maggiore, nè minore di quello che ogni
altra persona sente dando il suo contributo.
Per quanto riguarda la considerazione sub a) fatta dal Mill, al principio
della “capacità contributiva” sono state date due formulazioni diverse. La
prima considera il problema in termini di equità, l’altra formulazione in
termini di benessere.
J.S.Mill rappresenta il punto di passaggio fra la prima e la seconda
formulazione del principio, perchè Mill considera il problema del riparto
delle imposte non solo in termini di giustizia, ma anche di benessere.
Le imposte cioè devono essere distribuite in modo da minimizzare la
perdita di benessere da esse prodotta. In altri termini, le imposte devono
provocare il “sacrificio minimo possibile”. Se si assume, come hanno
sostenuto molti, che l’utilità marginale del reddito sia decrescente, allora il
principio sostiene che per minimizzare il sacrificio complessivo, occorre
iniziare a prelevare le imposte sui più ricchi e non sui poveri. Solo se le
necessità di gettito sono elevate, si può prelevare anche sui poveri, dopo
essere giunti ad una completa uguaglianza dei redditi.
Il “principio del sacrificio minimo” vuole appunto rendere il più piccolo
possibile il sacrificio provocato dall’imposta.
Per quanto riguarda la considerazione sub b) fatta dal Mill, partendo dalla
premessa che si dovrebbero chiedere a tutti uguali sacrifici, l’autore mette
in evidenza come prelevare la stessa percentuale da un reddito basso
15
rappresenta un onere maggiore della stessa frazione dedotta da un reddito
piu alto.”C’è differenza tra un imposta pagata risparmiandone i mezzi dai
consumi di lusso e un’imposta che invece incide sulle necessità di vita”
1
(Mill 1871). Pertanto il modo più equo per eliminare queste disuguaglianze
di pressione è lasciare un certo reddito minimo esente da imposta, come
raccomanda lo stesso Bentham.
Il Mill si pone il quesito se sia giusto che redditi dello stesso ammontare
annuo, ma di durata diversa siano tassati nella stessa misura. E’ giusto che i
redditi temporanei siano tassati in misura uguale a quelli perpetui.
John Stuart Mill, confermando una tesi che era già del suo predecessore
Giacomo Mill (1822), sostiene che se redditi temporanei sono tassati nella
stessa misura di quelli perpetui si commette una evidente ingiustizia : i due
contribuenti non hanno la stessa possibilità di trasmettere il loro reddito
agli eredi.
Se un contribuente ha lo stesso reddito di un altro, ma non ha la stessa
possibilità di trasmetterlo agli eredi, i due contribuenti non sono nella
stessa condizione.
Prima di applicare l’imposta con la stessa aliquota, occorre pertanto mettere
i due nella stessa condizione; occorre esentare il risparmio che il possessore
del reddito temporaneo dovrebbe fare per trasformarlo in perpetuo.
Secondo J.S.Mill per ripartire il carico tributario in modo equo, rispettando
il principio della “eguaglianza di sacrificio” bisogna esentare dall’imposta
il risparmio “necessario”, cioè il risparmio che i possessori di redditi
1 Mill J. S., “Principles of political economy”, London, 1871; in Biblioteca dell’economia, Serie I vol.XII
libro V cap.II; tr. it. a cura di Campolongo A. , in Sociologi ed Economisti, Utet, Milano, 1953
1
16
temporanei dovrebbero fare per renderli perpetui e garantire così a sè e ai
propri figlioli un futuro migliore.
Quando si dice che un reddito temporaneo dovrebbe essere tassato meno di
un reddito durevole, la risposta è questa: infatti è tassato di meno, poichè il
reddito che dura soltanto dieci anni paga l’imposta per quanto dura la vita
del singolo contribuente (dieci anni per esempio), mentre quello che dura
sempre la paga sempre.
Ma in questo ragionamento c’è un errore: i redditi dovrebbero essere
accertati agli effetti dell’imposta non in proporzione del loro ammontare
annuale, ma in proporzione del loro valore capitale : se l’ammontare annuo
di due redditi, però uno perpetuo e l’altro temporaneo, è lo stesso (100), il
loro valore capitale non è identico. Infatti 3.000 è il valore capitale del
reddito perpetuo (supponendo che il tasso di interesse sia 3% e la rendita
perpetua 100 il valore capitale è di 3.000 cioè 3.000 x 0,03=100), 1.500 il
valore capitale del reddito temporaneo (per avere la stessa rendita 100 non
in perpetuo, ma in un periodo limitato, 10 anni per esempio, quando la
rendita dell’altro reddito è perpetua, può durare fino al doppio degli anni, si
deve supporre che il rendimento sia del 6% e che pertanto il valore del
capitale sia 1.500). Quindi il reddito perpetuo deve pagare ogni anno due
volte tanto, si potrebbe concludere.
Eppure questo non è giusto perchè come si capitalizzano i redditi si
capitalizzano i pagamenti dell’imposta : si paga una imposta doppia e per
sempre sul reddito perpetuo, ma una imposta che è la metà della prima e
solo per la durata della vita del proprietario sul reddito temporaneo.
17
Sulla base di questi ragionamenti non si può sostenere una riduzione
dell’imposta in favore dei redditi temporanei.
1.3 La formulazione classica della doppia tassazione del risparmio.
John Stuart Mill fu il primo a mettere in evidenza come tassare in misura
uguale redditi temporanei e redditi perpetui significa violare il principio di
uguaglianza, chedere ai contribuenti sacrifici diversi e ciò comporta una
pressione fiscale che non è uguale per tutti.
Nonostante l’uguaglianza nominale dei redditi, colui che percepisce un
reddito temporaneo non può disporne completamente come colui che
beneficia di un reddito perpetuo.
Nonostante l’uguaglianza nominale di reddito, A che percepisce un reddito
temporaneo di 1000 sterline all’anno non si può permettere di pagare 100
sterline di imposta con la stessa facilità di B, che trae lo staesso reddito
annuo da una proprietà ereditaria, cioè gode di un reddito permanente.
A sa che se vuole provvedere ai figli e alla sua vecchiaia deve in parte
risparmiare il suo reddito,a differenza di B che può spendere tutto il suo
reddito senza pregiudizio per la sua vecchiaia.
Il Mill afferma che la parte di reddito risparmiata, necessaria per rendere
perpetuo un reddito temporaneo deve andare esente da imposta.
Se il risparmio non va esente da imposta”il contribuente è tassato due volte
su quello che risparmia e una volta soltanto su quello che consuma”
2
.
2
J. Stuart Mill, op. cit.,pag.770.
18
Tassare la somma investita e poi tassare ancora il ricavo dell’investimento
significa tassare due volte la stessa quota di ricchezza del contribuente:vale
a dire la parte di reddito paga l’imposta quando viene risparmiata o
investita e poi paga l’imposta anche sull’interesse che frutta.
La formulazione classica della teoria della doppia tassazione del risparmio
può essere spiegata numericamente così :
- nell’anno I, A dispone di un reddito di 20.000;
- il saggio di interesse è del 5%;
- l’imposta ammonta a 10% del reddito;
- A destina nell’anno I 10.000 al consumo e 10.000 al risparmio e investe
quest’ultime in modo da ricavare il 5% all’anno in perpetuo.
Nell’anno I, tutto il suo reddito di 20.000 è tassato.
Sulle 10.000 destinate al consumo, A paga una imposta (10%) di 1.000 lire,
che gliele riduce a 9.000,in questo modo ogni suo debito tributario sul
consumo è soddisfatto.
Però sulle 10.000 risparmiate, A paga nell’anno I una imposta di 1.000 lire:
impiega le residue 9.000 al 5% e ne ricava un reddito annuo di 450 lire a
partire dall’anno II.
A partire dall’anno II il fisco preleva sulle 450 lire il 10% a titolo di
imposta, riducendole così a 405. Il valore attuale di un rendita annuale di
405 in perpetuo, se il saggio di interesse è del 5%, è di lire 8.100.
Tassare prima il risparmio 10.000, e poi il frutto annuo 450 lire del
risparmio investito, equivale a portar via subito nel primo anno 1.900 lire
dalle 10.000 ed esentare poi il frutto del risparmio.
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Ne deriva che mentre sulle 10.000 consumate, si pagano solo 1.000 lire una
volta tanto, sulle 10.000 risparmiate si corrisponde al fisco un valore di
1.900 lire.
Secondo il Mill l’unico modo per accertare e prelevare l’imposta sul reddito
senza creare duplicazioni , è tassare soltanto la parte del reddito che è
destinata alla spesa ed esentare la parte che è risparmiata.
Nessuna imposta sul reddito è realmente equa se il risparmio non è
esentato.
1.4 Motivi a favore della esenzione del risparmio dall’imposta
Numerose sono le critiche rivolte al teorema Milliano, come numerosi sono
invece i sostenitori.
Tra i sostenitori troviamo primi fra tutti Einaudi e Fisher che hanno ripreso
elegantemente la tesi classica esposta dal Mill.
Einaudi è quello che si compiace maggiormente del teorema del Mill e
vuole assumere il “principio di Uguaglianza” come premessa indiscutibile
da cui parte tutta la sua costruzione logica. Eppure Einaudi pone un
“principio dell’eguaglianza” tutto suo che è ben lontano dal pricipio della
eguaglianza di sacrificio enunciato da J.S.Mill.
Il Mill intende eguaglianza di imposizione come eguaglianza di sacrificio:
lo Stato deve chiedere a tutti i cittadini uguali sacrifici. Pertanto il pricipio
viene violato se lo Stato preleva la stessa percentuale da un reddito
temporaneo (come il salario) e da un reddito perpetuo di pari ammontare.