L'educazione in carcere: realtà o utopia?

La Labeling Theory nasce negli anni Sessanta, negli Stati Uniti ad opera di studiosi come Becker, Lemert, Goffman e Kellens. In contrapposizione alle teorie ‘strutturali’, interessate all’eziologia della devianza, i ‘labeling theorists’ affrontano la tematica della devianza focalizzandosi sul ‘processo’ nel quale acquistano importanza sostanziale i meccanismi di etichettamento e stigmatizzazione dei quali è oggetto la condotta deviante. Questa teoria si ripropone di osservare la devianza spostando l’attenzione dall’attore all’opinione pubblica.
La devianza è creata dalla società nel momento in cui i gruppi sociali stabiliscono le regole, di conseguenza ciò che è giusto quindi socialmente accettabile e ciò che non lo è; questo determina che colui che trasgredisce viene etichettato come outsider. La devianza non è quindi un attributo intrinseco dell’azione ma piuttosto l'effetto dell'applicazione delle regole vigenti in un determinato contesto, in un definito momento storico, a cui si correlano specifiche sanzioni.
La grande innovazione sotto il profilo metodologico, rispetto alle altre teorie, sta in un radicale cambiamento di prospettiva che sganciandosi dall’utilizzo modelli più o meno deterministici e causali vuole considerare la reazione sociale come motore della costruzione dell’outsider. In altre parole la teoria sostiene che non è la devianza che mette in moto il meccanismo del controllo sociale bensì è quest’ultimo che genera la devianza.
La definizione di Becker esprime bene il significato di questo nuovo orientamento teorico: ‘La devianza non è la qualità di un atto compiuto da una persona, ma piuttosto la conseguenza dell'applicazione di norme di sanzioni da parte di alcuni nei confronti di un trasgressore (offender). Il deviante è uno a cui questa etichetta è stata applicata con successo; il comportamento deviante è il comportamento che le persone così etichettano’.