Il ruolo dell'Italia nel commercio internazionale di armi
Breve storia dell’industria militare italiana
A partire dall’unificazione nel 1861 l’Italia ha dovuto affrontare il passaggio da una società strettamente rurale a una industriale. In questo periodo di moderata crescita industriale l’Italia tenta di entrare a far parte a pieno titolo del Sistema Internazionale conducendo guerre coloniali in Africa. Queste guerre minori iniziano a fare innalzare le Spese per la Difesa che continueranno a crescere fino al picco del 1912, anno in cui le forze armate italiane sono nel pieno della guerra in Libia. Nonostante questa crescita le spese per la difesa arrivarono ad assorbire il 20-25% delle spese dello Stato e solo il 3% del PIL, sottolineando come nonostante le ambizioni, il Bel Paese non abbia mai avuto i mezzi per costruire un apparato militare adeguato ai propri obiettivi. Sull’onda delle guerre di inizio XX secolo inizia a prendere corpo l’industria navale e quella della lavorazione dell’acciaio: questo permise alla Marina Italiana di aumentare il numero e la tecnologia a bordo delle proprie navi. Ma è con lo scoppio della I Guerra Mondiale, e in seguito col periodo Fascista, che le spese per la difesa e l’industria militare raggiungono alti livelli. Nel 1918 le spese della difesa arrivarono a toccare il 30% del PIL e il 70% delle spese dello Stato. Nacque dal nulla l’industria aereonautica segnando un’espansione industriale mai rilevata in precedenza; ma il tutto avveniva in un contesto di forte protezionismo che aveva come conseguenza prezzi molto alti e un sistema monopolistico alla ricerca di facile profitto. Partendo da questi deboli presupposti l’industria italiana soffre in modo impressionante la Grande Depressione del 1929 e solo nel 1935 la Spesa per la Difesa torna a crescere. Il livello però è molto al di sotto delle ambizioni che l’Italia si vantava di avere in quel periodo, pubblicizzata da un Regime Fascista molto più attento alla fase di propaganda che non a quella di attuazione.
Un’altra caratteristica della SPD italiana di quel periodo è che non aveva l’obiettivo di costruire nuove e solide fondamenta per la costituzione di uno strumento militare all’avanguardia, ma si limitava a coprire le spese che mano a mano venivano richieste dall’esercito. È anche per questo che l’Italia esce estremamente indebolita prima dalla guerra in Abissinia e poi da quella civile in Spagna. Quando ormai i sentori di una nuova Guerra Mondiale furono chiari, l’industria italiana fu stimolata e la politica del Governo Fascista fu quella di promuovere la esportazioni di ogni tipo e ovunque possibile. Tutto questo a discapito sia dell’efficienza degli armamenti, sia di una ragionevole dislocazione dei sistemi d’arma. È così spiegato il motivo per cui nonostante la grande crescita registrata dall’industria militare italiana nel 1939, questa risultasse una perdente per grado di tecnologia rispetto agli altri competitors europei e d’oltreoceano. Con la fine della Seconda Guerra Mondiale e la relativa crisi postbellica, l’economia italiana venne ridimensionata. La produzione militare si riprese solo dopo l’adesione alla NATO (1949) e l’abolizione delle misure restrittive del trattato di pace (1951). È proprio grazie alla NATO che l’Italia ricomincia a esportare componenti militari, per lo più prodotti su licenze concesse da altre aziende dei Paesi alleati. Nella metà degli anni ’50 cominciano anche ad apparire produzioni nazionali come obici e aerei, ma è grazie ai finanziamenti degli Stati Uniti attraverso il MAP (Military Aid Program) che si rafforzano le esportazioni verso i paesi dell’Alleanza.
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Il ruolo dell'Italia nel commercio internazionale di armi
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Informazioni tesi
Autore: | Matteo La Frazia |
Tipo: | Laurea I ciclo (triennale) |
Anno: | 2008-09 |
Università: | Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano |
Facoltà: | Scienze linguistiche e letterature straniere |
Corso: | Esperto linguistico per le Relazioni Internazionali |
Relatore: | Raul Caruso |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 60 |
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