3allora dobbiamo solo fermarci un attimo e tendere l’orecchio per
ascoltare la sua voce che, sebbene lontanissima, o meglio proprio
perché lontanissima dal ritmo incalzante della società tecnologica che
corre e ci rincorre, ci permette di prendere coscienza di quello che
siamo e di quello che abbiamo intorno. La città è il luogo dove
maggiormente l’uomo esprime se stesso; “animale sociale”, da sempre
si organizza in gruppi, comunità, società, città, e la costruisce a sua
misura, la crea “a sua immagine”.
Se ne consideriamo l’origine etimologica, “civitas”, propriamente
aggregazione di “cives”(civiltà ha la stessa derivazione) ci rendiamo
conto che essa è anzitutto una società di individui che aderiscono ad un
ideale di ordine razionale, hanno una vita sociale organizzata e sono
consapevoli di averla.
“la città esiste per natura e l’uomo è per natura un animale
politico. La città è la condizione della famiglia e dell’uomo
singolo. Se infatti ognuno non basta a se stesso, sarà rispetto
alla città nella stessa condizione della parte col tutto. Chi non
è adatto a partecipare alla vita cittadina, o non ne ha bisogno,
non può nemmeno dirsi propriamente un uomo,ma piuttosto
una bestia o un dio.”
2
2
Il brano di Aristotele è riportato da Benevolo in La città nella Storia d’Europa, Roma-Bari,
Laterza 1993, p. 12.
4In passato la “Civitas terrena” era considerata come prefigurazione,
lotta e impegno verso il raggiungimento della “Civitas Dei”, non tanto
con l’illusione di realizzare sulla terra la sua perfezione, ma di certo con
la speranza di raggiungere un livello di vita armonioso proprio in
quanto razionale.
Man’s city and temple, as well as the entire region he
inhabitants, are built on celestial models. The act of creation
was a divine act; when man creates, he repeats the divine act.
3
Per l’uomo moderno invece la città ha imboccato la direzione
esattamente opposta, tende cioè verso quella che definiremmo la
“Civitas Infera”. Essa è ormai il luogo da cui si tenta di evadere con la
maggior frequenza possibile in quanto l’uomo rispecchiandosi nelle sue
luci, nel suo ritmo, nei suoi colori non si ritrova più.
“The city represents a separation from the world of nature,
the imposition of man’s will on a natural order created by
a divinity[…] the founding as an act of interference in the
divine order also involves a sense of guilt. This guilt
might be connected with the curious myth that so many
ancient cities were founded by murderers. In Genesis,
the first city founder is Cain; Romulus was also a fratricide
3
Burton Pike, The Image Of The City In Modern Literature, Princeton, Princeton University,
1981, p. 4. (la città e il tempio dell’uomo, proprio come l’intera regione, sono costruiti su
modelli celestiali. L’atto della creazione era un atto divino; quando l’uomo crea, lui ripete
l’atto divino.)
5 founder, and Theseus a parricide founder”
4
Questa è la doppia coscienza dell’uomo contemporaneo, costretto ad
accettare il compromesso di vivere nella “giungla delle città” sognando
di andare a ritrovare se stesso in un mondo il più possibile
incontaminato dalla civiltà.
Attraverso esempi tratti dalla storia della letteratura si
dimostrerà come il rapporto tra l’uomo e il suo mondo è sempre stato
dialettico e basato su un sentimento contrastante, di amore–odio: amore
perché comunque l’uomo contribuisce all’opera di creazione ogni volta
che interviene e modella ciò che gli sta intorno, sentendosi creatore e
padrone; ma nello stesso tempo fa esperienza di un sentimento di odio
per il “suo” ambiente proprio perché lo ama e lo vorrebbe diverso,
diversità che non riesce a realizzare probabilmente perché contrasta
con i sogni, o gli interessi, di altri suoi simili.
4
Ivi.,p. 5. (“La città rappresenta una separazione dal mondo della Natura, l’imposizione della
volontà dell’uomo sull’ordine naturale creato da una divinità[...]La fondazione come atto di
interferenza nell’ordine divino implica anche un senso di colpevolezza. Questa colpevolezza
può essere connessa con il mito curioso che così tante città antiche sono state fondate da
assassini. Nella Genesi, il primo fondatore della città è Caino; Romolo era anche un fratricida
e Teseo un parricida.”)
6 Samuel Johnson ha dedicato un poemetto di 263 versi alla sua
città e lo ha intitolato “London
5
”. Siamo nel settecento, periodo
filosofico e sociale. Già allora si ponevano le basi di una duplicità che
sarebbe diventata conflitto e poi crisi e tragedia nel nostro secolo: la
città si configurava come emblema di dolore, sebbene essenzialmente di
carattere morale, e veniva contrapposta al rustico, puro mondo della
campagna. Questa immagine della città come simbolo di “experience”
sopravvive durante il Romanticismo sempre in contrapposizione ad un
altro mondo, quello della “innocence”.
L’Ottocento, momento storico di grandi paure, ma anche di
immenso coraggio nell’affrontare con spirito di verità i temi più vicini e
più sentiti dall’uomo nuovo, pone le basi di quella problematicità
ontologica che esplode con grande violenza nel Novecento, e che
vediamo testimoniata nelle voci di grandi artisti. In particolare, in
quegli anni difficili del primo dopoguerra, un grande poeta, T. S. Eliot,
ha creato quel magnifico manifesto del disagio umano che è The Waste
Land, affascinante poema in cui abbiamo la sensazione di essere
5
Samuel Johnson, “ London: A Poem in Imitation of the Third Satire of Juvenal “ , in The Poems of
Samuel Johnson, D. Nichol Smith and E.L. McAdams (eds), Oxford, Clarendon Press, 1941
7trasportati in un altro luogo e in un altro tempo a causa dei mille
riferimenti mitologici, ma che invece presenta nudamente la nostra
realtà, la “city life” del nostro tempo, la condizione di limbo in cui
viviamo, o meglio in cui crediamo di vivere, mentre in effetti ci
limitiamo a condurre un’esistenza puramente vegetativa, lontana dai
rapporti umani, tutta dispersa nella velocità della “Unreal city”,
incapaci di trovare il tempo e lo spazio per la nostra dimensione umana.
Questo è dunque il messaggio che a prima vista sembra venirci
dai poeti, il cui ruolo è stato sempre quello di rivelarci, più o meno
esplicitamente, delle verità di cui o non siamo coscienti, oppure non
sappiamo esprimere a parole. Questa indagine però andrà oltre e
mostrerà come la città tanto odiata e disprezzata, eretta a simbolo di
morte e desolazione, è comunque una realtà essenziale all’uomo
moderno, luogo in cui si gioca tutta la sua esistenza, rappresenta la
vitalità, l’impegno, la realizzazione, l’affermazione, la vita stessa
dell’uomo. E’ vero che la natura ci restituisce la nostra identità, ci fa
sentire parte del cosmo, ci riporta alla nostra innocenza e ci dà aria
pulita da respirare, ma saremmo veramente capaci di rinunciare alle
nostre città? La risposta forse in un racconto di Voltaire , “The World as
8it is“:
6
la storia di Babouc incaricato da un angelo, Ituriele, di visitare
la città di Persepolis per poi farne un resoconto in base al quale si
deciderà se distruggerla o semplicemente correggerla. Nel racconto si
nota l’ambivalenza di Babouc colpito dal comportamento
contraddittorio dei cittadini che si mostrano nella loro totalità, e come
tali sono capaci di disgustose bassezze, ma anche di sublimi virtù. Alla
fine Babouc non sarà capace di giudicare la città di cui anzi si
innamora: i vizi e i piaceri della città lo hanno rapito al punto che egli
saprà giustificarne tutti gli errori. Il suo resoconto all’angelo, sotto la
forma simbolica di una statua composta di metalli, pietre e terra sia
pregiati che vili, presenta i due aspetti della vita cittadina, e Ituriele
capisce che non si può rompere quella statua solo perché non è fatta
esclusivamente di gioielli e pietre preziose.
E’ stato seguito un excursus cronologico che parte dalla
considerazione del tema e della problematica della città durante il
Settecento, periodo aureo della letteratura inglese, analizzando due
poeti che si accomunano per un atteggiamento ambiguo nei confronti di
6
Francois Marie Voltaire.“The world as It Is”,1748, cit. in. Burton Pike , The Image of the City
in Modern Literature, op. cit., p. 30.
9Londra, Samuel Johnson e James Thomson.
In seguito William Blake con le sue “visioni” lancerà i primi
segnali di una crisi della ragione e della cieca fiducia nelle scienze
umane; egli riesce a rendere un’immagine diversa della città, una
fotografia che si dissolve improvvisamente nell’aria, senza lasciare
traccia e senza la pretesa di trovare risposte. Nel 1802 William
Wordsworth, poeta romantico per eccellenza immerso nella
contemplazione della natura, ci mostra una Londra addormentata,
osservata dall’esterno.
“he is ostensibly seeing what we artlessly call in everyday
language “the heart of the city” from a point of suspension
in both space and time above the water of the river.
7
”
Tutto è fermo, la civiltà, il frastuono, tutto ciò che è negativo
viene lasciato fuori, quasi per non disturbare la quiete notturna della
città. Ma il disagio non può essere represso, e nel Novecento la voce di
T. S. Eliot urlerà la caduta di tutte le speranze; sentimenti di solitudine e
di alienazione sono tutto ciò che è rimasto nella sua Terra Desolata.
7
Burton Pike, The Image of the City in Modern Literature, op. cit., p.28. ( egli sta apparentemente
guardando ciò che noi ingenuamente chiamiamo nel linguaggio quotidiano ”il cuore della città” da
un punto di sospensione sia nello spazio sia nel tempo sulle acque del fiume”)
10
CAPITOLO I
- LA CITTA’ CORROTTA, LA CITTA’ SPLENDENTE -
La presenza della città nell’immaginario settecentesco appare
subito molto evidente: considerando le voci di alcuni fra i massimi
scrittori di questo periodo notiamo che in molti hanno dedicato
un’opera a questa grande realtà che caratterizzava ormai pienamente la
vita intellettuale, sociale, e soprattutto economica. Nel 1667 John
Dryden è forse la prima persona a dedicare una poesia a Londra:
“Annus Mirabilis: The Year of Wonders 1666. To the Metropolis of
Great Britain, the most renowned and late flourishing City of London”;
Burton Pike afferma:
Dryden celebrates London for having survived a war, a plague,
and a devasting fire.
8
8
Ivi, p. 7 (“Dryden celebra Londra per essere sopravvissuta a una guerra, a una pestilenza, e ad
un fuoco devastante”)
11
La seconda metà del secolo precedente aveva visto Londra
diventare sempre più il centro della vita intellettuale e culturale del
paese. L’influenza della Francia nel ‘600 con la seduzione dei suoi
modi gentili, gli ideali di arguzia (wit) ed edonismo, trovò terreno
fertile nei circoli alla moda di Londra.
9
Qui si sviluppò forte il senso
della vita moderna, libera dal moralismo puritano che aveva additato
perfino nel teatro una fonte sicura di peccato e dissolutezza. Secondo
quanto afferma David Daiches
“more than at any precious time in the history of English Literature,
the most characteristic Restoration Literature was metropolitan
10
.
La vita cittadina acquista un’importanza sempre maggiore in
virtù della sua espansione, del suo voler essere al passo con i tempi.
L’incendio di Londra del 1666 diventa l’occasione propizia per
procedere ad una progettazione e regolamentazione della città che non
sarà mai più limitata alla zona della city, ma vedrà una lenta espansione
9
B.De Luca, U. Grillo, P. Pace, S. Ranzoli, Views of Literature, vol 2, Torino, Loescher Editore.
1995. pp. 181-190.
10
David Daiches , A Critical History of English Literature, vol 3, London , Secker & Warburg, 1983,
p. 538. (“Più che in ogni epoca precedente della storia letteraria inglese, la letteratura della
Restaurazione è stata metropolitana “).
12
ed esploderà in maniera selvaggia all’epoca della rivoluzione
industriale.
Tuttavia con il suo mezzo milione di abitanti alla fine del‘600,
Londra poteva ancora offrire tranquillità e piacere all’interno delle sue
strade, fra le sue colline e nell’acqua pulita del suo Tamigi. Essa
lentamente assumeva un significato speciale, diventava il simbolo della
vita nazionale: le imprese commerciali, la turbolenza della folla, gli
schemi della politica, la curiosità intellettuale, il gusto del divertimento,
tutto contribuiva a rendere più forte l’impulso di vita che, nonostante il
suo aspetto sofisticato e cittadino, rimaneva essenzialmente intimo,
rustico, popolare. Tale armonia fra lo spirito aristocratico e quello
popolare sembra essere una peculiarità dell’Inghilterra anche nel ‘700.
Secondo Trevelyan infatti
“under the first two Georges there was no class hatred, and though
highest and lowest were apart, there were infinite gradations and no
rigid class barriers as on the continent “
11
.
11
George Macaulay Trevelyan. .A Shortened History of England, Harmondsworth, Penguin, 1983,
p.314 ( sotto i due Giorgio, non esisteva odio di classe e, sebbene ci fossero la classe più alta
e quella più bassa, c’erano pure infiniti gradini, e non esistevano rigide barriere come sul continente.)