La recezione del "non finito" di Michelangelo nel Cinquecento
Il non finito attraverso le fonti cinquecentesche
Nell’inquadrare l’opera di Michelangelo nel contesto storico e alla luce della sua esperienza umana, si deve necessariamente tener conto di quelle caratteristiche umane, psicologiche e religiose che contraddistinsero il modo di essere del Maestro rinascimentale. Sotto questo aspetto diventa particolarmente importante quanto emerge dalla documentazione coeva e quanto altresì affiora dalla produzione letteraria dello stesso artista. Per Michelangelo, l’arte di comporre versi diviene un’intima conversazione con se stesso nei confronti dei forti sentimenti che nell’esercizio delle arti non avrebbero potuto manifestarsi a pieno. La poesia diviene uno sfogo e un sollievo per il turbato spirito dell’artista ed è grazie all’analisi di essa che potemmo avvicinarci ai suoi pensieri, alla sua sofferenza e ai suoi desideri e tramite questi cercare di comprendere l’incompiutezza delle sue opere. Ascanio Condivi nella biografia dell’artista attesta il proposito poetico del Buonarroti ma precisa che scrivere era per Michelangelo un diletto e non una professione in quanto l’artista stesso, quasi autocriticandosi, riconosceva la sua inesperienza nel comporre rime:
«Ha preso piacere dalla lezione degli scrittori tanto di prosa quanto di versi, tra i quali ha specialmente ammirato Dante, dilettato dal mirabil ingegno di quell’uomo, qual egli ha quasi tutto a mente, avenga che non men forse tenga del Petrarca. E non solamente s’è dilettato di leggerli, ma di comporre anco tal volta, come si vede per alcun sonetti (…). Ma a questo ha atteso più per diletto che perché egli ne faccia professione, sempre sé stesso abbassando e accusando in queste cose la ignoranza sua»120.
Oltre a Dante e a Petrarca, l’artista, come attesta Condivi:
«Ha similmente con grande studio e attenzione lette le Sacre Scritture, sì del Testamento Vecchio come del Nuovo, e chi sopra di ciò s’è affaticato, come gli scritti del Savonarola, al qual egli ha sempre avuta grande affezione, restandogli ancora nella mente la memoria della sua viva voce»121.
Affermazione illuminante per comprendere il malessere che caratterizzò l’ultima parte della vita dell’artista nella quale si riscontra la produzione di opere incompiute come sostiene Giorgio Vasari: «e' sia il vero, delle sue statue se ne vede poche finite nella sua virilità, ché le finite affatto sono state condotte da lui nella sua gioventù»122. Michelangelo viene travolto da una spietata passione religiosa che l’artista viveva con sofferenza e che nacque nel corso della sua vita in particolare con l’incontro di Vittoria Colonna che spinse l’artista ad avvicinarsi alle Sacre Scritture, le quali, discordanti con la sua arte, gli provocarono presumibilmente un malessere morale che lo portò a vivere con estrema difficoltà la sua vecchiaia come si riscontra in una missiva che l’artista spedì al suo «amico caro»123 Giorgio Vasari il 23 febbraio 1556: «[…] lasciarmi vivo in questo mondo traditore, con tanti affanni: benché la maggior parte di me si è ita seco, né mi rimane altro che un’infinita miseria»124. In alcuni componimenti dell’ artista, come ad esempio Di morte certo, ma non già dell’ora e Giunto è già ’l corso della vita mia, si attesta questo turbamento. Nello specifico il primo brano delinea l’inquietudine del Buonarroti, il quale, rendendosi conto che la sua fine è quasi giunta si sente intrappolato dal desiderio di restare sulla terra e il voler raggiungere Dio:
[…]
Al fine di meglio illuminare il tema del non finito come concezione prettamente artistica e non filosofica, ci si è avvalsi principalmente della voce di alcuni degli intellettuali più rappresentativi del Cinquecento, primo fra tutti Giorgio Vasari, il quale, nella riedizione del “Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori” (1568) afferma che Michelangelo:
«Ha avuto l’immaginativa tale e sì perfetta, che le cose propostosi nella idea sono state tali che con le mani, per non potere esprimere sì grandi e terribili concetti, ha spesso abandonato l’opere sue, anzi ne ha guasto molte, come io so che, innanzi che morissi di poco, abruciò gran numero di disegni, schizzi e cartoni fatti di man sua, acciò nessuno vedessi le fatiche durate da lui et i modi di tentare l’ingegno suo, per non apparire se non perfetto»132
Da questa prima importante testimonianza, di colui che per giunta millantava un’amicizia con l’artista, possiamo comprendere che Michelangelo abbandonava le sue opere a causa del suo perfezionismo che costringeva l’artista a considerare la propria opera imperfetta. A questo proposito è significativo quando sostiene Paola Barocchi: «il Vasari dapprima aderisce, come altrove, alla tesi condiviana dell’incontentabilità dell’artista ma subito dopo la determina come consapevolezza di “errore”»133. La studiosa ci pone davanti ad un interessante mutamento interpretativo dell’aretino il quale inizialmente sembrerebbe concordare con il pittore e amico dell’artista, Ascanio Condivi il quale nella biografia di Michelangelo (1553) afferma:
«Era [Michelangelo] anco di potentissima virtù imaginativa, onde è nato, prima, ch’egli poco si sia contentato delle sue cose e sempre l’abbia abbassate, non parendogli che la mano a quella idea sia arrivata ch’egli dentro si formava»134
La realizzazione insoddisfacente derivante dalla meticolosa concezione artistica del Buonarroti, sembrerebbe la causa dell’abbandono dell’opera da parte dell’artista tuttavia Vasari, essendo Michelangelo l’artista da lui prediletto, lo definisce infatti con l’appellativo
«divino»135, doveva fornire una spiegazione più esaustiva all’insoddisfazione del Maestro:
«come egli [Michelangelo] aveva scoperto una figura e conosciutovi uno minimo d’errore, la lasciava stare e correva a manimettere un altro marmo, pensando non avere a venire a quel medesimo; ed egli spesso diceva essere questa la cagione…d’aver fatto sì poche statue e pitture»136.
120 CONDIVI 1998, p. 61
121 CONDIVI 1998, p. 62
122 VASARI 1550-1568, p. 92
123 MILANESI 1875, p. 539
124 Ivi
[...]
127 GUASTI 1863, p. 173
128 GUASTI 1863, p. XCII
129 GUASTI 1863, p. C
130 Ivi
[...]
132 VASARI 1550-1568,VI, p. 108
133 BAROCCHI 1958, p. 225
134 CONDIVI 1998, p. 64
135 VASARI 1550-1568,VI, p. 140
136 VASARI 1550-1568, VI, p. 92
137 Ivi
Questo brano è tratto dalla tesi:
La recezione del "non finito" di Michelangelo nel Cinquecento
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Informazioni tesi
Autore: | Chiara Norelli |
Tipo: | Laurea I ciclo (triennale) |
Anno: | 2018-19 |
Università: | Università degli Studi di Roma La Sapienza |
Facoltà: | Lettere e Filosofia |
Corso: | studi storico-artistici |
Relatore: | Stefano Pierguidi |
Lingua: | Italiano |
Num. pagine: | 93 |
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