5
La stagflazione creatasi in quel decennio aveva in realtà cause ben più
ampie e complesse, crisi petrolifera in primis, tuttavia al
conservatorismo politico si affiancò ben presto il conservatorismo
economico, che si opponeva drasticamente all’intervento pubblico
nell’economia. In nome del sacro principio dell’autoregolamentazione
dei mercati veniva infatti negata la legittimità di qualsiasi intervento,
interpretato come distorsione, dalla partecipazione dello Stato
all’attività economica, all’ampliamento del ruolo delle imprese come
attori socialmente responsabili. L’unica responsabilità dell’impresa
era la creazione di valore sotto forma di profitto per gli azionisti,
valore che la “mano invisibile del mercato” avrebbe poi provveduto a
ridistribuire tra le parti sociali.
Se questa era la prospettiva dominante a livello globale (da intendersi
limitatamente ai Paesi capitalisti), a livello locale cominciarono a
nascere le prime perplessità, complice l’influsso dell’ancora potente
ideologia comunista. Non è un caso, come vedremo nel corso
dell’analisi, che proprio sul finire del decennio in Europa (nello
specifico, in Francia e Germania) siano stati elaborati i primi modelli
di rendicontazione sociale, sull’onda lunga dei conflitti sociali di
quegli anni.
Muoveva così i primi passi anche nel Vecchio Continente una dottrina
già nata e ampiamente sviluppatasi nei Paesi anglosassoni, la business
ethics (etica degli affari), mirata all’analisi e alla formulazione dei
principi morali alla base dell’attività economica. Nell’ambito di tale
disciplina nasce poi il dibattito sull’accountability, intesa come
l’insieme delle pratiche che permettono a un’organizzazione di
rendere conto della propria attività ai suoi interlocutori, e con essa
l’allargamento della sfera degli interlocutori e degli effetti presi in
considerazione.
In questo lavoro ci concentreremo sulla social accountability, ovvero
sulla rendicontazione di quelli che sono gli effetti sociali dell’attività
economica dell’impresa, in relazione a un insieme ampio ed
eterogeneo di interlocutori.
6
Vedremo come la dottrina in materia di rendicontazione sociale si
presenti oggi come un corpus complesso di contributi variegati,
provenienti da ambiti molto diversi tra loro, dalla teoria sociologica
alla prassi contabile, influenzati anche dall’area geografica di
provenienza, in base al modello di capitalismo in essa prevalente.
Prenderemo in considerazione i più significativi tra questi contributi,
al fine di offrire un quadro esauriente del panorama contemporaneo, e
ne esamineremo alcune applicazioni pratiche.
Scopo di tale percorso sarà quello di verificare lo stato dell’arte della
disciplina, evidenziandone le valenze pratiche e le opportunità offerte
dalla rendicontazione sociale nel senso di una democratizzazione del
sistema economico, nel quale l’impresa agisca a pieno titolo come un
attore sociale, facendosi carico della responsabilità degli effetti sociali
della propria attività.
* * *
Nel primo capitolo esamineremo dunque l’intreccio di teorie alla base
della Responsabilità Sociale d’Impresa (RSI o, in ambito
internazionale, Corporate Social Responsibility) e i loro legami con il
contesto storico e sociale, mettendo in luce i fattori che hanno
contribuito in maniera decisiva all’affermarsi di tale tematica
nell’ambito del più ampio dibattito sulla cittadinanza d’impresa e sulla
corporate governance. Analizzeremo dunque la teoria dell’impresa
come sistema aperto, che ha sensibilmente contribuito a focalizzare
l’interesse sulle relazioni molteplici e bi-direzionali che l’impresa
intrattiene con gli attori del sistema in cui essa si inserisce, inteso qui
in accezione ben più ampia rispetto al semplice contesto economico.
Ci occuperemo poi della teoria degli stakeholder, o portatori
d’interessi, che per prima si è posta il problema di stabilire con
esattezza quanti e quali siano gli attori che entrano in relazione con
l’impresa, e in che modo quest’ultima possa individuare i soggetti più
rilevanti per i propri obiettivi, e relazionarsi con essi.
7
Vedremo poi quali sono state le applicazioni pratiche della
responsabilità sociale, effettuando una prima panoramica sulle diverse
declinazioni che essa ha assunto in corrispondenza dei diversi sistemi-
Paese in cui si è inserita, anche in relazione agli interessi percepiti
come più rilevanti in differenti situazioni. I diversi contesti hanno
infatti fatto sì che il tema della responsabilità delle imprese venisse
declinato in maniera diversa, privilegiando in alcuni casi una generale
attenzione alla qualità del prodotto fornito ai cittadini-consumatori, in
altri una più spiccata sensibilità per la salvaguardia dell’ecosistema, in
altri ancora la concentrazione sull’eticità dell’attività aziendale e del
mondo del business più generale.
Lo sguardo d’insieme al variegato universo della rendicontazione
sociale costituirà inoltre una prima occasione per sollevare una
questione meritevole di approfondimento: la definizione della
rendicontazione sociale, e nella fattispecie l’elaborazione di parametri
in grado di consentire una relativa standardizzazione delle pratiche,
imprescindibile presupposto per confrontare le diverse realtà. Il
dibattito teorico in merito ha più volte sottolineato la necessità di
evitare la formulazione di indicatori eccessivamente rigidi,
inevitabilmente condannati a rapida obsolescenza in virtù della natura
stessa della rendicontazione sociale. Troppe volte infatti, nella storia
delle scienze sociali, una sorta di “ansia classificatrice” ha portato alla
creazione di complicati costrutti teorici, nell’illusione di poter
“fissare” una volta per tutte la varietà e i continui mutamenti della
realtà sociale, e puntualmente tali costrutti si sono dimostrati
inadeguati rispetto a quella realtà che pretendevano di descrivere
minuziosamente.
Il problema della definizione di parametri adeguati si ripropone poi
con particolare rilevanza in questo ambito, in quanto, come vedremo,
la rendicontazione sociale trova una delle sue principali ragioni
d’essere nel rafforzamento del patto fiduciario tra l’impresa e i suoi
interlocutori.
8
Le metodologie di social auditing costituiscono infatti un importante
strumento di legittimazione per l’impresa, a condizione però che la
fiducia degli stakeholder possa fondarsi stabilmente su un dialogo
corretto e trasparente, in grado di ridurre le asimmetrie informative,
che potrebbero in qualche modo danneggiare gli interlocutori.
Nel secondo capitolo ci preoccuperemo pertanto di analizzare
dettagliatamente i singoli tentativi di creare strumenti per la
rendicontazione sociale, consapevoli delle difficoltà che ciò comporta,
ancora maggiori in seno a una disciplina relativamente giovane.
Nell’ambito del dibattito sulla cittadinanza d’impresa, infatti, si è fatta
presto strada la consapevolezza dell’inadeguatezza di strumenti
informativi tradizionali, come il bilancio d’esercizio, per soddisfare le
esigenze di un nuovo tipo di informazione, che deve risultare
comprensibile anche a interlocutori privi di specifiche competenze
contabili, al fine di aumentare la trasparenza dei processi decisionali
aziendali e favorire la condivisione delle informazioni e delle scelte
effettuate.
Uno sguardo d’insieme sul panorama mondiale ed europeo
evidenzierà in primo luogo l’estrema eterogeneità delle iniziative e dei
modelli proposti, elaborati da soggetti quali società di revisione e
istituti di ricerca, oltre che da alcune imprese “pioniere” del settore. Si
tenterà di mettere in luce i punti di forza e di debolezza di ciascun
approccio, con particolare riferimento al livello di diffusione
raggiunto da ciascuno di essi, aspetto in ultima analisi fondamentale
per favorire l’affermarsi delle pratiche di rendicontazione sociale.
Un’attenzione particolare verrà poi riservata al ruolo delle istituzioni
internazionali, dalle Nazioni Unite all’Unione Europea, il cui
coinvolgimento costituisce un chiaro segnale della rilevanza raggiunta
dal tema della responsabilità sociale, nella misura in cui contribuisce
sensibilmente ad accrescere l’interesse collettivo in merito.
Nel capitolo terzo prenderemo poi in esame i principali modelli di
“bilancio sociale”, lo strumento finora dimostratosi più efficace nel
fornire una documentazione puntuale e dettagliata sugli effetti sociali
dell’attività aziendale.
9
La parola “bilancio” suggerisce immediatamente un parallelo con il
documento consuntivo della “normale” attività economica
dell’impresa, ovvero il bilancio d’esercizio, tuttavia vedremo che i
punti di contatto sono meno numerosi di quanto si pensi, in virtù delle
già citate difficoltà di quantificazione e standardizzazione, oltre che
dell’esclusiva volontarietà di redazione del documento.
Concentrandoci sull’esperienza italiana seguiremo l’evolversi del
dibattito sul tema, giunto a un punto di svolta decisiva con
l’elaborazione di un modello unificato da parte del Gruppo di Studio
sul Bilancio Sociale (GBS), ai cui lavori hanno partecipato tutti i
maggiori esperti del settore. Vedremo quindi quali sono state le
principali applicazioni di tale modello, nonché gli ulteriori sviluppi
avutisi in dottrina. Una particolare attenzione verrà riservata a quei
modelli che si concentrano su specifici settori economici, la cui
elaborazione ha favorito la diffusione della pratica di rendicontazione,
uniformando relativamente le procedure e abbattendo
considerevolmente i costi. Nel corso dell’analisi verranno poi
privilegiati quei contributi che si concentrano con particolare enfasi
sugli aspetti di processo della rendicontazione, in quanto è proprio in
tale ottica che si esplicitano al meglio gli effetti positivi, grazie
all’instaurarsi di un circolo virtuoso di miglioramento.
Sulla base di tali presupposti, nel quarto capitolo verranno
successivamente analizzati due casi particolari, tra loro profondamente
diversi: una grande azienda operante nel settore delle
telecomunicazioni (il Gruppo Telecom Italia) e una piccola
associazione non profit attiva nell’ambito della cooperazione
internazionale (Cesvi-Cooperazione e Sviluppo). Il primo caso ci
permetterà di verificare il ruolo svolto dal social auditing
nell’agevolare la gestione del cambiamento nel caso di una struttura
abituata a pensare e a muoversi da monopolista, trovatasi, in seguito
alla liberalizzazione del mercato delle telecomunicazioni, a dover
sensibilmente rivedere e modificare l’identità, la cultura e la strategia
aziendale.
10
Il secondo caso invece ci consentirà di prendere in considerazione le
peculiarità della rendicontazione sociale nell’ambito del non profit,
evidenziando il ruolo fondamentale che essa può svolgere per
accrescere le opportunità di azione degli enti non profit. I documenti
prodotti da tali organizzazioni verranno analizzati prevalentemente
sotto il profilo della comunicazione, che del processo di
rendicontazione costituisce la fase conclusiva – nonché decisiva.
Vedremo come non sempre siano sufficienti gli strumenti tradizionali
della comunicazione istituzionale e delle pubbliche relazioni, in
quanto la responsabilità sociale è un tema complesso, da trattare con
estrema cautela, che coinvolge tutti gli aspetti e le funzioni
dell’attività aziendale. L’analisi cercherà dunque di far emergere le
peculiarità di tale comunicazione, con particolare riferimento
all’identità aziendale, ai cambiamenti indotti e/o rafforzati dall’aver
affrontato un processo di rendicontazione sociale, e alle forme di
dialogo con gli stakeholder. Esamineremo poi la cosiddetta “strategia
sociale” dell’impresa, ovvero l’insieme di quelle pratiche che
consentono alle imprese di ricollocarsi in maniera soddisfacente in un
contesto sempre più attento agli aspetti sociali dell’attività d’impresa,
concentrandoci sulle prassi comunicative che rendono effettivo tale
approccio.
Nelle conclusioni, infine, tireremo le somme di quanto analizzato,
facendo il punto su quelli che sono i problemi ancora aperti e le
prospettive di sviluppo della situazione attuale, favorevolmente
orientata al raggiungimento di quella massa critica necessaria al pieno
dispiegamento delle potenzialità della rendicontazione sociale.
Vedremo come tale massa ricopra un ruolo fondamentale affinché alle
pratiche della Corporate Social Responsibility venga riconosciuta
piena dignità, in quanto efficaci strumenti di democratizzazione del
sistema economico, con tutte le conseguenze positive che ciò può
comportare.
* * *
11
Prima di proseguire, un doveroso ringraziamento va a quanti hanno
contribuito alla stesura del presente lavoro. Il primo, sentito
ringraziamento va a Diego Lanzi, per l’interessamento e la
disponibilità, senza i quali probabilmente annasperei ancora nel mare
magnum universitario, scrutando l’orizzonte in cerca di incerti
approdi. Grazie poi a Mario Viviani, Antonio Matacena e Giangi
Milesi, interlocutori competenti ed istrionici, per avermi concesso
alcuni minuti, quando non intere ore, del loro preziosissimo tempo, e
per la chiarezza con cui hanno saputo introdurre una profana, come
chi scrive, alla complessità delle logiche aziendali.
Grazie di cuore, poi, a tutte quelle persone senza le quali non so chi,
né dove, sarei, a cominciare dalla mia scalcagnata famiglia, i miei
genitori, i miei altissimi fratelli, la mia impareggiabile sorellina,
nonno Paluf e tutto il gineceo sparso per il mondo.
Grazie poi ai miei compagni di viaggio, dentro e fuori l’Università. A
chi ha condiviso con me questi anni di questa Bologna, a cominciare
da piccola Giò, Giuppe e Tushio, compagni di esplorazione della rossa
Emilia.
Grazie alla mia seconda famiglia bolognese, a fatine dai capelli rossi,
aspiranti muse e fanciulle dagli occhi d’ostrica, per infinite ragioni
impossibili da spiegare.
Grazie al forno del piano di sotto, per aver smesso di funzionare in
una giornata di primavera. Grazie agli amanti delle formiche che
regalano ceste e campanelli, a chi si camuffa tra i mirtilli e da lì
sbircia l’universo. Grazie a chi se ne sta per andare, perché comunque
vada ci saremo divertiti.
Grazie a chi intreccia emozioni come fili colorati, e sa perdere il
bandolo della matassa. Grazie a Silvia, che sa amare gli orsetti, e a
Ilaria, perché insieme salveremo il mondo. Grazie a Luca, che in
mezzo a mille dice sempre la cosa giusta.
12
Grazie agli spagnoli e agli utrechtiani, e a chi in ordine sparso ha
condiviso con me pezzetti di strada. Grazie a Ranzo e Alino che tanto
si amano, al mio figlioccio Domenico, a Carmela, Giovanni, Tecla,
Manu, Pier, Virna e Diego.
E grazie, infine, a tutti quelli che mi sono scordata, perché, che ci
volete fare, è tutta colpa dello stress da tesi.
13
Capitolo primo
LA RESPONSABILITÀ SOCIALE D’IMPRESA
1.1. Etica ed economia
Negli ultimi anni i fenomeni di internazionalizzazione e
globalizzazione dei mercati hanno portato le economie a intensificare
gli scambi e a competere in aree più vaste rispetto alle consuete realtà
nazionali. I confini geopolitici hanno perso progressivamente
importanza nella delimitazione dello spazio entro cui sviluppare le
relazioni commerciali, politiche e sociali, lasciando il posto a un
modello di economy without society.
Di conseguenza è sorta nelle imprese l’esigenza di studiare in maniera
più accurata il lancio dei prodotti, i mercati, gli strumenti finanziari, le
risorse umane e strategiche presenti nelle diverse culture nazionali.
Ciò ha generalmente portato a un’estrema frammentazione dei
processi produttivi, suddivisi e deterritorializzati in base alle
possibilità di abbattimento dei costi dei fattori produttivi (materie
prime, manodopera, disponibilità di infrastrutture).
Se, in un primo momento, vi è stato un consenso unanime nel ritenere
il modello capitalistico l’unico in grado di permettere la
massimizzazione dei benefici economici, in seguito il nuovo scenario
di riferimento ne ha evidenziato contestualmente i limiti, che hanno
inciso sul benessere della collettività: le esternalità negative, l’assenza
di equità, il mancato rispetto delle leggi, la criminalità fiscale, il
permanere delle condizioni inique dei lavoratori in alcune aree del
pianeta, lo sfruttamento dei bambini, la discriminazione razziale,
sessuale, religiosa e, infine, l’incolmabile divario nelle produzioni e
nei consumi tra Nord e Sud del mondo.
Per questi motivi all’alba del terzo millennio si vanno sempre più
affermando i principi del rispetto dell’etica, della socialità e
14
dell’ambiente, valori a lungo tralasciati per seguire la strada del
profitto e del tornaconto aziendale.
L’etica come teoria e disciplina filosofica autonoma nasce con
Aristotele, e si occupa dell’agire umano o, più precisamente, della
prassi necessaria ad assicurare una vita portata a buon fine per un
cittadino della comunità della polis greca; è quindi essenzialmente
rivolta al comportamento individuale all’interno della struttura sociale
di riferimento: “chi non può entrare a far parte di una comunità, chi
non ha bisogno di nulla, bastando a se stesso, non è parte di una città,
ma è una belva, o un dio” (Politica, I, 2, 1253°, 27-30).
L’innovazione portata dal pensiero aristotelico è stata pertanto quella
di sottolineare come l’agire individuale non possa essere scisso
dall’agire collettivo (oggetto della Politica), in quanto cosa sia
“giusto” per il singolo viene determinato da un complesso di regole e
norme sociali dalle quali l’individuo non può prescindere, e delle quali
deve tenere conto nel suo agire, privato quanto pubblico.
La parola etica attualmente, nel mondo finanziario, ha una
connotazione meno ampia riguardo al suo naturale posizionamento
filosofico, a causa della distanza venutasi a creare tra etica ed
economia. E’ giunto però il momento di allargarne l’area di
pertinenza: le imprese non possono più limitarsi al concetto di
efficienza nella valutazione del loro operato, ma devono anche
introdurre parametri adeguati per misurare il contributo apportato al
benessere collettivo. L’azienda, infatti, è una realtà in cui si realizzano
i bisogni umani, nel cui ambito deve pertanto rientrare la
considerazione dei risvolti morali della sua attività.
Anche negli studi economici, e in particolare in quelli che riguardano
la realtà aziendale, assumono sempre maggiore rilevanza gli ambiti di
applicazione dell’etica e le relative classificazioni (etica
dell’economia, dell’impresa, business ethics), nonché due dimensioni
dell’etica particolarmente interessanti ai nostri fini: quella sociale e
quella ambientale.
A metà degli anni Settanta, la Securities and Exchange Commission
statunitense – su richiesta del Natural Resources Defence Council –
15
introduce alcune variabili sociali tra le informazioni che le imprese
quotate dovrebbero offrire agli investitori e al pubblico. Così negli
Stati Uniti iniziano a circolare le tematiche della business ethics e
della corporate responsibility, che si diffondono successivamente in
tutti i Paesi avanzati. Le imprese, infatti, assistono ad uno
sconvolgimento radicale della concezione del loro equilibrio, in base
al principio secondo cui il successo non deriva più – non solo – dal
perseguimento di obiettivi di natura prettamente economica, quanto
dal rispetto delle funzioni sociali conseguente al fatto di essere inserite
in un contesto esterno, con il quale instaurano complesse ed articolate
relazioni.
Il nuovo paradigma basato sulla social responsibility non mette tanto
in discussione il mercato globale o la centralità dell’attività produttiva,
quanto le modalità di sviluppo dell’economia basate sullo sfruttamento
intensivo non solo dei fattori produttivi elementari (capitale e lavoro),
ma anche delle risorse naturali, che vanno progressivamente
assottigliandosi, con conseguenze disastrose sull’ampliamento delle
disuguaglianze socio-economiche tra i paesi avanzati e in via di
sviluppo, e sullo svilimento della carrying capacity del pianeta.
I costi sociali e le diseconomie esterne connesse all’attività delle
imprese, come i disastri ecologici, l’utilizzo di lavoro minorile e lo
scarso rispetto di norme di sicurezza sul lavoro da parte dei
subcontractors, le operazioni finanziarie speculative che provocano
forti turbolenze nei mercati finanziari e nei sistemi sociali dei Paesi in
via di sviluppo. Il sostegno a governi non democratici o che praticano
politiche di discriminazione, le campagne di pubblicità ingannevole,
sono denunciati da agenzie internazionali come l’Organizzazione
Mondiale della Sanità (OMS) e l’International Labour Office (ILO),
da gruppi di opinione, movimenti di protesta (new global), e
organizzazioni non governative, quali Greenpeace o Amnesty
International. La competenza di tali organizzazioni è cresciuta di
molto negli ultimi anni, come dimostrato dalla loro massiccia presenza
all’ultimo forum di Davos, nonché dalla progressiva elaborazione di
proposte sempre più specifiche e accurate dal punto di vista tecnico,
16
anche in settori estremamente specialistici – si pensi all’introduzione
della tassa sulle transazioni valutarie finalizzata a porre un freno alle
speculazioni finanziarie, proposta la prima volta (1972) dal premio
Nobel James Tobin e ripresa dalla Ong Attac, che ne ha fatto la propria
missione.
Alla luce dei molteplici cambiamenti in atto è dunque diventato
indispensabile integrare la dimensione economica con quella sociale
ed ambientale (approccio noto come triple bottom line) affinché ogni
attività aziendale contribuisca ad aumentare il benessere collettivo,
producendo miglioramenti non più solo di tipo quantitativo, ma con
riferimento anche al valore d’uso dei prodotti, e a dimensioni quali il
loro impatto ambientale, il che consente di tener conto dei limiti che la
natura e le regole collettive impongono per assicurare a tutti un
miglioramento della qualità di vita.
Si rende necessario inoltre garantire parità di accesso alle risorse da
parte degli attuali cittadini della Terra, senza distinzione rispetto al
luogo o al paese in cui vivono, evitando il perpetuarsi di condizioni di
estrema povertà per alcune fasce di popolazione (equità
intragenerazionale), oltre alla necessità di garantire alle generazioni
future la possibilità di soddisfare i propri bisogni in termini materiali
(equità intergenerazionale). L’armonia, la democrazia, la sicurezza, la
libertà rappresentano valori da preservare e conservare, al pari delle
risorse. E’ giunto il momento di abbandonare il modello economico “a
doppia velocità” [Carley, Spapens 1999], nel quale le imprese nei
Paesi industrializzati, insieme a quelle di un piccolo gruppo di nazioni
emergenti, godono di elevati livelli di crescita economica e
tecnologica impedendo la realizzazione del potenziale di sviluppo
delle popolazioni dei Paesi in via di sviluppo (PVS) in Africa, Asia e
America Latina.
Strettamente collegato all’operato dell’impresa è il concetto di
corporate citizenship, inteso come una vera e propria cittadinanza
dell’impresa, considerata alla stregua di un qualunque soggetto agente
nella società. Pertanto, l’operato aziendale viene valutato innanzitutto
17
come derivante da un membro della collettività e solo successivamente
come frutto di un’attività produttiva. Ciò rafforza i legami territoriali
dell’ente economico e lo spinge verso il rispetto delle regole sociali e
delle consuetudini condivise.
A tale proposito la rivista americana Business Ethics ha elaborato una
classifica delle prime 100 “Best Corporate Citizens”, sulla base di un
campione di 650 società, attribuendo un punteggio basato sull’analisi
di cinque aree di riferimento: l’ambiente, il rapporto con le comunità
locali, le relazioni con i propri dipendenti, i clienti e il rispetto delle
diversità. Le aziende che si sono posizionate ai primi 25 posti di
questa prestigiosa graduatoria sono elencate nella Tabella 1.1.
La dimensione etica dell’impresa riguarda anche la sostenibilità,
ovvero il legame tra le attività umane e le loro conseguenze, che
devono essere tali da permettere alla vita di continuare, agli individui
di soddisfare i loro bisogni e alle diverse culture di svilupparsi, ma in
modo tale che le variazioni apportate non modifichino il contesto
biofisico globale. Il concetto di sviluppo sostenibile è stato portato per
la prima volta all’attenzione dell’opinione pubblica e degli studiosi nel
rapporto della Commissione Mondiale per l’Ambiente e lo Sviluppo
nel 1987 (Rapporto Brundtland, Nazioni Unite, 1987). Dopo la
Conferenza di Rio de Janeiro (Conferenza delle Nazioni Unite, 3-14
giugno 1992), lo sviluppo sostenibile è divenuto un obiettivo
dichiarato delle politiche economiche e ambientali dei vari Paesi e
degli accordi internazionali aventi per oggetto materie ambientali. Da
notare come sostenibilità non significhi necessariamente che
l’ecosistema debba essere conservato intatto, bensì che nel computo
dei costi-opportunità dello sviluppo sia tenuta nella debita
considerazione l’esigenza di preservare la base ecologica per lo
sviluppo futuro.
18
Tabella 1.1 – La classifica delle prime 25 società etiche in America (Best Corporate
Citizens 2003. Da www.business-ethics.com).
Posizione Compagnia Punteggio Reddito (mil $)
1 General Mills 1.550 5,450
2 Cummins, Inc. 1.494 5,681
3 Intel 1.353 26,539
4 Procter&Gamble 1.345 39,244
5 IBM 1.338 85,866
6 Hewlett-Packard 1.332 45,226
7 Avon Products 1.298 5,995
8
Green Mountain
Coffee Roasters
1.264 96
9 John Nuveen 1.245 371
10 St Paul’s 1.203 8,943
11 AT&T 1.182 52,550
12 Fannie Mae 1.179 50,803
13
Bank of
America
1.153 52,641
14 Motorola 1.106 30,004
15 Herman Miller 1.106 2.236
16 Expedia 0.992 161
17 Autodesk 0.990 936
18 Cisco Systems 0.986 22,293
19
Wild Oats
Market
0.983 893
20 Deluxe 0.960 1,278
21 Starbucks 0.950 2,649
22 Eastman Kodak 0.948 13,234
23 J M Smucker 0.946 651
24 Ecolab 0.941 2,355
25 Spartan Motors 0.940 226